Lunedì 20 ottobre

Vetro e ceramiche a Hebron – Diario dalla Palestina 88

Questo post è per il povero Carlo. Il tapino ha una collezione di coffee mug (tazze, quelle americane con il manicone) da tutto il mondo. E perciò mi ha commissionato l’acquisto di una di queste con la bandiera della Palestina. Ora voi direte, ma la Palestina non è (ancora?) uno stato. E io dico, beh non ditelo a me ditelo a lui.

Il problema, come avevo scoperto nella mia precedente visita, è che nonostante il nazionalismo che si vede da entrambe le parti del muro (andando in giro, vedendo tutte le bandiere da entrambe le parti, direste che è perennemente in corso una partita di calcio fra Israele e Palestina, e in un certo senso) non esiste quella tazza, fatta in serie, in tutta la Palestina.
Credevo fosse facilissimo trovarla, d’altronde fanno qualunque cosa con la bandiera palestinese, e invece si trova con simboli della fede, con le città, ma nessuna con la bandiera.

Però è una collezione, e le capisco le ossessioni. Quindi dico, vediamo se la posso ordinare, se chiedo loro di farla. A Betlemme conosco varie persone – oramai amici – che vendono souvenir, pensavo dunque di non avere problemi, specie dopo le rassicurazioni: «la ordiniamo a Hebron, quello è amico mio, vedrai che un favore te lo fa». Me l’hanno detto in più persone, e quando non arrivava beh, domani, inshallah: se Dio vuole.

E qui sorge un altro problema: non solo affidarsi alla volontà Dio per un ordine (ma Inshallah è quasi un intercalare: allora ci vediamo alle 2 domani? Inshallah.) sembra un briciolo scomodante per la divinità, avrà altro da fare, credo.
Ma anche su “domani” ci sono dei problemi, come mi hanno spiegato in Palestina “bukra doesn’t mean tomorrow, it means not today” – Bukra non vuoldire ‘domani’ come insegnano le grammatiche – vuoldire ‘non oggi’.

Così dopo mesi di promessa insoluta mi sono deciso ad andarmela a prendere da me, dice che Hebron è l’unico posto dove farla. E a Hebron, l’unico posto dove fanno questo tipo di cose, è questa fabbrica:

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All’entrata c’è un cartello, con scritto in inglese: per favore entrate e fate tutte le foto che volete:

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Effettivamente vedere queste persone all’opera, lavori di precisione fatti a mano, è molto bello:

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Loro sono molto professionali nel non essere distolti da stranieri fotografanti, e anzi spesso si fermano mentre li fotografi – come a mettersi in posa:

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So bene che, purtroppo, le foto non rendono bene la bellezza di queste operazioni:

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Alla fine, la a-lungo-desiderata coffee mug è questa. Ma ovviamente ci mettono qualche giorno a farla:

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Dipingono gli interni, e dentro ci disegnano la bandiera della Palestina. Un po’ piccolina effettivamente, ma in tutta la Palestina non c’è altro posto.
Sono tornato a mani vuote, dunque, ma con questa foto come bottino, da passare al vaglio del collezionista, per poi andare a ritirarla fra un mesetto.
Quindi Carlo, ti chiedo, Hal a’jabak?

Venerdì 17 ottobre

L’Italia agli israeliani – Diario dalla Palestina 87

Al di là del muro, invece, quello che mi dicono tutti è: «oh, sei italiano, ma che bella lingua che avete». La mia professoressa direbbe che è un peccato che noi – col nostro orecchio abituato – non possiamo sentirlo, non la captiamo quella bellezza nei suoni.

Gli israeliani sono pazzi per l’italiano, quelle cose tipo «dài, dimmi qualcosa in italiano». Che tu, classico, non sai che dire: frasi di circostanza? una poesia? uno scioglilingua? Io ho preso a dire «Guglielmina sul tagliere l’aglio taglia: non tagliare la tovaglia; la tovaglia non è aglio. Se la tagli fai uno sbaglio». L’ho imparata da bambino, e si è sempre rivelata utile.

