Otto cose su questa tragedia

Sono rimasto molto colpito da quello che sta succedendo in Afghanistan, probabilmente anche perché – per quello che faccio – parlo tutti i giorni con persone che dai talebani sono fuggite, e che hanno persone a cui vogliono bene che sono scappate o si stanno preparando a scappare in queste ore.

Sono anche rimasto colpito dalla grettezza di tanti commenti che hanno visto nell’immensa tragedia umana di quello che sta succedendo, soltanto la sconfitta di un nemico politico (o la vittoria del proprio ego). Questi commenti sono stati non soltanto cinici, ma anche perlopiù sciocchi, confusi o smemorati. Per questo ho messo assieme un piccolo compendio di cose che penso sia importante ricordare (o conoscere), soprattutto scritte senza domandarmi “a chi convengono”. Ciascuno di questi punti, scritti oggi velocemente, meriterebbe un saggio di per sé, perdonate quindi le semplificazioni.

Asilo
Il Paese dal quale arrivano più richiedenti asilo in Europa attraverso la Grecia è l’Afghanistan già dal 2018, anno in cui ha superato la Siria (che continua a essere seconda). Non c’è dubbio che ciò che sta succedendo creerà un esodo di persone in fuga, come si è già visto dai video e dalle foto della gente all’aeroporto o agli uffici consolari. Vivere sotto ai talebani è un inferno, per tutti, e per alcuni ancora di più. Non facciamoci illusioni, non siamo i buoni: nonostante le dichiarazioni, e a parte qualche ristrettissimo ponte umanitario, è estremamente improbabile che qualunque Stato europeo (o gli Stati Uniti, o qualunque Paese al mondo in realtà) apra le porte alla gente che scappa dall’Afghanistan.

Consenso
L’Afghanistan è un Paese diviso etnicamente e religiosamente. Ci sono alcune aree del nord in cui i talebani non hanno mai avuto il potere. In questo scenario, domandarsi quanto consenso abbiano i talebani manca il punto. Immaginare che un hazara (l’etnia sciita più numerosa) possa essere a favore dell’avvento dei talebani è assurdo. Quella persona è non soltanto in pericolo, ma chiaramente riconoscibile: ha gli occhi a mandorla, porta il chador sciita anziché l’hijab (o il burqa), ciò è sufficiente per fargli meritare – agli occhi dei talebani – la morte.

Esportare
“Non si può esportare la democrazia” è una frase che va lasciata ai sovranisti. È una frase razzista, perché suggerisce ci siano popoli che non-sono-pronti-per-la-democrazia. È una frase ignorante perché la democrazia è stata sempre esportata, talvolta anche in maniera estremamente violenta, come in Giappone. È una frase sovranista, perché suggerisce che le idee migliori non possano venire da fuori dei proprî confini. È una frase contraddittoria perché confonde permettere di scegliere e imporre cosa scegliere. Certo, perché si instauri una democrazia c’è bisogno del verificarsi di molte condizioni: si può esprimere questa idea senza sostenerla attraverso concetti razzisti, ignoranti, sovranisti e contraddittorî.

Militare
Immaginare la conquista dell’Afghanistan da parte dei talebani come un’elezione in cui il Paese ha scelto da chi essere governato è una fantasia orientalista. I talebani non sono un partito, sono un movimento politico, religioso e militare che non ha alcuna intenzione di ricercare consenso democraticamente. Sono la milizia più ricca e armata rimasta, che ha conquistato il Paese dopo che l’esercito più ricco e armato se ne è andato (e dopo che tutti gli altri, incluso quello italiano, avevano fatto lo stesso).

Profughi
Come detto, le persone che oggi provano a scappare dall’Afghanistan – tranne poche e fortunatissime eccezioni – non hanno alcuna via legale per arrivare nel nostro continente. L’unico modo è imbarcarsi in un lungo e pericoloso viaggio affidandosi ai trafficanti, arricchendoli, dato che le frontiere rimarranno chiuse. Quello che sta succedendo avrà però probabilmente un impatto: sarà più difficile espellere gli afgani che già sono in Europa. Questo perché, con i talebani al potere (che, ricordiamolo, da tempo controllano già pezzi di Paese), sarà tristemente più facile dimostrare che nel caso queste persone tornassero a casa, la loro vita sarebbe a rischio. Il paradosso è quindi che questa nuova tragedia non aiuterà a scappare le persone che sono in pericolo oggi, ma permetterà a quelle che già avevano una ragione per scappare di restare dove sono arrivati.

Ritiro
Il controverso accordo che ha portato al ritiro delle ultime truppe rimaste in Afghanistan è stato firmato da Donald Trump, non da Joe Biden. È stato un accordo che ha escluso il governo afgano, quello che avrebbe dovuto reggere all’avanzata dei talebani senza gli americani. È un accordo criticato fin da subito perché lascia il Paese ai talebani. Nessuno sapeva che la disfatta sarebbe stata così veloce, ma tutti sapevano che ci sarebbe stata. Certo, Biden avrebbe potuto rinviare l’accordo o addirittura rinegoziarlo, ma è importante chiarirne l’impronta ideologica: il ritiro delle truppe americane dal Medio Oriente è da sempre uno dei cavalli di battaglia della destra americana trumpista e pretrumpista, ed è dal 2004 che Trump e i suoi rivendicano (come al solito, mentendo se utile) di essere sempre stati contro interventi umanitari e di essere stati messi a tacere dall’establishment .

Stabilità
Dire che l’intervento in Afghanistan del 2001 ha minato la stabilità del Paese, come se l’Afghanistan dei talebani fosse uno Stato unito con un decennale controllo sul territorio, mostra ignoranza storica. I talebani hanno vinto una sanguinosa guerra civile, e hanno controllato gran parte del Paese (neanche tutto) fra il 1994/96 e il 2001, senza alcun riconoscimento internazionale (solo 3 Paesi lo consideravano uno Stato: Arabia Saudita, Emirati Arabi e Pakistan). L’occupazione militare è durata tre volte tanto. A volere usare questo criterio, è il ritiro delle truppe americane ad aver minato la stabilità del Paese. Ovviamente il fatto che vent’anni di addestramento dell’esercito afghano abbiano prodotto questo risultato dimostra ancora di più il fallimento delle modalità di quell’intervento.

Terrore
Nella lista delle ragioni che motivarono l’intervento in Afghanistan del 2001, la difesa dei diritti delle donne, delle minoranze, degli omosessuali, dai talebani è sempre venuta dopo “La Guerra al Terrorismo”. Non a caso, espressione coniata da Bush una settimana dopo l’11 settembre. Tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Russia, dalla Turchia all’Italia, dall’India alla Mongolia, è intervenuto per sgominare Al Qaida dopo quegli attentati. Senza di essi, delle donne afgane avrebbero continuato a parlare una manciata di idealisti. Visto che la guerra al terrorismo ha dato risultati così così, oggi chi era a favore parla molto più di donne e diritti (o al massimo di democrazia). Ma è importante ricordare che quello non era né il primo né il principale obiettivo: lo fosse stato, forse le cose sarebbero andate diversamente.

