Il culo di Bacchiddu

2 su 5

Il dibattito sul culo (sull’esposizione del) di Bacchiddu è uno dei rari dibattiti nei quali hanno ragione entrambe le parti, e ce l’hanno perché non si parlano. I primi dicono: «ehi, stai facendo una cosa sessista. Staiusando il tuo corpo a fini elettorali», e hanno ragione, al di là della povertà del verbo. I secondi dicono «una donna può fare quello che vuole col proprio corpo», e hanno ragione anche questi.

Il punto, però, è un altro; e forse è ben riassunto nell’«uso qualunque mezzo» con il quale Bacchiddu ha giustificato la pubblicazione della foto. Il sottinteso è, chiaramente, che questo mezzo – il culo – sia in qualche modo “oltre” i mezzi convenzionali, sia per il costo etico (replico un mondo maschilista), sia per il costo personale (mi pesa mostrare il culo). In sostanza, Bacchiddu mostra di sapere che c’è un costo nell’usare il proprio culo a fini elettorali, semplicemente pensa che “il fine giustifica i mezzi”. In altre parole, che questo peso sia meno importante del beneficio che si avrebbe – nella testa dell’autrice – da un voto alla lista Tsipras.

Naturalmente per fare queste considerazioni bisogna postulare due cose: A) Lista Tsipras guadagnerà almeno un voto per l’esposizione del bikini o per le successive reazioni (evidentemente ciò che pensa Bacchiddu); B) l’azione sia stata premeditata, e non sia semplicemente uno scherzo fatto per gli amici (io sono un grande fautore del diritto alla cialtronata, e infatti non farò mai il politico).

È evidente che la gradevolezza di un corpo in bikini sia completamente priva di valore politico (e quindi ogni voto guadagnato in questa maniera è un “trucco”), come è evidente che lo sfruttamento di questo trucco (“ci sono degli uomini stupidi che voterebbero per questo”) non aiuta l’emancipazione femminile. La risposta di Bacchiddu è, evidentemente: non mi importa, il piano economico (per dire una cosa) della lista Tsipras in Europa è più importante del, piccolo, danno che faccio nelle teste di quelle persone lì, rinforzando la loro idea cavernicola dei rapporti uomo-donna (in sostanza: il sesso come qualcosa che la donna concede all’uomo).

In pratica Bacchiddu è Ruby. Sfrutta la mentalità viscida di alcuni uomini per averne un tornaconto. In questo rinuncia a correggerli (piccolo danno alla società), e fa un sacrificio (piccolo danno a sé stessa), per ciò che ritiene un bene più grande. A livello procedurale non c’è alcuna differenza fra mostrare il bikini per guadagnare voti, e fare sesso per uscire dalla povertà. Il fatto che Ruby si sia spinta più in là potrebbe essere dovuto alla mancanza di alternative o al maggior interesse per il risultato (sarebbe interessante chiedere a Bacchiddu se sarebbe disposta a fare sesso con qualcuno per ricevere 1000 voti. E se la risposta è “no”, come credo: perché no?).

E siccome, a occhio, quelli che difendono Bacchiddu criticavano Ruby, e quelli che difendevano Ruby criticano Bacchiddu, penso che – una volta di più – questo dibattito si sia nutrito di partigianerie e difese/accuse d’ufficio, e non di logica e onestà intellettuale.

 

Cambiare idea

1 su 5

All’inizio di questo blog parlavo spesso di me, delle cose che mi succedevano, delle cose che pensavo; poi ho cominciato a scrivere soltanto di posizioni politiche, etiche, polemiche; potrei tornare a fare come facevo prima.

Perché mi sono reso conto di questa cosa: tanto tempo fa, non mi capacitavo del fatto che le persone non cambiassero idea. Delle volte dicevo o scrivevo delle cose che mi sembravano molto convincenti, e trovavo inconcepibile che le persone mantenessero la propria opinione senza fornirmi (e soprattutto fornirsi) un’obiezione. Molte di quelle idee erano sicuramente sciocche, e se le rileggessi ora mi metterei a cantare (capita anche a voi di mettervi a cantare se pensate alle cose imbarazzanti che avete pensato o fatto in passato?). Ma la questione era di metodo: come è possibile non darsi gli strumenti per ammettere la possibilità di un ravvedimento? Due persone di intelligenza paragonabile, che partono da premesse simili, non possono non giungere a una conclusione condivisa.