E tutti ascoltano ammirati, tutti quei “gl”.

Ma la cosa più bella mi è successa a Ra’anana – che io ero solito definire la Piacenza d’Israele in quanto città calma, tranquilla, noiosa. Ma siccome oramai so di avere lettori sia a Piacenza che a Ra’anana, dovrò improvvisare qualche stratagemma per non essere colto in castagna.
Io ho una certa passione per un certo tipo di cose medievali, e a Ra’anana c’è un negozio di “cose medievali” più che bello. Costruito come fosse una foresta, con in mezzo passaggi e ponti, in cui tutto è fatto a forma giusta, e in cui la precisione della bellezza impedisce di essere kitsch.

Ammirato com’ero, iniziai a scambiare due chiacchiere con il proprietario del posto. Ovviamente, non parlando ebraico, comunicavo in inglese: così lui mi chiese di dove fossi. Alla mia risposta cambio completamente atteggiamento. Italiano? Da persona gentile e cordiale, a persona interessata e partecipe; mi disse, alla soglia della deferenza: «ti vorrei fare una domanda». Gli dissi che certo, mi faceva piacere rispondere. E lui, come parlasse a un esperto del campo mi chiese «ti piace il negozio? Ti piace come l’abbiamo fatto?». Io gli dissi che sì, mi piaceva eccome.

Allora lui disse: «questo mi fa enormemente piacere, ed è il complimento più bello che tu potessi farmi. Perché qui abbiamo provato a fare il negozio come voi italiani fate qualunque cosa: prima abbiamo pensato a che fosse bello e poi – forse – che fosse funzionante».

Curva dritta o curva diritta?

Compie un anno un blog che racconta i Balcani come mi piacerebbe essere (e essere stato) in grado di raccontare la Palestina. So che chi legge i miei Distanti Saluti apprezzerà anche i suoi da un’altra zona, quasi altrettanto tumultuosa, del mondo. Qualche volta ha scritto cose su cui non sono d’accordo, ma con l’acume di giudizio che è sempre piacevole leggere; dandomi l’impressione di avere il cuore in equilibrio, senza pregiudizi bianchi o neri. Si chiama Samopravo, che vuoldire “sempre a dritto” a Pristina e dintorni.

Per festeggiare il suo compleanno ha scritto un post molto carino sulla viabilità della regione – così affine sia alle strade che alle usanze palestinesi – che vi consiglio di leggere. In conclusione ha felicitato i propri lettori con queste degne parole, alle quali da oggi mi affeziono:

Grazie a tutti quelli che hanno animato e contribuito alle numerose e accese discussioni, in cui sicuramente tutti abbiamo imparato molte cose, tra cui la pazienza.

Sarò felice di usare le stesse quando – è facile – anche Distanti Saluti compirà un anno.

Giovedì 16 ottobre

L’Italia ai palestinesi – Diario dalla Palestina 86

Certo, c’è la storia del pizza-mafia-macaroni (e ‘sta questione che maccheroni non è sinonimo di pasta bisognerebbe spiegargliela, una volta per tutte), ma è una cosa molto amichevole, come quando piove e governo ladro: non è un fatto imputato agli italiani di avere la mafia, non hanno tale responsabilità, anzi semmai è una disgrazia di cui compatirci, una cosa caduta dal cielo (che poi nel caso della pioggia non è così sbagliato…) – e non si può offendere qualcuno per un monsone, per una sventura di cui non ha colpa. Anzi, piangersi addosso tutti insieme è cosa che unisce più d’ogni altra.