La cancel culture la pratichiamo un po’ tutti

Questo post non è una discussione sulla cancel culture. Questo post parte dal presupposto che la cancel culture sia un problema, e prova a fare le pulci alle persone – come me – che la trovano pericolosa.

Non è, quindi, una discussione su cancel culture buona o cattiva. È una discussione interna a chi crede che sia una cosa cattiva. Premessa fatta, eccomi qui a fare – come al solito – un po’ di critica a chi la pensa come me, e in essa un po’ di autocritica.

Io penso che, tutti noi, adottiamo alcuni comportamenti che hanno la stessa radice dispotica e ostile al dialogo della cancel culture. Non si tratta, certo, di praticare violenza nei confronti di chi la pensa diversamente, o industriarsi per far perdere il lavoro a qualcuno per punirlo di non essere allineato.

Ma c’è una radice della stessa aggressività semplificatoria, dello stesso rifiuto della discussione pensata, in ciò che facciamo quotidianamente. E, anche, dello stesso meccanismo intimidatorio che non punta a convincere le persone, ma – appunto – a zittirle.

Tutto comincia con la delegittimazione, il rifiuto dell’interlocutore, l’attrazione sinuosa del deplatforming, del dire “quella persona, che ha quell’idea, non deve neanche essere ascoltata”.

Entriamo noi. Quante volte, in una discussione di persona od online, ci è capitato di pensare di qualcuno: «niente, discutere con te è inutile»? E quante volte abbiamo fatto il passo successivo, di dirlo o scriverlo di fronte ad altri (e con quale obiettivo? Di svergognare la persona? Di dire al mondo che stiamo smettendo? Cosa vale un “non vale la pena”?). A me è capitato tante volte, e certamente più spesso ora di qualche anno fa.

Naturalmente non si possono fare tutte le discussioni, non si può discutere con chiunque, delle volte davvero non-vale-la-pena. Ma lo riconoscete quello stesso concetto scivoloso? Quella resa all’impossibilità della crescita propria e altrui. Quanto tempo ci vuole per riconoscere che una persona non può contribuire a farci cambiare idea, e perciò a renderci un po’ migliori? Dieci messaggi? Cinque? Uno? In realtà non si può mai sapere, anche perché chi ha un’opinione diversa dalla nostra, inevitabilmente ci sembrerà in torto, e se ha un’opinione molto diversa dalla nostra ci sembrerà molto in torto, forse stupido, matto al massimo, uno con cui non-vale-la-pena discutere.

Il concetto chiave del più bello e significativo discorso sulla libertà di parola (ascoltatelo!) è che ogni volta che silenzi qualcuno ti stai privando della possibilità di ascoltare un parere che potrebbe insegnarti qualcosa. E anche se noi non cancellatori evitiamo di silenziare, ci priviamo spesso della possibilità di ascoltare.

È ovvio che non sto suggerendo di fare sempre ognuna delle discussioni che ci capitano, in realtà non lo so bene cosa sto suggerendo. Una regola aurea, un when to engage che valga per tutte le circostanze, non ce l’ho; e ce l’avessi l’avrei violata io per primo mille volte.

Un celebre non cancellatore

Però in questi giorni ho visto diversi amici miei, di quelli che hanno il “ma figurati se mi metto a discutere con te” sempre pronto, esecrare la cancel culture, in ogni sua forma; rivendicare che il dialogo, la discussione, sono l’unico modo per progredire. Che se le idee sbagliate fanno così paura, vuol dire che – dentro – non le si pensa così poco persuasive.

Perché non dimostrare che un’opinione è debole usando opinioni più solide? Del resto, se si pensa di avere buone ragioni per sostenere la propria idea quale sarebbe il problema?

E invece lo facciamo anche noi, ogni giorno. Rinunciamo a vedere l’altra persona come un fine; decidiamo di non ascoltare in quanto arbitri. che sono però inevitabilmente parziali. Ogni volta che rifiutiamo o abbandoniamo una discussione stiamo danneggiando noi e i nostri interlocutori.

In fondo questo desiderio di zittire i nostri “avversarî”, di affermare ciò che si pensa con la forza (la forza dell’impedire l’opinione altrui anziché con la forza della propria idea) è estremamente umano. Come lo è l’odio per le spiegazioni e la complessità, il disaccordo e la fatica di capire, in generale per gli argomenti che non sono i proprî. E lo è, forse ancora di più, la stessa confusione fra sostenere un’opinione e sostenere il diritto di esprimere un’opinione. Sono tutti tratti di quella tendenza dispotica molto umana che abbiamo tutti, e dalla quale – perciò – tutti dobbiamo guardarci.

Forse vedere i nostri comportamenti riflessi e ingigantiti da un ideale smaccatamente intimidatorio ci farà ripensare anche a noi.

“Era meglio farmi i cazzi mia”

Un mio amico, leggendo una bozza di questo post, mi ha detto che il titolo giusto sarebbe “La fatica di essere buoni”. Un altro mi ha detto, per scherzo, “metti ‘era meglio farmi i cazzi mia'”. Siccome, soprattutto qui, preferisco il dark humour alla seriosità, e questo post è bello pesante già di suo, vado orgogliosamente per il secondo consiglio.

Penso di correre seriamente il rischio di fare questa fine. Lo penso da un po’, ma gradualmente questo rischio si è fatto più concreto, fino al punto di dire “non ce la faccio più”.

Il problema è che tutte le altre persone che fanno o hanno fatto Second Tree ogni giorno sono nella stessa condizione. Per questo c’è il rischio vero, presente e quasi immediato che la cosa più significativa e – lo dico – utile che abbia mai fatto in vita mia finisca.

Insomma, questo è il post in cui racconto la storia di una persona che lavora da quasi quattro anni nei campi profughi e si è quasi bruciato cervello, corpo e cuore.

Questo post è una cosa espressiva per me, oltre che un tentativo di mettere in ordine le mie idee, ma anche una richiesta d’aiuto.

Katsikas, dove tutto è cominciato

DARSI DA FARE

Io – rintronato come sono – non sono stato in grado di fare una lista delle cose che faccio, quindi James mi ha seguito per due settimane ed è venuto fuori con una tasklist di 86 ore di lavoro a settimana, fra parlare con ministeri e altre organizzazioni, raccogliere fondi o intervistare potenziali volontarî, andare al campo o scrivere un progetto. La stima è una stima e sarà imprecisa, ma non di tanto, e le altre persone che sono qui in Grecia da tanto tempo sono in situazioni simili.

Il problema è che abbiamo creato una cosa che non esiste altrove, e ci sono buone ragioni per le quali non esiste.

Alcune delle cose che Second Tree fa, nel rapportarsi alle persone che vivono nei campi profughi,sono cose che tutti dicono di fare, ma pochi altri fanno; altre sono cose che pochi altri dicono di fare, perché sono semplicemente diverse.