Poi ci ho fatto il callo, su come è il mondo là fuori. Mi sono abituato: molte persone sono affezionate alla propria idea, sono più interessate al difenderla che all’avvicinarsi alla verità. Determinano perché pensare una cosa dopo aver deciso cosa pensare. Quando si discute di una cosa capita più spesso che si finisca a discutere di un’altra («e allora tu?», «lo dici perché…», per fare due esempî prezzemolo) che non a risolvere la cosa stessa. Quindi bisogna abituarsi all’idea di arrendersi: se ci sono segnali che una persona non sia disposta a cambiare idea, beh, è inutile continuare a discuterci. Si può parlare d’altro, ma vale la pena lasciare stare quell’argomento.

Ultimamente, mi sono reso conto, c’è stato una terza evoluzione che è al tempo stesso un ritorno alle origini e il compimento di questo percorso evolutivo. Ma è anche dimostrazione di disincanto e, quindi, in ultima analisi di cinismo. Sono stufo. Ho perso di testardaggine, ma anche di generosità. Non ho più quello che Alessio ebbe a definire il mio “fervore speranzoso”. Se concepisci la discussione come un terreno in cui difendere la propria opinione (se pensi che esista una cosa come un’opinione propria), se non hai interesse a convincermi delle tue ragioni e a essere convinto dalle mie – se non t’interessa migliorarti, se non t’interessa migliorarmi – a me non interessa avere un rapporto con te. Così, fra le persone che frequento, ho progressivamente guadagnato la fama di quello che è più disposto a cambiare idea, e quello che è meno disposto a tollerare chi non cambia idea.

Sono incattivito? Probabilmente è così. Anzi: è così. Vivo meglio, ma sono più egoista. Eleggo alcune persone, quelle con le quali – sono stato molto fortunato a incontrarle – si discute anche 2 ore della stessa cosa, non capacitandosi che l’altro non si convinca della mia, o non mi convinca della sua, idea. Poi, sempre, arriva l’epifania: e in un secondo, dopo ore di discussione, si cambia discorso e non se ne parla più, perché il fatto che uno abbia cambiato idea non è un fatto degno di nota, tanto meno un’umiliazione. Sono certamente una persona migliore, ma sono migliorato per me, e non per gli altri: ho lavorato molto su me stesso, ho maturato degli strumenti per elaborare in fretta un necessario cambio d’opinione, ma lo stesso pretendo dagli altri. Il paradosso è che, forse, se incontrassi quel me di qualche anno fa mi starei sul cazzo.

Qualche dubbio di un garantista su Cancellieri-Ligresti

3 su 5

Sulla questione Cancellieri-Ligresti si scontrano due visioni: quella secondo la quale la giustizia viene prima dell’equità e quella secondo la quale l’equità viene prima della giustizia. I primi dicono che, per Cancellieri, fare la cosa giusta in un caso – di suoi amici, o di suoi nemici – è meglio che non farla in alcun caso. I secondi riconoscono un valore maggiore all’equità: se qualcuno non può avere il trattamento giusto, non lo dovrebbe avere nessuno.

È una discussione vista tante volte, come ad esempio nel caso delle pensioni di reversibilità per i parlamentari gay (ce l’hanno i parlamentari, non quelli gay: è giusto darla almeno ai parlamentari gay se i cittadini non ce l’hanno?), e sul principio generale non mi sembra ci siano dubbî: l’equità è un valore importante, ma viene dopo la giustizia. E un po’ di giustizia è meglio che nessuna giustizia.

[Sto naturalmente dando per scontato che si ritengano ingiuste le condizioni di carcerazione di Ligresti (e di molti altri detenuti), e che – come sembra, e non abbiamo ragione di dubitare – il Ministro non abbia fatto alcuna pressione che non gli compete: non fosse così, la discussione sarebbe completamente un’altra e credo che tutti sarebbero concordi]

Fra l’altro, il primo punto di vista è difeso da tutte le persone per bene che conosco e leggo; il secondo punto di vista, a quello che ho avuto modo di vedere, non ha dei grandi avvocati: gli argomenti vanno dall’inarticolato allo squisitamente fascista. Leggere cose come queste, con tutto l’armamentario dei “curiosamente” e dei più elementari non sequitur inquisitorî, fa schifo.

Eppure, sul caso specifico, a me rimangono delle perplessità che mi fa piacere confrontare con le opinioni di chi stimo e la pensa diversamente da me.

Una cosa molto importante nel valutare le azioni che si fanno sono le conseguenze che quelle stesse azioni hanno nel mondo: cosa insegnano, e quali limiti di accettabilità costruiscono per gli altri. Così forse sembrerà una cosa vaga, ma è invece il modo con il quale viene costruita una società. È il motivo per il quale ora buttiamo le carte per terra molto meno rispetto a vent’anni fa, e se lo facciamo abbiamo la percezione che sia una cosa sbagliata (magari lo facciamo ancora, ma se c’è qualcuno davanti, aspettiamo che abbia girato l’angolo).

