A cuor leggero

Nei giornali anglosassoni e nel nord europa in genere, gli obituaries sono un genere. Non sono i soliti annunci funebri (ne dànno il triste annuncio etc.), ma sono storie o pezzi di storie. Il tono è meno formale, e più leggero. Certo, ci sono le persone famose, ma anche quelli un po’ meno. L’Economist, che è una rivista di non tantissime pagine, ne ha una dedicata esclusivamente a essi, e molti giornali li hanno anche online – qui qualche esempio illustre: NYT, Guardian, WP.

Questa premessa per spiegare bene l’immagine qui sotto, scovata da River, di una bella e molto azzeccata campagna per la donazione degli organi: “un donatore di organi può salvare otto vite”, recita il messaggio in basso.
Al centro della pagina l’obituary di un donatore, intorno a esso otto riquadri vuoti.

Otto vivi un morto

Mele e torti marci

Ieri stavo cercando una cosa su Wikipedia IT, e ho digitato “altipiani in Italia”. Non ho trovato quello che cercavo , ma ho trovato – chissà perché – Torpedo che era ai tempi del liceo, e a quanto leggo è ancora, il gruppo musicale di Giancarlo.

Giancarlo era il più politicizzato dei miei compagni di classe, o forse semplicemente – e complice l’anno in più –  era quello più sveglio. Un po’ desinistra, ma mai fuori dal buon senso. Non eravamo spassionatamente amici, però c’era stima reciproca, e qualche volta ci siamo sentiti ancora, dopo la scuola: ha smesso l’università per fare il musicista, a quanto pare gli sta riuscendo.

Al tempo fummo anche compagni di banco per qualche breve tempo, quel tempo era quello del G8 a Genova.
Ovviamente fu Giancarlo, l’unico della nostra classe ad andarci. Doveva anche avermi invitato, e suppongo d’avergli risposto qualcosa di circostanza e molto imbarazzato per non fare intendere che avevo di più voglia di passare un pomeriggio a giocare ai videogiochi che di combattere per  le sorti del mondo, come in realtà era. Che poi eravamo già tutti in vacanza, qualche scusa l’avevo.

A lui non successe nulla, per fortuna. Non passò né dalla Diaz, né da Bolzaneto, né dalla piazza più violenta – per buona sorte.

Ecco, ho ripensato a questa cosa abbastanza spesso, e ancor più spesso nei primi tre mesi in Palestina. Mi chiedevo: ma quanta obettività posso pretendere da chi vive quotidianamente un sopruso, o da chi l’ha passato sulla propria pelle, o da chi l’ha vissuto attraverso la bocca e le ferite di una persona a cui vuole bene? In fondo, mi domandavo, se Giancarlo fosse passato da quella maledetta scuola, o da quella maledetta caserma, non avrei avuto un pensiero distorto anche io?

Sarei stato in grado di non odiare la polizia, o lo Stato? E se sì, sarei stato in grado di spiegarlo a Giancarlo? Di dirgli che a Piazza Alimonda la ragione non stava, proprio tutta, dalla nostra parte, anzi? Di raccontargli che quello che gli era successo era un caso isolato? Che non poteva dire «l’Italia è una dittatura» perché un giorno, una notte, quelli che rappresentevano quello stato si erano comportati da polizia politica?
E soprattutto, sarei stato in grado di chiedergli di avere fiducia nella Giustizia? Che coloro che l’avevano picchiato, dileggiato, insultato, ferito, sarebbero stati condannati, e più importante: che sarebbero stati riconosciuti colpevoli? Loro e i responsabili di quello che era successo, come succede nelle democrazie liberali.

Ecco, mi sono domandato tutto questo ieri, quando mi sono reso conto che se anche ci fossi riuscito – a rassicurarlo – avrei avuto torto.