Il perché le prime richiedano un surplus di impegno, sacrificio e dedizione è molto facile da capire: si tratta di essere presenti, affidabili, disponibili; fare sempre quello che si promette di fare, anche in caso di emergenze. Essere i primi punti di contatto e i primi ascoltatori e solutori di problemi, anche se questi accadono alle 4 di notte, o di domenica. Ma il punto non è lavorare il weekend o dopo le 5, per quello si possono fare i turni, il punto è fare le cose per bene. Molto per bene.

Il perché le seconde, quelle che nessuno dice di fare o fa, richiedano lo stesso surplus è più difficile da dire. Si tratta di considerare le persone che vivono nei campi profughi come esseri umani con i quali si può essere in disaccordo, con cui si può interagire allo stesso livello, con cui si può scherzare e dialogare. Non bambinoni da accudire, ma persone con opinioni, talenti, ottusità, rabbie, empatie, come tutti gli altri. Non concepire l’approcciarsi a un profugo come un’operazione di disinnesco o un esercizio protezione. È molto difficile, e per questo richiede impegno sacrificio e dedizione quotidiani, e infatti non lo fa nessuno.

I risultati si vedono: quando nei campi profughi ci sono gli scioperi dei residenti contro le ONG, Second Tree è esentata. A noi ci fanno entrare. E non perché siamo bonaccioni, o stiamo sempre dalla parte dei profughi, siamo anzi i più severi di tutti quando qualcuno fa una cazzata. Ma per il rispetto nei confronti di ciò che facciamo, del come lo facciamo, e del perché lo facciamo.

Magari un’altra volta scrivo un post su questo, su questa differenza di metodo. Ci sono persone che lavorano nel settore umanitario da anni e hanno conosciuto decine di realtà diverse, e che quando sono venute a vedere quello che facciamo hanno detto «io una cosa così non l’ho mai vista» . Vorrei scrivere un articolo accademico su questo, su come il modello Second Tree andrebbe diffuso negli altri contesti, ma chi trova il tempo? (Però ci proverò!)

Solo negli ultimi 5 giorni – ed è un esempio piuttosto routinario, delle lotte quotidiane – abbiamo rischiato per tre volte di perdere lo spazio in cui facciamo le nostre attività in due dei tre campi in cui lavoriamo, è c’è stato bisogno di uno stremante sforzo diplomatico per scongiurare il pericolo (per quanto?). Ovviamente l’alternativa sarebbe di dire: beh, ma cosa importa?, sospendiamo le attività fino a quando non troveremo uno spazio, come fanno in molti, ma questo vuol dire tradire le persone alle quali diamo il primo barlume di stabilità, di ascolto, di speranza per il futuro.

Il messaggio che ha scritto Lucas dopo il meeting in cui abbiamo parlato della possibile chiusura di Second Tree

PERSONE

L’unico modo per riuscire a fare queste cose è trovare delle persone intelligenti, capaci e soprattuto disposte a stare a lungo e imparare. Ovviamente più persone ci sono, più ci si divide il lavoro. Perché le cose più importanti, quelle che bisogna proprio fare, non possono essere affidate ai 15-20 volontarî che sono con noi per tre mesi, perché quei tre mesi ci vogliono tutti solo per imparare a farle.

Quello che dico sempre è che Second Tree è un’opportunità molto, molto, molto, grande per un numero molto, molto, molto limitato di persone. Non sono molte le persone che abbiano voglia di darsi da fare per aiutare gli altri, senza un vero ritorno economico, ma per la soddisfazione che dà. Però per queste poche persone, l’opportunità di accedere alla gestione e al potere decisionale di un’organizzazione che con successo fa del bene e lo fa bene non capita tutti i giorni.

Il problema è che queste persone non le abbiamo trovate. O non ne abbiamo trovate abbastanza per assicurare un buon turnover che includa anche noi. Con alcuni, forse, avevamo capito male noi; altri hanno cambiato idea; altri ancora hanno proprio mentito. E ovviamente tutte queste delusioni hanno acuito il senso di solitudine, e il senso d’impossibilità di trovare qualcuno, che ci ha portato – oggi – a pensare che probabilmente l’unica strada è chiudere.

A fronte di un gruppo di 5/6 persone che gestisce l’organizzazione sul lungo termine, e che nel tempo si sono consumate, ci sono soltanto 3 nuove leve, persone capaci e che hanno detto di aver voglia di stare almeno un anno. E se vogliamo scongiurare il rischio che anche queste persone facciano la nostra fine, dobbiamo averne di più, non di meno, così da avere la possibilità di spartirsi maggiormente il lavoro.

I “nostri” bimbi

SOLDI

E allora perché non le assumete, direte? Perché non mettete un annuncio? È questione di soldi? Sì e no. Il problema è che il livello di qualità e impegno di cui c’è bisogno per fare le cose bene, come le facciamo noi, è del tutto fuori mercato. Dina, la programme manager di Second Tree, nel suo lavoro precedente guadagnava 5000€ al mese, se ora prende un rimborso di 600€ vuol dire che non lo fa certo per i soldi.

Quindi, certo, se avessimo dieci milioni di euro potremmo investirne 5000€ al mese nell’assumere la crème degli humanitarian workers: ma 1) non avremo mai quei soldi; 2) anche se li avessimo non sarebbe il modo migliore per spenderli. Il piccolo rimborso che prendiamo (e che tra l’altro ci siamo autostabiliti assieme), serve a sopravvivere mentre diamo una mano. Se anche decidessimo di alzarlo un poco, al costo di fare meno cose, attireremmo persone che – legittimamente – sono interessate a quello, e quindi nel momento in cui ricevessero un’offerta da una grande e ricca organizzazione internazionale (come è successo a tutti noi nel giro di 3-6 mesi qui) accetterebbero.

Il segreto di Pulcinella, che tutti sanno nel mondo umanitario, è che le organizzazioni piccole e ben organizzate sono molto, molto più efficienti, serie e rispettose degli impegni oltre che estremamente più oculate col denaro che le grandi organizzazioni internazionali, quelle che uno – almeno io lo pensavo – si aspetterebbe essere più professionali. E questo non perché ai vertici delle organizzazioni internazionali ci siano persone meschine o sciocche, ci sono generalmente persone molto brave e volenterose che devono però lavorare con ciò che hanno. E con i (tanti) soldi che ricevono dai governi, sono costretti ad assumere per la maggior parte persone che non lo fanno per passione, che magari vengono da tutt’altro settore (lavorando come autista per una grande organizzazione internazionale guadagni più del doppio dello stipendio medio da autista), e questo considerarlo un lavoro come un altro si riflette nel lavoro che fanno. Se le grandi organizzazioni internazionali sono mediocri, è perché coi loro mezzi puntare alla mediocrità è l’unico modo che hanno di sopravvivere.

Insomma, non sto dicendo che sono tutti scemi o cattivi. Anzi, all’interno delle grandi organizzazioni internazionali si trovano sempre persone che si fanno in quattro per aiutarti ad avere un’autorizzazione o ti fanno un ordine di quaderni o cartucce per la stampante, così da farti risparmiare quel vitale centinaio di euro. Probabilmente se queste persone non fossero esistite, sulla nostra strada, Second Tree sarebbe già morta (anche per questo individuare queste persone e mantenere queste relazioni è parte dell’immensa mole di lavoro). Anzi, a giudicare da ciò che sto scrivendo, gli scemi siamo noi, visto che il nostro modello – a meno di non riuscire ad avere un bacino molto più grande di potenziali volenterosi – non può sopravvivere.