Cosa insegna la telefonata di Ligresti a tutte le persone coinvolte? Ai funzionarî incaricati, ai capi della polizia, alle persone che lo vengono a sapere, agli amici e ai parenti di queste persone a cui questa storia è stata raccontata, agli amici degli amici, etc. Insegna che di fronte a un difetto del sistema, di fronte a un’ingiustizia di cui si è vittima, si cerca la via di fuga, si cerca di aggirare il sistema perché il sistema non funziona. E, intendiamoci, è vero: il sistema non funziona. Ma continuando a trovare il modo per aggirarlo, ne contribuiamo al rinforzamento.

E questo è un principio che – mi dispiace dirlo – in Italia è difficilissimo da comunicare. In tantissime circostanze mi è capitato di vedere persone, anche persone da cui non me lo sarei aspettato, anche persone fra quelle che più stimo, che considerano del tutto normale alzare il telefono per avere una via preferenziale: ripeto, non per avere qualcosa che non gli spetta, ma per ottenere ciò che i giusti canali dovrebbero garantirgli e che non riesce a ottenere attraverso i giusti canali. È una delle tante riproposizioni del fine che giustifica i mezzi.

L’Italia funziona così: per informazioni particolari. Spesso la raccomandazione non è nel truccare un concorso, ma nell’accesso al concorso stesso. C’è un bando, potrebbero accedere tutti, ma lo sanno solo gli amici di quelli che l’hanno esteso (e chi lo fa pensa: in fondo che c’è di male a segnalare a un amico che c’è un posto di lavoro?). E, in una piccola misura, lo facciamo tutti: è come è “costruito” il Paese a costringerci per andare avanti.

Nel mondo anglosassone questo è molto diverso. Non è che queste cose non succedano, ma quando qualcuno le fa, se ne vergogna (come il buttare la carta per terra), non lo racconta agli amici. E questo contribuisce a una migliore educazione delle persone che vengono dopo. Ovviamente non è una differenza genetica, è semplicemente che all’estero sono più abituati a un sistema che funziona, e quindi sono meno abituati a doverlo combattere con mezzi improprî. Ma il problema è che, nel comportarsi così, si instaura un circolo vizioso che ci fa diventare la causa dell’effetto di cui siamo vittime: essendo “costretti” (ma uno costretto non lo è mai) dal sistema a usare mezzî illegittimi, siamo la causa del rafforzamento di quel sistema.

Nel caso Cancellieri, il problema non è ovviamente nel fatto che il Ministro si sia attivato una volta che è venuta a conoscenza della situazione (non è a questa obiezione che si deve rispondere). Il problema sta nel modo in cui è venuta a conoscenza della situazione. Non è accettabile che un Ministro venga a sapere di un problema della giustizia perché chi ne è vittima le fa una telefonata, non è la giusta procedura (le procedure sono LA democrazia, in democrazia). È la stessa ragione per la quale una notizia avuta attraverso intercettazioni ottenute illegittimamente si brucia, anche se le informazioni ottenute sarebbe rilevanti per un’azione penale.

Vi racconto una cosa: durante le elezioni, un’amica che ha vissuto tanti anni all’estero, aveva bisogno di un documento per una candidatura. Per farlo, da residente all’estero, doveva rivolgersi alla sua ambasciata che poi si sarebbe rivolta al comune di residenza (etc, etc, etc). Come immaginate, come sempre con la burocrazia, una cosa molto semplice richiedeva infiniti passaggi, e infinito tempo.

Dopo essere stata per giorni e giorni a rincorrere tutti i cavilli, il funzionario, che aveva preso confidenza in tutti quegli scambi di mail e ore al telefono, si era lasciato a una domanda: «ma lei si candida con Grillo, vero?». Forse non avete colto, perciò vi traduco: non posso credere che una persona che non è sprovveduta (leggi: che non ha agganci; leggi: probabilmente grillino) si sottoponga a tutto questo ambaradan anziché fare una telefonata all’ambasciatore.

E lo stupore del, gentilissimo, funzionario era evidentemente empirico: anche dall’esperienza, non concepiva che qualcuno non volesse usare i proprî agganci, anche se li aveva. Perciò ne era evidentemente sprovvisto. E ribadisco: stiamo parlando di qualcosa che alla mia amica spettava, una cosa che in un Paese più civile avrebbe ottenuto in cinque minuti senza bisogno di alcun canale particolare.