Funziona allo stesso modo per Berlusconi – malvoluto quasi quanto in Italia – è lì al governo ma «puoi criticare i governi, non le persone», e cioè il fatto che più della metà degli italiani l’abbia votato come premier (tantomeno che questa sia una cosa legittima) è fuori discussione, non se ne parla. Solo che c’è una differenza con l’Italia, quando spiego che Berlusconi è il presidente del Milan tutti storcono la bocca per dire «allora non è poi così male…». È divertente come un dato per noi così assodato, nella nostra testa addirittura precedente al Berlusconi politico, altrove stupisca.

Perché, come immaginerete, il calcio è un fattore tutt’altro che trascurabile, e notevole polo d’attrazione: e quello è il campo dove tutti amano l’Italia. Se c’è un argomento su cui israeliani e palestinesi sono stati d’accordo è per chi tifare alla finale del 2006, non ne ho trovato uno – fatti salvi israeliani/francesi e palestinesi/francesi – che tifasse per la Francia.

A Al ‘Eizariya (che sarebbe dove c’è la tomba di Lazzaro: sì, lo so, uno non ci pensa ma alla fine, non al primo ma al secondo tentativo, anche dovrà pur esser morto) ho visto una bandiera italiana dipinta su una parete, e quando ho chiesto perché mi è stato risposto «perché abbiamo vinto i mondiali».

Mercoledì 15 ottobre

Il nemico del mio nemico – un post sconclusionato – Diario dalla Palestina 85

Qualche tempo fa si faceva la considerazione che effettivamente il passaporto italiano, è uno dei migliori passaporti al mondo: certo, se hai quello americano e ti rapiscono in Camerun arrivano i marines, e l’Italia in geopolitica conta come il fattore campo quando si gioca a porte chiuse. Ma non parlo di questo, dico di come gli italiani siano amati un po’ da tutti.

In un conflitto come questo, dove inevitabilmente qualsiasi cosa – persino il colore con cui ti vesti o il bere Pepsi piuttosto che Coca Cola – ha un significato politico, e ogni atteggiamento viene schiacciato sulla tavolozza di uno dei due schieramenti, la nazionalità è una delle prime componenti passate al vaglio, per dire: questo da che parte sta?.  È una sinuoso orizzonte d’attesa che inevitabilmente condiziona. Qualunque cosa tu faccia sarà scansionata, e – inevitabilmente – avrai sempre la percezione che c’è qualcosa per cui sentirti in colpa. È chiaro che essere ebreo in Palestina è l’estremo da un lato, e essere arabo in Israele lo è dall’altro (anche se molto meno, se non altro per ragioni quantitative), ma in mezzo – in questo spettro – ci sono mille nazionalità. Un americano, ma anche un inglese, in Palestina è in qualche modo “colpevole”. Così come un francese è considerato, comunque sia, una propaggine di un stato (storicamente) amico dei propri nemici, da un soldato israeliano ai check-point.

Tutto questo non è così chiaro, ovviamente, questi pensieri non sono espressi alla luce del sole, ma sono malesseri sottotraccia che stando una settimana non si notano. Poi via via, vivendo lì, inizi a capire dove comincino le chiavi di questi codici. O almeno, così è come li percepisco io. Mi hanno rimproverato di non parlare mai, nel Diario, di come mi senta io, personalmente: ecco, questa è una cosa che mi fa sentire sempre in tensione. Coi muscoli tirati. Se faccio questo vuoldire che sono filo-palestinese? Se faccio questo vuoldire che sono filo-israeliano?

Ed è forse l’inevitabile sterilizzazione indotta da questo riflesso condizionato a rendermi insofferente per chi fa propri (o meglio, si fa fare proprio da) questi schematismi: qualificarsi come stante da una parte, agire secondo tale canone, significa esserne connivente e riprodurlo – il canone.

Per fortuna, come dicevo, l’essere italiano non connota in questo senso: è un po’ come se la nostra nazionalità non passasse sotto a quella pedante e rognosa lente d’ingrandimento sotto alla quale passa qualunque cosa in Israele e Palestina. Gli italiani – bravagente – non hanno bisogno di essere nemici dei propri nemici per essere amici, sembra. Siamo amici di tutti?
Domani vi racconto qualche episodio.