E non sto rivendicando che Second Tree sia pura e non compromessa col sistema, figuriamoci: facciamo le stesse richieste di autorizzazioni al ministero (siamo una delle uniche due organizzazioni di volontarî in Grecia ad avere ufficialmente accesso ai campi, il che ha ovviamente richiesto un sacco di lavoro diplomatico) e cerchiamo fondi e collaborazioni con quelle stesse organizzazioni, anche solo per piccole cose, come avere un passaggio per andare ai campi (altro lavoro da fare).

Zakia <3

COSA RIMANE

Stiamo provando a fare una cosa che non esiste, e probabilmente ci sono delle buone ragioni per le quali non esiste. Ed è per questa ragione che, visto che facciamo le cose in modo così particolare, l’unica maniera che una persona ha di rimanere a lungo termine è di venire e poi innamorarsi di quello che facciamo, è quello che è successo a tutti quelli che sono poi rimasti.

Mettere un annuncio per attirare persone, magari alzando un po’ il rimborso, non funzionerà: perché la mole di lavoro, l’impegno richiesto, i pochi soldi, sono evidenti a tutti; mentre la parte bella, quella che fa dire a tutti noi – come nel messaggio di Lucas – che questa è la cosa più significativa che avremmo mai potuto fare in vita nostra è nascosta, la puoi vedere soltanto se sei qui e vedi ogni giorno perché Second Tree, per il tipo di persone che siamo noi, vale molto di più di ogni altro lavoro, ed è una delle ragioni per le quali – stupidamente – non ci siamo resi conto di quanto questa bellissima cosa ci stesse mangiando.

Provare a ridurre la quantità di cose che facciamo non aiuterebbe, perché il problema non sono le attività sul campo, per le quali abbiamo un numero sempre sufficiente di volontarî che vengono per 3 mesi, bensì la struttura, lo sviluppo dei programmi, la raccolta fondi, il mantenimento e la gestione delle relazioni, e queste cambiano di molto poco all’aumentare o al diminuire delle attività che si fanno.

Il mio sogno sarebbe quello di stare 4 mesi all’anno in Grecia, 4 mesi all’anno a lavorare per Second Tree e per la causa dei profughi altrove (e ci sono tante cose da fare altrove), e 4 mesi all’anno di qualcosa di meno emotivamente e fisicamente sfinente (magari proprio scrivere quell’articolo accademico). Ma lo so, è un sogno. Purtroppo, però, a stare 12 mesi all’anno in Grecia non ce la faccio più. Cose simili le pensano tutti gli altri che sono qui da tempo.

La mia paura è che saremo costretti a chiudere Second Tree e, nei prossimi 10 anni, incontrerò per caso tante persone di quel tipo lì, quelle che mi diranno “ah, cavolo se solo avessi saputo, era proprio la cosa che avrei voluto fare, ma non ci conoscevamo”.

E questo descrive la paura più grande, e cioè non essere qui per Zakia e per le migliaia di persone come lei che vivono qui e che ci conoscono e conosciamo per nome, e sarebbero perse senza quello che facciamo. Non riesco neppure a immaginare il cuore che ci toccherebbe o toccherà avere per andarglielo a dire. E tutto questo, in buona parte, perché siamo stati sciocchi a non rendercene conto prima. Anche questo, in fondo, è un pensiero egoista. La domanda che mi brucia dentro continua a essere: potrò perdonarmelo?

Se avete qualcosa o qualcuno in mente, scrivetemi: distantisaluti2@gmail.com.

E proviamoci: La storia di Zakia

Nell’ultimo post ho chiesto a chi è ancora romanticamente affezionato a questo blog vagabondo e moribondo cosa dovessi farne: chiuderlo? (A) lasciarlo silente e scriverci un paio di volte l’anno (B)? includere gli aggiornamenti e le storie di Second Tree? (C)

Pensavo rispondessero in pochi, e vincesse la B. Invece hanno risposto in tanti, e ha vinto la C. Non l’avevo mai pensata come una votazione, ma i numeri sono questi (ho preso in considerazione solo le opinioni di chi ha commentato sul blog e non sui varî social network, come richiesto nel post):

2 – A. Distanti Saluti chiude
13 – B. Distanti Saluti rimane così, trascurato ma vivo
34 – C. Distanti Saluti cambia e include altre cose meno personali

Non voglio aggiungere niente su quanta angoscia e quanto sollievo mi dia questa soluzione (Angoscia A>B>C, Sollievo A>C>B).

E quindi proviamoci, a fare ‘sta “C”: Questa è l’ultima mail che avevo mandato su Second Tree, risale al 1º luglio. Non so se ci sta bene, qui, forse sì.

––––

L’ultima volta che vi ho scritto per raccontarvi le cose che succedono qui era il giorno del mio compleanno, più di quattro mesi fa. In 4 mesi tante cose cambiano, e tante, purtroppo, restano le stesse. La Grecia è ora il Paese dove arrivano più profughi in Europa – più che in Italia o Spagna – e con le frontiere chiuse, le persone sono costrette a rimanere in questo Paese, totalmente impreparato a strutturare un sistema di istruzione e integrazione. Ma è anche vero che, vedendo quello che sta succedendo in Italia, quel poco che si era riusciti a fare negli anni sta venendo smantellato.

C’è però della speranza, nonostante tutto. Vi ricorderete di Fatima, la bambina afgana di cui vi avevo raccontato quattro mesi fa. Lei era l’ultima delle persone che vivevano a Katsikas nel 2016, quando sono arrivato, ad essere andate via dalla Grecia. Vi avevo raccontato di lei e di come era cambiata, in questi tre anni. Ma c’è un’altra faccia alla storia di Fatima, ed è Zakia.

Oltre a essere il nostro piccolo genietto (nella foto qui sopra sta festeggiando l’aver passato un esame di lingua inglese), Zakia era la migliore amica di Fatima, assieme a Mahnaz e Farzaneh. Quattro bambine afgane della stessa età (oggi hanno 13-14 anni) che si erano conosciute in un campo profughi. Per tre anni e mezzo sono state inseparabili, passando assieme quegli anni importantissimi che trasformano un bambino in un adolescente. Ogni volta che incontravo Fatima, c’erano anche Mahnaz, Farzaneh e Zakia, facevano tutto assieme. Quest’anno, però, nello spazio istantaneo di poche settimane, Zakia è rimasta sola. Farzaneh, poi Mahnaz, e per ultima Fatima sono state rilocate in altri Paesi europei.