In appalto

Siccome abbiamo la fortuna, qui all’azienda Distanti Saluti, di avere una grafica professionista come Simona, ma la sfortuna che ella non segua mai quello che le si dice, facendo di testa sua, si è deciso di appaltare completamente il logo a lei. Quando vorrà, quando ne avrà voglia e lo schiribizzo, lo cambierà seguendo i suoi gusti estetici – e la sua follia artistica – ben più coltivati dei miei. Per vedere il primo esemblare dovete fare refresh (F5) e guardare in alto.

Mutando vita

Lorenzo Cairoli racconta della Roma dei barboni che ho avuto modo di conoscere anch’io, lavorandoci, lo scorso anno:

a Roma ci sono tutte le mense che vuoi. Ho un amico rumeno che a Brasov faceva l’autista di pullman. A Natale si è ritrovato la casa infestata da parenti: volevano vedere Roma, il Colosseo, il Papa e Piazza San Pietro. Per un mese li ha scarrozzati da Trigoria ai Fori Imperiali e a colazione e a cena gli ha fatto fare il giro delle mense romane.

La Roma di Veltroni (ma anche della potentissima Caritas) era anche questa, piena di cooperative dai vertici molto compromessi, che però svolgevano il proprio lavoro. E, dopotutto, lo svolgevano bene. Grazie alla sensibilità delle persone che ci lavorano dentro, spesso molto poco professionali, cosa che in fondo si rivelava essere un bene. Perché in quelle situazioni non ci sono molte regole. Ci puoi trovare di tutto, e devi essere sempre pronto: anche senza il manualino. E anche di tutti: il soldato che fa il doppio lavoro senza dirlo ai propri capi in caserma, l’assistente sociale che fa la gavetta, quella che la gavetta l’ha già fatta ma non ha ancora trovato un posto fisso e arrotonda così, il giornalista che vuole provare l’esperienza, e poi i tanti stranieri: il bulgaro che è venuto con la famiglia e fa il portiere, l’eritreo che viene da Lampedusa e dall’essere quasi morto di sete in Sudan che dice «no, a casa non voglio tornare: Italia mi piace», l’albanese che studia giurisprudenza e si paga così l’affitto.

Sempre Cairoli:

Verso dicembre le cose miglioreranno un po’, perchè scatterà l’emergenza freddo e allora per chi dorme in strada potrebbero spalancarsi le porte del paradiso: un letto in un centro o su un pullmino, invece che dormire nel vagone di un treno, su una panchina della Termini, in una macchina, o su un permaflex di cartoni.

Accusavano Veltroni di buonismo, che tante iniziative buone fossero solo di facciata (in effetti l’emergenza freddo è durata esattamente sino al giorno delle elezioni) , ma che intanto ci sono, o c’erano.
Non so come sia la nuova Roma di Alemanno da questo punto di vista, a quanto mi dicono i miei ex-colleghi sembrano esserci pochi cambiamenti, ma tutto deve ancora cominciare.

Anche nella sfiga occorre fortuna. Morale: se proprio devi finire in strada cerca di finirci quando c’è l’emergenza freddo.

Io so che l’anno scorso, all’emergenza freddo, specie nei mesi di gennaio e febbraio erano molti più quelli che eravamo costretti a buttare fuori che quelli a cui riuscivamo a trovare un posto. Non voglio immaginare come sia ora, se davvero hanno tagliato tanti altri c’entri d’accoglienza.

Sono tornati tutti a Brasov più in carne di come erano partiti. Il problema qui non è mai il cibo.

Eh sì: se volete aiutare una struttura come questa non portate cibo, ce n’è tanto, e tanti ne portano – per fortuna: c’è il barista che allunga la strada dopo aver chiuso il bar per consegnare i panini non consumati, oppure c’è quello della parrocchia che raccoglie il cibo e lo porta ogni domenica. Non portate neanche giacche, o piumoni, maglioni. Anche quelli ci sono. Ce ne sono tanti, ognuno ha un maglione di cui disfarsi. Portate scarpe, ma soprattuto mutande. Mutande e calzini, quando uno che è finito in strada smette di cambiarsi le mutande è il principio di un barbone, quando un barbone comincia a potersele cambiare, è il principio di una nuova vita. Perché c’è chi ci riesce, a farsi una nuova vita. Portate le mutande e i calzini, perché nessuno ci pensa mai, e mai se ne trovano.

