Abruzzo ventritré /fine

Non ho più scritto l’ultimo post dall’Abruzzo, e mi trovo a scriverlo ora, quando sono già da un bel po’ a Roma. Anzi, a dire il vero, mentre scrivo non sono già più a Roma, ma ci tornerò la prossima settimana.

La conclusione di questa meno che mensile esperienza abruzzese è arrivata perché, fondamentalmente, non c’era più bisogno di me. Era pianificato l’arrivo di un sacco di altri volontarî nelle due settimane a venire, e allora ho preferito farmi da parte. Oramai ero diventato amico, sarei potuto restare, ma per cosa?

Sì, le cose stanno così, per quello che ho visto: c’è tanta, tanta gente che vuole darsi da fare. È un gran bene. Le persone si dànno i turni per servire. E la tantissima manodopera genera un servizio ottimo, bagni puliti due volte al giorno, un mensa qualificata, etc. Si tratta anche del tipo di organizzazione, a quello che ho sentito c’è una vera gerarchia del benessere, fra i campi, a seconda della gestione: quelli che funzionano meglio sono quelli della Croce Rossa, poi ci sono quelli dei sindacati (come quello dove stavo io), poi quelli dell’associazionismo cattolico, poi la Protezione Civile (più o meno) direttamente, e infine quelli gestiti dall’Esercito. Dice che chi ha la sfortuna di capitare nelle tendopoli che sono sotto il controllo dei militari ha i servizî peggiori, ed è da lì che arrivano alcuni racconti drammatici.

Ovviamente si tratta, in tutti i casi, di informazioni di seconda mano, perché sono pochissimi i campi in cui c’è un accesso libero – e in tutti i casi per cause di forza maggiore come la comune entrata con un centro commerciale. Io ne ho visti tre, ma ho sentito questi racconti da più persone che hanno lavorato nei vari campi.
Non era efficiente soltanto la macchina dei volontarî, ma anche l’organizzazione: la CGIL è una vera macchina da guerra, e il giorno dopo del terremoto, aveva già spostato sul campo pacchi e pacchi di aiuti. Nei magazzini ci sono decine e decine di scatoloni di medicinali, forse un migliaio di spazzolini, abbigliamento in abbondanza. Quello che ho visto io, mi ha lasciato molto favorevolmente colpito.

È chiaro che la preoccupazione degli aquilani è la ricostruzione, e su ciò sono tutti sfiduciati dalle ripetute promesse – non c’è da biasimarli – ed è sempre scomodo vivere in una tenda, con un bagno comune, e necessariamente a contatto con altre persone. Certo era il minimo indispensabile, ma delle volte anche il minimo indispensabile manca: per dirne una, nell’estate che arriva non se ne sarebbe potuto assolutamente fare a meno, ma c’è un condizionatore in ogni tenda.

Ci sono strutture, e un’idea sempre nuova. Andiamo a prendere la sabbia, ché facciamo un campo da bocce. Due giorni dopo tutti i vecchini erano lì a giocare. Le signore, invece, si dedicheranno all’orto: «che ci si fa con questo pezzo di terra?» «dài, un piccolo orto per le signore anziane».

E poi c’è il capitolo bambini, loro sono davvero contenti: per fortuna, sembra, non si rendano conto di nulla, e il fatto di essere – necessariamente – a contatto con tanti altri bambini, è solo che un bene. È quello che avranno chiesto alle loro madri, tante altre volte. Sono i primi a prendere i nuovi volontarî per mano, e mostrar loro il campo. Se dovessi dire chi è che ne trarrà il meglio, direi i bambini.
Certo, quando la terra trema, sono i primi ad aver paura.

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