Con Lucas, che gestisce gli scout, e Holly, l’insegnante di Zakia, ne abbiamo discusso a lungo. Sappiamo quanto Zakia sia sveglia e volenterosa, perciò abbiamo pensato di invitarla a diventare uno dei nostri giovani capi scout. Assieme ai bambini più piccoli, il nostro programma degli scout prevede tre giovani capi scout, un poco più grandicelli (tra i tredici e i sedici anni) che parlino una delle tre lingue dei campi (l’arabo, il curdo o il persiano). Questi ragazzi diventano presto un modello di comportamento per i più piccoli, un fattore molto importante anche per combattere gli stereotipi di genere (almeno uno dei capi scout è sempre una femmina).

Anziché dirle «non vogliamo farti sentire sola», abbiamo deciso di approfittare del senso di responsabilità di Zakia per motivarla. Le abbiamo detto: «Zakia, ci serve davvero il tuo aiuto. Shayan, il nostro capo scout che parla persiano è andato via: ci serve una mano con i ragazzi più piccoli». Zakia ha accettato con l’entusiasmo che mette in tutto quello che fa, e ha cominciato a colmare un poco quel buco che la partenza di Farzaneh, Mahnaz e Fatima aveva creato.

Io, Lucas e Holly pensavamo di averla fatta franca! Ovviamente, ci sbagliavamo. Zakia si è rivelata molto più intelligente di noi. Questo è il messaggio che ho ricevuto un paio di settimane dopo da Nahzley, una nostra vecchia volontaria e insegnante d’inglese di Zakia. Zakia le aveva scritto questo messaggio che Nahzley mi ha inoltrato:

Il messaggio di Zakia dice: «sì, ora sto lavorando per gli scout perché quando le mie amiche sono andate via teacher Holly, Giovanni e Lucas hanno deciso di invitarmi agli Scout così che non mi sentissi sola e triste».

Aveva capito tutto. Sciocchi noi a pensare di potergliela fare.

Questa storia sarebbe già incredibile così, ma pochi giorni dopo è successa un’altra cosa: abbiamo postato la prima foto di Zakia negli scout (non ha ancora il foulard!). Lei sorride, assieme ad altre tre bambine afgane del gruppo che già la ammirano (che ci crediate o meno, è riuscita a convincerle a diventare vegetariane!). È una foto in cui sembra proprio che Zakia sia riuscita a colmare il vuoto lasciato da Fatima, Mahnaz e Farzaneh. 

Non so voi, ma se io fossi stata una delle tre vecchie amiche, quando ero un adolescente, sarei diventata piuttosto gelosa. “Ci ha rimpiazzate?”, mi sarei domandata. Invece questo è stato il commento che, dall’Austria, Farzaneh ha lasciato sulla nostra pagina Facebook (non so se riuscite a leggerlo a fianco della foto): “Spero che le bambine che sono lì attorno a te sappiano quanto sei una persona splendida, dolce e divertente. Mi mancate davvero tanto, tu e le altre ragazze”.

E quindi, cosa dire? Se nonostante la situazione politica – in Italia, in Grecia, e nel resto d’Europa – e l’inevitabile scoramento che ne deriva, se negli inevitabili momenti di pessimismo e sconforto, se quando l’orizzonte sembra soltanto grigio riuscite a pensare che il futuro del nostro continente sarà in mano alle persone adulte che Zakia e Farzaneh diventeranno, vi sfido a non ricavarne un poco di speranza.

Vi lascio con una foto di Zakia e una di Farzaneh. Zakia è negli scout, e ha appena ricevuto il suo foulard. Farzaneh è in una delle nostre classi, quando era ancora in Grecia:

Se ricevete questa email è perché, almeno una volta, avete fatto una donazione a Second Tree. Perciò parte di quello che facciamo è anche merito vostro, ed è mio e nostro dovere raccontarveli. Non sono bravo a fare ricatti morali, o richieste pietose, quindi dico semplicemente: se state pensando di fare una nuova donazione, ci date una mano a continuare il nostro lavoro. Per farlo potete cliccare sul link qui sotto:

––––––> DONA ORA <–––––– 

Ciao,

Giovanni 
(e tutti gli altri che fanno Second Tree ogni giorno)

p.s. Se non volete ricevere più email come questa (ne mando al massimo una ogni due mesi), o se volete dirmi qualcosa, potete direttamente rispondere a questo messaggio

p.p.s Ho detto a Zakia che avrei scritto di lei “ad alcuni miei amici in Italia” e le ho chiesto se aveva qualcosa da dirvi. Mi ha detto che in italiano conosce solo due parole, perché fa il verso a me. Quindi, ecco, in allegato c’è Zakia che vi saluta, ma non proprio come vi aspettate!Attachments area

Bonus, che non era incluso nella mail: qui c’è il video dolcioso in cui un orco consegna il diploma a Zakia.

In morte di un blog (o forse no)

Mi ricordo, nei primi anni di questo blog, se non scrivevo almeno una volta al giorno mi sembrava mancare qualcosa. Non al ristretto ma affezionato pubblico (sono arrogante, ma non così tanto!), ma proprio a me. Ora, come ho visto, scrivo due post all’anno, e più per dovere che per desiderio.

Il paradosso è che quando un post l’ho scritto, sono contento di averlo scritto. Ma mettermi a scriverlo mi fa fatica, e un po’ mi angoscia. Non so bene perché, sicuramente è perché mi sento un po’ in colpa di non scrivere abbastanza, ma anche perché penso che dovrei scrivere qualcosa – un progetto, un’email, una richiesta di donazioni – per fare sì che Second Tree possa continuare il suo lavoro e quindi aiutare le persone che vivono nei campi qui.

In questo senso prendere una decisione “non scrivo più sul blog”, lo chiudo, mi darebbe un po’ di sollievo. La sensazione di inadeguatezza è ampliata dal fatto che diverse persone mi dicono che dovrei scrivere di più, e dovrei scrivere per Second Tree, dovrei usare di più quella parte di me, che analizza la realtà, che racconta storie. Hanno ragione. Ma questo aggraverebbe la questione perché, ovviamente, se scrivo di più per Second Tree scrivo di meno di me, di quello che vorrei scrivere io.

È diverso tempo, forse anni, che rimando questa questione. Ma ieri è successa un’altra cosa: ogni paio di mesi mando un’email alle persone che seguono Second Tree, e racconto quello che faccio e soprattutto quello che facciamo. Non è una vera newsletter, perché è più “mia”. Ma è sicuramente meno “mia” di questo blog. Stavolta mi hanno risposto in tanti, dicendomi: ma perché queste storie non le metti sul blog?

E quindi ci ho pensato. Non sarebbero tanti post, sei all’anno, ma sicuramente sarebbero cose che ad alcuni piacerebbe leggere. Potrebbero diventare presto anche di più, se decidessi davvero di mettermi a scrivere le storie delle persone che vivono qui. D’altra parte sarebbe mettere qui contenuti che non sono stati creati per questo blog e in qualche modo una distorsione di quello che questo blog ha sempre fatto, cioè raccontare quello che penso e quello che faccio, non quello che pensiamo e quello che facciamo. Anche perché ci sono tanti “noi” nella mia vita, e questo sarebbe soltanto uno, benché quello più importante.