Mercoledì 12 novembre

Vi racconto di Jaber – Diario dalla Palestina 98

Di Jaber avevo già parlato, è il più grande dei tre fratelli (ci sono anche due femmine, poi) che vivono nel campo profughi di Aida, è anche il ragazzino più grande del centro dopo Mohab, ed è quello che voleva fare il martire da grande. Poi, come raccontavo di là, una visita all’università insieme ad Ahlam e Costantino gli ha fatto dire “ma sapete? Voglio fare lo studente universitario”.

Certo, tutto il giro di amicizie che ha al campo profughi – sono gli ambienti più fondamentalisti – continuano a trascinarlo in quella spirale, a fargli dire che Hamas è fica e Fatah… Fatah non è corrotta, Fatah “è sfigata”. Come un ragazzino dei nostri direbbe di un cellulare, o del casco integrale. Ha una sorta di altare per Saddam Hussein in casa, e la violenza lo seduce. Però lui è fresco, vivo, è autoironico e teatrale, ed è capace di voler bene forte, per lui certamente la mezzanotte non è ancora passata. La madre ci ha raccontato che quando il padre vuole picchiarla, ora, è Jaber – portandosi dietro Yazan e Hamza – a frapporsi e impedirlo: un caso unico, per la mia esperienza di Palestina.

Con Jaber ho subito stretto un rapporto particolare, e il calcio sia attivo che passivo (lui è «del Real Madrid» io, ovviamente, devo essere del Barcellona!) è stato un gran bel catalizzatore.
Poi, un giorno, lui e il fratellino sono arrivati al centro un’ora prima. Io ero già là, e Jaber ha raccolto da non so dove un bastone, non pesante ma grosso, e ha iniziato a picchiarci il fratellino. «Atinni!», dammelo. Ma lui non me lo dava. Allora gliel’ho strappato di mano e, come uno stupido, l’ho lanciato via, iniziando a domandargli cosa gli fosse preso. Soltanto che Hamza ha raccolto il bastone e ha iniziato a picchiarci Jaber. All’umiliazione per essersi fatto togliere il bastone s’è aggiunta quella di essere picchiato dal fratello più piccolo. Così appena ho fermato Hamza, Jaber ha riconquistato il bastone iniziando ad agitarlo in modo violento.

«Halas», basta. Le poche parole che so in arabo. Allora ho capito che l’unica cosa che potevo fare era prendere questo bastone e tenerli fisicamente fermi. E per togliergli il bastone, il solletico. A quel punto ho visto un digrignamento che non avevo mai visto, sul viso di Jaber. Ha ordinato al fratello, che fino a quel momento era stato suo “nemico”, di seguirlo. Hamza l’ha seguito senza battere ciglio e lui è andato via furibondo, minacciandomi di morte con quel gesto – che ho scoperto in quel momento essere internazionale – di portarsi l’indice alla gola, e maledicendo la mia progenie.
Io ero piuttosto scosso, ho respirato un momento, e sono andato a cercarlo. Senza esito.
In quel periodo eravamo in molti volontari italiani, c’erano Umberto, le due Angela, Davide, Gabriele e Plastic. Loro mi hanno tranquillizzato. Con loro Ahlam.