Martedì 14 ottobre

Altro che Camoranesi – Diario dalla Palestina 84

Si sente spesso dire che bisogni amare l’Italia perché ci si è nati, ma che l’inno – beh, era molto meglio il Nabucco, vuoi mettere? – lo si può criticare perché è obiettivamente brutto. Per me è l’inverso: di molte ragioni per cui mi potrebbe piacere l’Italia, quella per cui ci sia nato è l’unica che veramente non capisco. Amo le cose che scelgo, quelle che mi piacciono di più, non quelle in cui capito per caso. Come disse una volta Gustav Heinemann, ex presidente tedesco:

I don’t love my fatherland; I love my wife.

Non amo la mia patria, amo mia moglie. Abbiamo la lingua più bella del mondo, questo sia in Israele che in Palestina me l’hanno detto tutti (dài, domani ve lo racconto), ma è merito mio questo? E Dante è più mio che di un neozelandese?

Però l’inno di Mameli mi piace, e non in quel modo sornione e autoironico col quale diciamo che ci piacciono le cose più trash, no, proprio mi garba. La musica dico, quando fa tattaratattaratattattà, mi viene sempre da muovere le mani come direttore della banda. E credo che si addica molto all’Italia.

Quindi ecco qui quello che vi avevo promesso: purtroppo il video è pessimo e non si vede l’enorme quantità di bambini (saranno stati quaranta) e le loro stupende movenze. E ditelo, che orecchio che hanno: se non lo sapeste, mai lo direste che sono bambini palestinesi che lo ripetono così, senza averlo mai sentito prima. Avanti: mano sul cuore!

Lunedì 13 ottobre

Ramallah – Diario dalla Palestina 83

Visto che avete snobbato il mio ultimo post (mi aspettavo una tempesta di messaggi, che lettori inaffidabili!), qualcosa di più concreto. Ora, Ramallah, il colle di Dio. Tutto quello che pensereste di Ramallah, il fondamentalismo, un posto poco sicuro, etc è piuttosto falso. Anzi se dovessi dire un posto sicuro nel West Bank, persino più di Betlemme, direi Ramallah.

L’impressione è data chiaramente dai telegiornali, siccome è la capitale de facto della Palestina (ovviamente i palestinesi dicono, senza troppi torti, che lo Stato palestinese deve avere Al-Quds/Gerusalemme Est come capitale) tutti i collegamenti dei giornalisti sono da lì; così quando c’è qualche casino vediamo la diretta da questa piazza qui…

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…e quei leoni ci fanno pensare che il casino sia lì nei pressi. Farò una foto migliore la prossima volta che ci passo, perché qui non si vede il particolare più divertente: dei quattro leoni che vorrebbero rappresentare le quattro famiglie più importanti di Ramallah, il più imponente porta un orologio da polso sulla zampa.

Di storie sul perché, ce ne sono tante; certo è che siano state scolpite in Cina (e noi ci lamentiamo delle scarpe fatte lì!). La storia che hanno raccontato a me recita così: il grafico che doveva elaborare i leoni per poi mandare il progetto informatizzato ai cinesi, aveva inserito questo “buco”, per accertarsi di essere pagato e non espropriato del progetto: un po’ quello che faceva Leonardo da Vinci, che – con i brevetti ancora molto di là da venire – disegnava le sue macchine con grossolani errori di progettazione: lui l’avrebbe corretti a occhio, ma chi avesse voluto copiargliele senza il suo consenso sarebbe finito con un palmo di naso.
Insomma, sembra che il progettista non sia stato pagato quanto voleva, e che abbia lasciato l’orologio al polso del leone.