Ho pensato di domandare cosa ne pensano ai pochi superstiti lettori di Distanti Saluti. Io vedo tre opzioni:
– A. Distanti Saluti chiude
– B. Distanti Saluti rimane così, trascurato ma vivo
– C. Distanti Saluti cambia e include altre cose meno personali
– D. Altre idee?

Mi rendo conto che non è una decisione che cambierà la vita a nessuno, ma mi piacerebbe sentire qualche opinione. Per una volta scrivete nei commenti anziché sui social network per non disperdere il feedback.

E un altro anno è andato

Oggi è di nuovo il mio compleanno, il tempo passa proprio in modo strano.

Me ne sono ricordato due giorni fa, quando Fatima mi ha detto: parto il 25 Marzo. Fatima è la figlia grande dell’ultima famiglia ad andare via da qui fra quelle che erano nel campo di Katsikas quando sono arrivato. Lei, il padre e i due fratellini vanno a ricongiungersi con la madre, Sakine, che vive da tempo in Svizzera. Ieri sera mi ha detto «sono 70% contenta, e 40% dispiaciuta di andare via». Il primo pensiero è stato che quella sovrabbondanza in spregio alla matematica fosse il risultato inevitabile della moltiplicazione delle identità che questi ragazzi – sospesi fra due e più mondi, fra due e più case (o tende, o container) – si trovano a dover vivere.

Poi mi sono ricordato chi è Fatima, di come l’ho vista crescere quasi ogni giorno dai 10 ai 13 anni e mi sono messo a ridere. Forse è il segno della mia vecchiaia, quello di cercare grandi significati palingenetici in ogni piccola sciocchezza. Poi mi sono ricordato chi sono io, di come ‘sta tendenza l’ho sempre avuta, concludendone che – insomma – non sono invecchiato: sono sempre stato vecchio.

Quindi chissenefrega del compleanno. Lo festeggerò andando ad accompagnarli al bus, che li porterà ad Atene, per poi volare a Zurigo, facendomi un bel pianto di commozione. Ieri, però, ho mantenuto una promessa che gli avevo fatto: per sdebitarmi delle tante cene afgane che nel tempo mi avevano offerto, l’ultima loro sera a Ioannina avrei cucinato qualcosa d’italiano. Ho fatto la carbonara vegetariana:

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Con questa partenza si è chiuso un capitolo. Quella dell’assistenza umanitaria a persone che sarebbero andate in altri Paesi. Le 3200 persone che sono oggi in Epiro non hanno diritto ad andare in altri Paesi europei: sono costretti a rimanere qui in Grecia (se sono fortunate e la loro richiesta d’asilo viene accettata). Tante cose sono cambiate.

E quindi come sto? L’anno scorso, per il mio compleanno, avevo scritto un post molto pensato, in cui raccontavo delle riflessioni che avevo maturato negli ultimi anni, della mia vita. Quest’anno di riflessioni non ne ho molte di più. Se devo rispondere alla domanda, come sto?, direi che sono stanco. Non stanco felice, stanco stressato.

Principalmente perché, per far sopravvivere Second Tree mantenendo la propria capacità di determinare come vogliamo aiutare, è tutta questione di soldi. Ovviamente, non dico nulla di rivoluzionario, è una considerazione così banale, quasi populista. Non è una cosa che stupisce, ma è una cosa che consuma: la qualità del proprio lavoro non c’entra nulla. Quante donazioni riceviamo (a proposito, se volete farmi un regalo, qui c’è la pagina delle donazioni), specie quelle grandi da enti o istituzioni, non dipende in alcun modo dall’impatto di quello che facciamo, o dalla qualità con cui lo facciamo, ma – se siamo fortunati – dalla bellezza della foto che l’accompagna, e – se siamo sfortunati – da cosa siamo disposti a fare per ottenerla.

Non dico nulla di nuovo, eh? Lo so. La cosa che stressa, però, è decidere quanto tempo – e riserve emotive – dedicargli. Second Tree non è stata creata a tavolino, ci siamo incontrati come volontarî  in un campo profughi, ci siamo riconosciuti come persone che hanno lo stesso obiettivo e sono abbastanza dediti a quell’obiettivo da darsi uno standard rigoroso di efficienza. Non abbiamo deciso: “tu fai strategia, tu fai le distribuzioni, tu scrivi i budget”. Siamo stati solo fortunati che tutti avevamo delle qualità complementari. Ma, ovviamente, ci sono dei buchi: non siamo esperti di fundraising o comunicazione.

E quindi tocca a qualcuno farlo. C’è sempre una tensione: cosa sono disposto a fare, eticamente, per fare sì che Second Tree stia in piedi. Ma anche, cosa sono disposto a sacrificare, umanamente. Andare a cena da Fatima ieri è stato il miglior uso del mio tempo? Probabilmente no. Certo, c’è un valore nell’essere vicini alla comunità con la quale lavoriamo, e un enorme valore nel rapporto che abbiamo costruito con loro negli anni, ma – se devo essere onesto – questa è fondamentalmente una spiegazione autocompiaciuta e autogiustificatoria. Se ieri sera avessi speso quelle tre ore scrivendo un progetto e presentandolo avrei contribuito al benessere potenziale di quelle persone molto più che cucinando e mangiando con loro. Ma cucinare e mangiare con loro mi fa stare bene.

Questa è la tensione che consuma. Scegliere quanto consumarsi. È facile dire “per aiutare gli altri devi prima aiutare te stesso”, ma cosa vuol dire aiutare gli altri?

Grandi domande, risposte banali. Continuo a pensare, come ho scritto l’anno scorso, di essere un privilegiato. Posso almeno avere la speranza di essere soddisfatto di quello che faccio ogni giorno. Tante persone non hanno neppure quella speranza. Però, certo, se la domanda è: sono soddisfatto? La risposta è probabilmente, “no”.

O, paradossalmente, sono soddisfatto quando vedo com’era Fatima tre anni fa e com’è ora. Se lo vedo coi miei occhi. Che è precisamente quello che ho appena detto non dovrebbe essere ciò che mi motiva e ciò che pratico quotidianamente. Eppure:

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Auguri Fatima, Nabi, Mehdi, Ali, Sakine. È il mio compleanno, ma è la vostra festa, e di tutte le persone che erano qui, quel 15 aprile del 2016, e ora sono sparse per l’Europa.

Pantani e il prato di aghi sotto al cielo

Pantani a VissaniOggi sono 15 anni che è morto Pantani, e quindi mi obbligo a raccontare una cosa che mi è successo qualche settimana fa, e che mi ha colpito molto.

Per traversie che non sto a raccontare, mi sono ritrovato nel paesino greco di Vissani, in cima alle montagne dell’Epiro, al confine con l’Albania e con la totale ruralità.

Wikipedia dice che Vissani ha 424 abitanti. Ben uno di questi è italiano, la signora Alessandra, che è mezza lombarda e mezza triestina e ha sposato un greco. Conosco il figlio, che lavora con i profughi anche lui, ed è un bravo ragazzo.