Mezz’ora dopo abbiamo visto ricomparire Jaber, che aveva sempre una faccia arrabbiata, ma era finalmente la sua faccia. E in mano aveva un bastone decisamente più grosso, credo più alto di lui, con il quale mostrava di volermi battere. Io ero nell’ufficio, così quando mi hanno detto «è tornato Jaber», mi sono affacciato e l’ho visto con quel coso in mano. La mia reazione, quando l’ho visto così, è stata un bella risata a mani giunte. Non una presa in giro, ma una risata complice, come dire “Jaber, maddai”. Forse, conoscendo Jaber, l’avrei anche premeditato come gesto, ma in quel momento è stata soltanto una cosa spontanea. La cosa migliore comunque, perché Jaber vedendo la mia reazione tanto diversa dal sono-più-forte-io, quel piano che vive quotidianamente, si è accorto in un attimo di quanto fosse ridicolo quell’essersi portato un bastone per picchiarmi.

Ma Jaber è anche un attore, e in un momento – pensate la prontezza di spirito – ha appoggiato il bastone a terra, fingendo di appoggiarcisi, e di esserselo portato come sostegno. Gli avevo fatto male alla gamba, diceva, cosicché non poteva camminare. Era chiaro che, a quel punto, quello che gli importava era la sua “onorabilità”. L’avevo picchiato diceva, così io – attraverso Ahlam – gli ho detto: «guarda Jaber, sai bene quello che è successo, sai che ti ho fatto il solletico, ma a me non interessa cosa pensano gli altri, e tu lo sai». Allora Jaber ha scartato nuovamente, e mi ha detto che «sì, ma non dovevo fargli il solletico, perché lui così ‘non respira'” e questo lo fa inferocire. Io ho replicato che era l’unico modo per togliergli il bastone senza fargli male; e lui ha detto che io non dovevo togliergli il bastone, perché lui è abituato a picchiare il fratello, e nessuno gli dice nulla (una volta uno dei tre si ruppe un braccio, così). A quel punto – con molta fermezza – gli ho spiegato che in mia presenza era fuori discussione, nessuno picchia nessuno.

Ma era già chiaro che l’incidente era stato riportato alla sua corretta dimensione, quella di una stupidaggine. Diceva che ero stato fortunato che lui non avesse chiamato zii, cugini, etc. per amazzarmi, ma era chiaro che quello era tornato a essere il solito Jaber che le racconta. L’ho preso da solo, e l’ho portato fuori. Ho imbracciato il famoso bastone e gli ho detto “io Jaber, tu Giovanni: dimmi come togliere”, lui – forse per il mio arabo ridicolo – si è messo a ridere, e mi ha stretto la mano. Però prima ha fatto una cosa ancora più divertente, prima di lasciarmi il bastone, mi ha detto «stenna», aspetta. Ha preso la caviglia in mano, quella della gamba che simulava essere stata da me ferita, e l’ha stirata dietro al sedere come si fa nel riscaltamento prima di una partita di calcio, dicendo poi “ok, è guarita”. Ricominciando poi a camminare normalemente, senza zoppicare. E l’ha fatto con una credibilità tale che mi è dispiaciuto esserne l’unico testimone.

Da quel giorno il rapporto fra me e Jaber è migliorato in maniera incredibile, primo fra tutti mi salutava, e si congedava con me per ultimo. Varie volte quando sapeva che qualche gruppo di italiani era sul punto di andare via, lui veniva da me e mi diceva – nell’inglese che gli insegnano a scuola: «you no Italia?», e quando lo rassicuravo che no, io non stavo andando via, mi abbracciava con una contentezza vera. Poi è venuto il giorno in cui sono andato davvero via, e oltre a promettergli che sarei sicuramente tornato (come farò a breve), oltre a punzecchiarci su cosa avrebbero fatto Real Madrid e Barcelona mentre saremmo stati lontani, abbiamo “raccontato” la nostra storia – in un mini fotoromanzo. Perché, come vi ho detto, oltre a essere un attore, Jaber è anche molto autoironico. A essere più precisi, la nostra non-storia.

Qui è Jaber che mi picchia con un bastone, appena arrangiato dalla gamba di un tavolo di plastica:

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Sempre a proposito di gambe, invece, questo è quando l’ho picchiato io, e lui soffre dell’infortunio alla gamba:

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E qui una noiosa foto normale e sorridente:

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