Racconti di colore a parte, la verità è che Ramallah è la città più occidentale della Palestina: fra organizzazioni internazionali, Ong, ambasciate e consolati, in alcune parti del centro una persona su dieci è europea o nordamericana, e questo ha effetto anche sulla tolleranza e sull’abitudine al “diverso” degli abitanti. Se a Nablus è sconsigliato andare in giro coi pantaloncini corti (anche per gli uomini, delle donne non se ne parla) e a Hebron si vede difficilmente una donna da sola per strada, qui si trova birra in quasi tutti i negozi downtown.  A Ramallah si va a fare shopping o si esce con gli amici. In centro sì che c’è un bel casino, ma stavolta non si parla di guerra.

Ed è qui che si percepisce la più grande contraddizione fra anti-americanismo di maniera – componente irrinunciabile di ogni buon-cittadino in Palestina – e modo di vivere di tanti ragazzi che vuonno fa’ l’americani. Sul rapporto con l’America tornerò in un altro post, per quanto riguarda Ramallah basta vedere questo:

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Chi ne sa un po’ di ammeriganate avrà subito riconosciuto il logo, Starbucks! Per i pochi che non lo sanno Starbucks è una catena di “caffetterie”, la più famosa, che da Seattle ha esportato i suoi negozî in tutto il mondo tranne l’Italia (dice che nel Belpaese puoi prenderti un caffè per 0.70 € a ogni angolo di strada, non gli conviene).

Beh, chi non ha riconosciuto il logo ha più ragione degli altri perché questo è Stars & Bucks, una spudoratissima copia palestinese che ricalca l’originale in tutto, logo, colori, nome. Se vi capita di passare nella piazza principale, Al-Manara, dopo aver chiesto che ore sono al leone, potete fermarvi qua a prendere un ice coffee, ricordatevi solo di non ordinare un bagel!

Domenica 12 ottobre

Denghiù – Diary from Palestine 82
In italiano in fondo

Dear Ahlam,
this post – the only one in English of the whole diary – is for you and the kids, and I want you to translate it in Arabic for them.

I’m writing this because I wanted to show to the Amal kids some of the pictures I made in the early days of my coming back, and also for them to see some of my friends you didn’t have the chance to meet because they didn’t come to visit me in Palestine, this time.

SWEETS
The first thing I realized when I arrived to Ben Gurion Airport was that I forgot to leave you the candies I brought, last Tuesday: only Mohab and Nuur had some, because they arrived one hour before the meeting began!

Here you have the sweets, and me – tired – half sleeping and half complaining about myself:

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WELCOME BACK
Here you have two pictures about the dinner in Ariccia we had with my friends, on Thursday (evening); the first one is Francesca, she was the one who had the idea of the flower with written on it “Bentornato” – welcome back in Italian:

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This one is Gianluca: I’m not praying, even if it seems that, I’m arguing with Luca about I don’t know what… He doesn’t seem to be convincing me really much:

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Maybe you will see this two because if I’ll return to Bethlehem, they might come to visit us.

MY ROOM
This is mainly for you, instead: you remember when you were saying “first we clean THEN we play”, and I was saying “first we play THEN we clean”..? Here is to give you an example of how you can very first play and then – maybe,  للغاية maybe  – set things up.

Here’s how my room is, indeed, tidy:

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LAST THING
I leave the last space, the comments, for those who want to send a message to you or to our kids. All the persons that are following my diary and following of course the stories of these kids, as well: why not to give them a chance to say at least a small written thing, once?
So, just translate to them what they say, and if they want to answer… just answer!

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TRADUZIONE IN ITALIANO
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In questo spazio – una volta tanto non dovete stare a dar retta solo a me – potete lasciare un messaggio ad Ahlam o ai bambini, lei glielo tradurrà. Potete scriverlo in inglese (in arabo?), oppure lo scrivete in Italiano io e lo tradurrò io per loro, quando li rivedrò.

Insomma, sbizzarritevi, se ne avete voglia: basta premere sui commenti.