All’entrata del paesino di Vissani c’è una taverna, l’unica, che non è gestita da Vissani, ma dalla signora Alessandra. Ci ha seduti accanto al caminetto e ci ha offerto della “pastasciutta” – dove altro potrei trovare in Grecia qualcuno che dice pastasciutta? Io l’ho rifiutata perché, le ho detto, sarei tornato in Italia qualche giorno dopo per Natale; a quel punto, quasi come si fosse ricordata in quel momento che fossi italiano anche io, mi ha detto «vieni».

E mi ha portato in questo angolo della taverna, in cui sopra alle mensole che ospitano gli Amaretti di Saronno e i Campari c’è una cornice con una foto di Pantani. «Me l’hanno portata i suoi genitori, un anno dopo, perché erano qui quando è morto». Io sono sobbalzato. «Come erano qui?». «Sissì, Pantani è venuto qui anche lui, a caccia con i suoi genitori. Venivano con il camper da casa loro, per rilassarsi». Volevo farle altre domande, ma non sapevo che domande farle. Quando le ho chiesto che tipo era, Alessandra mi dice «non lo so, lui non parlava molto», dimostrando che in fondo lo sa, senza neanche sapere di saperlo, che tipo era.

E allora sono andato a vedere tutti gli articoli del giorno che è morto, e c’è scritto che i genitori stavano rientrando dalla Grecia dove erano in vacanza. E io, nel retro del mio cervello, ce l’avevo anche questa nozione che i genitori di Pantani fossero in Grecia quando lui era morto, ma chissà, li immaginavo da qualche parte al mare, del resto Cesenatico, gente di mare.

E invece venivano qui. Nell’Epiro. In un paesino nel nulla delle montagne della regione in cui vivo, a 45 minuti da dove abito, e a molto più tempo da qualunque altra cosa che avrei collegato a Pantani. Mi sono messo a rileggere tutti gli articoli che raccontavano di come anche lui, dopo un paio di fatti sventurati che tutti conosciamo, aveva cominciato anche lui a venire con i genitori in Grecia, e io ora so dove.

E così mi sono sentito un po’ La storia siamo noi.

Buon San Valentino, ma non a voi

3 su 5

L’unica tradizione di questo blog, come ogni anno, il post di San Valentino. Che vale ancora di più, ora che lavoro con persone che vengono da Paesi dove l’amore è messo al bando, da matrimonî combinati o leggi assurde.

Tanti auguri.

Agli unici innamorati al mondo che non possono permettersi di non sopportare questa festa. Che non hanno il diritto di sogghignare dei lucchetti a Ponte Milvio o farsi venire l’urticaria per le strade tappezzate di cuori di peluche rossi. Di ridere delle scritte per terra, o di considerare kitsch le scatole di cioccolatini a forma di cuore.

In Arabia Saudita, e in tanti altri posti del mondo, festeggiare San Valentino è vietato dalla legge. Ti viene a prendere la polizia per l’imposizione della virtù e l’interdizione del vizio. Non è una parodia, si chiama veramente così. Perché amarsi è un’idea occidentale.

A tutti coloro per i quali volersi bene è – necessariamente – un atto rivoluzionario, a loro, buon San Valentino.

Piccole grandi soddisfazioni

Marco è un uno dei volontarî che era stato a Katsikas e che, poi, era tornato in Grecia per dare una mano a Second Tree nei primi, importantissimi, sei mesi di vita. Dopo aver lasciato la Grecia, ha cominciato un master in Olanda, per il quale ha deciso – non poteva stare lontano per tanto tempo! – di fare una tesi di ricerca sull’integrazione dei profughi nei Paesi scandinavi.

Così è andato in Svezia e in Finlandia, dove molte delle persone che erano nel campo di Katsikas sono state rilocate, ed è passato a visitare tutti, facendo interviste per la sua ricerca e chiacchiere sulle loro vite, ora. Il giorno che è ripartito ha scritto a me, e a un gruppo di volontari di lunga data, questo stupendo messaggio. Con il suo consenso l’ho tradotto e lo pubblico qui sotto:


Ciao habibati! Attenzione: questo è un messaggio lungo, ma positivo. Prendetevi il vostro tempo per leggerlo.

Come molti di voi sanno, attualmente sono in Svezia a fare un progetto di ricerca sulle persone di Katsikas e ho incontrato molti dei nostri vecchi amici di “Katsikas prima generazione”. Sto per tornare in Olanda ora e, prima di essere risucchiato nel processo di scrittura della tesi e dimenticarmene, voglio condividere con voi alcuni pensieri sugli effetti del lavoro che abbiamo fatto assieme a queste persone, specialmente per coloro che non hanno avuto la possibilità di incontrare la gente di Katsikas dopo che ha lasciato la Grecia.

Marco

Marco distribuisce fette di torta ai tavoli di famiglie afgane e greche in uno dei nostri eventi del progetto di gemellaggio

Ho fatto molte interviste e conversazioni con i nostri amici, e una cosa che tutti sembrano condividere è un intenso sentimento di gratitudine nei nostri confronti. Di volta in volta, i vostri nomi sono venuti fuori durante le conversazioni e le interviste; molti dei nostri amici mi hanno detto spontaneamente quanto il lavoro dei volontari fosse stato importante per loro. Per usare le parole di Afaf e Aead, “i volontari hanno reso le nostre vite migliori”. Penso di non aver pienamente compreso l’impatto del nostro lavoro, quanto i nostri sforzi abbiano aiutato le persone di Katsikas in un frangente che alcuni hanno definito come il momento peggiore della loro vita. Non l’ho capito finché non li ho sentiti parlare di quel periodo in retrospettiva.

Ma oltre alla gratitudine c’è dell’altro, e riguarda ciò che resta del nostro lavoro ora che queste persone sono sparse per l’Europa e stanno costruendo una nuova vita per se stesse. Il team di Second Tree ricorderà bene quelle lezioni di inglese semi-improvvisate che tenevamo a Exohi. Bene, qui in Svezia sto assistendo in prima persona a come il poco inglese che siamo riusciti a trasferire nelle teste dei nostri amici li sta aiutando ad andare avanti. In un nuovo Paese in cui devono imparare ancora un’altra lingua per sopravvivere, essere in grado di comunicare almeno con un inglese di base significa molto. Coloro che hanno fatto amicizie svedesi spesso parlano con loro in un mix di svedese e inglese. Inoltre, l’inglese aiuta le persone a imparare lo svedese più velocemente a causa delle somiglianze tra le due lingue e inoltre aiuta anche a studiare, a comunicare con gli insegnanti a scuola e a parlare con lo staff dei comuni in cui vivono quando i traduttori non sono disponibili. Una delle ragazze di Ghazi mi ha detto che ha fatto amicizia con una ragazza svedese a scuola perché possono parlare inglese assieme. Anche Habibi.Works è ricordato con grande affetto, specialmente dagli scout.

