C’è un tic linguistico che io non sopporto proprio, perché è riflesso di una concezione degenerata del mondo che mi preoccupa prima di scocciarmi. È quello di aggiungere un “più” a frasi sensate – delle volte anche senza rendersene conto – in modo, però, da stravolgerne il senso. Chessò. Proviamo con questo esempio:
Frase 1: In Italia non si rispettano le donne.
Frase 2: In Italia non si rispettano più le donne.
Per quanto – se non si ha una concezione grottesca e misogina dei rapporti uomo-donna – sia ordinariamente ovvio che la condizione delle donne nell’Italia attuale sia di gran lunga migliore rispetto a quella di trent’anni fa, troveremo molte più volte scritta o detta la seconda. Non ha senso, ma retoricamente fa più effetto. Ovviamente funziona con altre parole simili, proviamo con “oramai”.
Frase 1: I giovani pensano solo al sesso
Frase 2: Ormai i giovani pensano solo al sesso
Anche in questo caso: i giovani di un tempo pensavano meno al sesso? Direi proprio di no. Basta visitare qualche area rurale dell’Italia, o anche Paesi che – per vicissitudini storiche – sono in condizioni simili a quello che dell’Italia di qualche decennio fa, per rendersi conto che sia – semmai – il contrario. Che è tutto l’accento sulla proibizione, che crea un’ossessione. Che è chiaro che molti giovani, e non giovani, pensino abbastanza al sesso (e non c’è nulla di male), ma non in tassi superiori a prima. Però, vedrete, che una frase del genere sarà sempre accompagnata da un malintesto “oramai”.
Il più fulgido esempio della diffusione di questo luogo comune è Massimo Gramellini, uno dei giornalisti più preparati in Italia. Uno che riesce a scrivere cose belle, sintetiche, commoventi e partecipi come questa, alla quale sono affezionatissimo, ma che poi – in moltissime delle sue cose – si lascia sfuggire quell’innesto qualunquista: prendo l’ultimo dei suoi “Buongiorno” nel momento in cui scrivo, non è selezionato all’uopo: “C’è ancora in Italia un disadattato che non ruba, pur occupando un ruolo che gli consentirebbe di farlo?”. Ancora. Come se, invece, nell’Italia della DC e poi in quella di Craxi non si potesse usare lo stesso indulgente catastrofismo.
Gramellini, che io apprezzo davvero, è solo un esempio: succede a tanti e in continuazione. Ma non perché le persone credano, ogni volta, che davvero si stia peggio nel 2010 rispetto al 1950. Non sono tutti dei laudatores temporis acti: è semplicemente un tic linguistico. È soltanto uno di quei concetti automatici che si insinuano nella nostra testa, e che – proprio perciò – ci si deve impegnare a evitare, e che dice che «prima si stava meglio». Il modo di dire, però, finisce per far passare un messaggio all’interlocutore, e sono sempre di più (vedete, ci sono cascato anche io?) le persone che passano dal tic incosciente al dire che – davvero – il mondo di oggi sia così peggiore.
Ovviamente non è vero. Il mondo di ora è migliore da mille punti di vista: la mortalità infantile, la fame nel mondo, sono crollate negli ultimi vent’anni. Un buon numero di Paesi che trent’anni fa erano dittature sono ora delle democrazie, magari non perfettissime, ma sempre luoghi dove la libertà è garantita. Di tutte le libertà, quella di cui ci si lamenta sempre: la liberta di stampa nel mondo, anche quella è migliorata – venticinque anni fa ce n’era di meno. Gli omosessuali hanno fatto conquiste (cioè, tutti noi le abbiamo fatte) la cui sola espressione vent’anni fa sarebbe stata inconcepibile. In nessun momento della storia del mondo i lavoratori hanno avuto tanti diritti come oggi. E così via.
Ovviamente questo non è un invito a non combattere per le mille cose per cui si deve combattere, anzi, è la dimostrazione che le cose possono cambiare se ci crede nel darsi da fare. Perché sì, ovviamente c’è ancora un sacco da fare: ma è proprio questa qui l’obiezione più grande all’immobilismo, al nulla può cambiare perché nulla è mai cambiato – le cose sono già cambiate, e in meglio.
Insomma, smettiamola: quelle parole – più, ormai, di questi tempi, – non usiamole… più.
p.s. E vi do uno scoop? Non è mica vero che non ci sono più le mezze stagioni. Uno che ne capiva mi ha spiegato che negli ultimi novant’anni ci sono state più mezze stagioni che nei novant’anni precedenti.
m’hai convinto, non lo farò… più ,-P
(battute scontate a parte, hai evidenziato un punto importante, te ne ringrazio, farò attenzione, pignolerò e mi renderò antipatico)
Potrebbe andare peggio….
Potrebbe tornare il “cioè” 😉
(Mi sto riprendendo a malapena dal “e quant’altro”)
Io ti darei un bacio in fronte: sostengo da sempre anch’io queste cose, ma fino ad ora non mi sembrava che in molti si facessero impressionare da questo tipo di osservazioni. Speriamo dunque per il futuro, speriamo in un progresso pure in questo, insomma, vale la pena continuare ad insistervi, anche se apparentemente si tratta di questioni di pura “forma”. Invece, come è noto, “le parole (e le idee che implicitamente contengono) sono importanti”! 🙂
A questo comitato mi iscrivo subito.
Denigrare il tempo in cui si vive è un modo come un altro per prendere le distanze da ciò che ci circonda, cercando inconsciamente di sottolineare come ciascuno di noi sia migliore del contesto in cui vive.
Tra le cose che non hai elencato posso dire che a mio parere una delle poche cose realmente peggiorate rispetto al post-’68 è il livello di proibizionismo sociale.