Quindi, se vi scoprite a chiedervi se il vostro lavoro ha avuto un qualche impatto a lungo termine per le persone che abbiamo cercato di aiutare, posso rassicurarvi che è successo. Forse non quanto volevamo o speravamo – del resto non sarà mai abbastanza fino a che non saranno loro garantiti gli stessi diritti e le stesse opportunità di cui godiamo noi – ma sicuramente ha lasciato un segno.

Spero che queste parole vi diano la fiducia per continuare il vostro lavoro, specialmente a quelli di noi che stanno ancora affrontando lo stress di lavorare sul campo.

Sentitevi liberi di condividere questo messaggio con quelli che ho dimenticato di includere. Grandi abbracci a tutti voi da Malmö.

Un messaggio che riscalda l’animo ma soprattutto inorgoglisce.

Nel mezzo del cammin

Oggi ho 35 anni. Quando ho aperto questo blog ne avevo 25, e stavo per partire come volontario nei campi profughi della Palestina. Ora sono in Grecia, dove ho creato e dirigo una piccola ONG che si occupa di costruire un presente e un futuro migliore ai profughi qui. A leggerla così sembrano due fotografie di un percorso coerente e deciso, e invece no. In mezzo c’è di tutto. In questi dieci anni ho fatto tante cose (ne ho fatte anche troppe poche), ho incontrato molte belle persone (e qualche stronzo), ho cambiato un sacco di idee, ho scelto abbastanza ma avrei preferito scegliere di più, mi sono fatto domande. Ho pensato molto. In generale, sono stato molto fortunato.

È difficile fare un bilancio senza sopravvalutare il presente. Tutto viene inevitabilmente misurato e prende una piega a confronto con l’oggi: sono più o meno felice di dieci anni fa? E di cinque? E di due? (meno, boh, più). Sono più realizzato? Mi sono capito? Ho trovato la mia strada? (forse, penso di sì, macché). Sono diventato più bravo? Più forte? Più buono? (dipende, no, sicuramente). Se il me di dieci anni fa mi vedesse cosa penserebbe di me? Cosa cambierebbe del percorso fatto? Accetterebbe di diventare quello che sono ora? (non capirebbe, poco ma significativo, mi sa di no).

Una cosa che ho capito, e mi ci è voluto molto tempo, è che – 1) ciò che sei bravo a fare; 2) cioè che ti piace fare; e 3) ciò che è giusto fare – sono cose diverse. Solo alcuni di noi hanno la fortuna, e il privilegio, che almeno due di queste cose coincidano. Gli altri devono faticare d’insoddisfazione, fare un po’ e un po’, barcamenarsi fra l’uno e l’altro, tirare a indovinare. E alla fine fare una scelta. Io ho capito – ci ho messo molto, ma l’ho capito; lentamente e grazie all’influenza di alcune persone importanti della mia vita, una in particolare – che l’unica cosa che davvero vale la pena è la terza: fare ciò che si ritiene giusto, provare ad aiutare chi è vulnerabile. Almeno così è per me.

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Probabilmente alcuni saranno stupiti nel leggere queste considerazioni: non pensi di essere bravo in quello che fai? E, soprattutto, non ti piace? Quanto all’essere bravo, boh, penso di cavarmela. Penso che con un minimo di attenzione e un po’ di voglia di imparare si possa fare decentemente qualsiasi cosa. Ma, di certo, non direi che districarmi nella politica delle ONG è il mio talento. Quanto al piacermi del mio quotidiano, beh, obiettivamente no. Non mi sveglio con la gioia di vivere la giornata che verrà, ma questo dipende anche dal fatto che quello che faccio è molto cambiato da quando abbiamo cominciato Second Tree.

Avevo già raccontato come è andata: dopo aver lavorato per quasi un anno a Katsikas come volontarî indipendenti, assieme ai migliori fra i ragazzi coi quali avevo collaborato nel campo, abbiamo capito che la maniera per diventare più efficaci nel nostro sforzo d’aiuto era – anche in questo caso grazie al casuale incontro con le persone giuste – creare un’organizzazione locale. Era il modo per mantenere un notevole livello d’indipendenza e di autodeterminazione del proprio lavoro e dei proprî principî, ma al tempo stesso essere presi più seriamente dalle organizzazioni internazionali e dallo Stato greco. Per diverse ragioni più o meno incidentali abbiamo deciso che fossi io a coordinare l’organizzazione.

E così è oltre un anno che il mio lavoro non è più stare a contatto con le persone, gestire i piccoli conflitti quotidiani, prendermi cura direttamente. No, la mia giornata tipo è raccontata molto di più dal rispondere a email, partecipare a meeting, incontrare questo o quella per un caffè, scrivere un budget, andare in giro a cercare fondi. Soprattutto cercare fondi. Sì, nei fatti, l’80% di quello che faccio è una qualche forma di chiedere soldi o pensare a come ottenerli (e mi conoscete: l’ho detto che non sono tanto bravo a fare quel che faccio!). Ovviamente posso partecipare alle attività che facciamo: vado a molti degli eventi del nostro programma d’integrazione, ogni tanto assisto alle nostre classi di lingua, delle volte rinuncio al mio unico giorno libero per passare la giornata in una delle escursioni che facciamo coi nostri ragazzi: e in generale tutti sanno – e spesso succede – che possono rivolgersi a me se c’è un problema. Tutti mi conoscono per nome, ma io non conosco più per nome tutte le persone che vivono nei cinque campi in cui lavoriamo. è una differenza significativa e che ferisce la parte più narcisista di me: quella che vuole “sentire” di fare la cosa giusta, più che farla.

Anche questo è cambiato: ho imparato a tenere a bada quella parte di me. So che quello che faccio è importante, che parlare con il ministero per avere accesso a un campo o raccogliere fondi per cominciare un’altra attività, è semplicemente fondamentale e influenza il bene che possiamo fare molto più che il mio piccolo gesto di testimonianza, e se – per varie ragioni – ha più senso che lo faccia io, è giusto che lo faccia io. Non so cosa mi riserverà il futuro: se mi chiedessero “sarai ancora in Grecia a lavorare con i profughi fra due anni?”, risponderei “molto probabilmente no”, ma del resto se mi avessero fatto la stessa domanda due anni fa, avrei dato la stessa risposta, e invece eccomi qui. Certo, life-is-what-happens-to-you-while-you-are-busy-making-other-plans, ma l’aver creato qualcosa che dà compimento a ciò che pensi sia giusto fare è inevitabilmente difficile da lasciare. Mi verrebbe da usare l’abusata metafora del figlio.

Insomma, è questo che voglio dire quando dico che mi sento molto fortunato: e quando lo dico non intendo (soltanto) rispetto all’essere nato e morto di fame in un Paese dell’Africa centrale, penso davvero di essere fortunato rispetto alla larga maggioranza delle persone. Ogni volta che mi guardo indietro mi ritrovo a essere contento: lavoro quotidianamente per qualcosa in cui credo molto, e che investe di significato la mia vita, e lo faccio con persone che stimo molto che ho scelto e mi hanno scelto. So che in pochi hanno questo privilegio. Il fatto che i piccoli gesti che servono a comporre quel quadro non siano del mio massimo gradimento è, obiettivamente, una minuzia.