Ed è, temo, questa la grande presa che il messaggio di Beppe Grillo ha su tante persone escluse da ogni circolo. Penso anche io che molti siano soltanto rancorosi per non essere riusciti a entrarci, in qualche circolo, e se ne facessero parte, ne approfitterebbero. Lo si legge dal riflesso condizionato che hanno nel pensare sempre male delle altre persone. Ma questo cosa importa? È anche per questo che bisogna essere diversi.

Estendere una legge che non dovrebbe esserci?

3 su 5

E insomma, ieri è stata finalmente approvata – alla Camera, chissà poi cosa succederà – la legge sull’omofobia di cui si parla da tanto tempo. Solo che, invece di festeggiare, mi son ritrovato a rimuginare sui soliti dubbî che, una volta per tutte, metto per iscritto.

Il problema che ho con questa legge non è, naturalmente, riguardo l’ultimo emendamento che esclude “le organizzazioni politiche e religiose” dall’alveo di applicazione della legge; per quanto sia una distinzione vergognosa, un piccolo passo in avanti è sempre un passo in avanti. Meglio una legge timida, che nessuna legge. Di più: questo è un tassello di futuro. È anche più facile rafforzare, di un po’, una legge che c’è, piuttosto che far digerire al Parlamento una legge nuova e molto dura.

No, il problema riguarda il fatto – neanche tanto originale – che la Legge Mancino, di cui questa legge estende le aggravanti, è una legge che non dovrebbe esserci. È una legge certamente animata da buoni intenti, ma che persegue questi intenti nella maniera che uno Stato non dovrebbe mai permettersi: decidendo quali sono le opinioni ammesse e quali sono le opinioni non ammesse. Andando a intaccare la libertà d’opinione delle persone, facendone un reato. Sì, anche la libertà d’opinione di un fascista. Sì, conta anche quella. E no, non trovo giusto punire qualcuno maggiormente perché pensa qualcosa di particolare mentre commette un reato. E sì, penso che qualcuno che picchia un’altra persona perché è della Lazio dovrebbe essere punito quanto uno che picchia un’altra persona perché nera.

Non sono molto appassionato alla questione della costituzionalità della legge Mancino – mi interessa cosa è giusto o non è giusto –, ma certo a parlare di costituzioni, non si può non pensare quanto sarebbe inconcepibile avere una legge simile negli Stati Uniti dove alcune parti di quella legge, se non l’intero impianto, sarebbero annichilite dal primo emendamento.

Come in molte cose della vita, è di Christopher Hitchens il più bel discorso sul perché anche la più infame e sola delle opinioni deve avere la possibilità di essere espressa; su come il concetto di “incitamento all’odio” sia scivoloso e gli hate crimes (quelli ci sono anche negli Stati Uniti) molto difficilmente definibili evitando d’incorrere nel reato d’opinione.

Questo senza parlare della formulazione, orribile, della legge Mancino che aggiunge alle discriminazioni “razziali, etniche, nazionali” anche quelle “religiose”, come se la religione fosse un’idea data e immutabile. Non un’opinione che qualcuno può avere o non avere, accettare, scegliere, rifiutare. Così, se io non voglio assumere nella mia azienda una persona che pensa che gli omosessuali siano un abominio, posso farlo. Se però questa convinzione è difesa con argomenti religiosi allora sto rischiando una discriminazione.

Non è un caso che questa sia la legge alla quale si appella Scientology quando le si contesta la circonvenzione e l’indottrinamento dei bambini (e degli adulti). Certo, le ragioni per l’inclusione del termine “religiose” sono abbastanza evidenti: l’antisemitismo dell’ultimo secolo. Ma anche questo è un errore: l’orrore dell’antisemitismo è il rifiuto etnico, “ci mancherebbe altro che non si possano criticare gli ebrei ortodossi per la condizione femminile, o per le ridicole pratiche bibliche a cui sottopongono i proprî figli”.

Dunque: meglio festeggiare l’estensione a un gruppo discriminato di una legge ingiusta – aumentando quindi l’ingiustizia ma limitando l’iniquità (e quindi l’ingiustizia) – oppure meglio che sia applicata il meno possibile? Non lo so, come dicevo, sono molto cambattuto.

p.s. Qualche lettore dalla buona memoria ricorderà che, tempo addietro, sulle aggravanti ideologiche avevo sostenuto l’opinione opposta. È vero. Ho cambiato idea.

Eroina o filibustiera?

2 su 5

La storia di Wendy Davis dimostra, una volta di più, la nostra disposizione all’indulgenza nei confronti dei metodi con cui si conducono le battaglie che ci stanno a cuore. Lo dimostra, in realtà, l’entusiasmo che ho letto, sia in Italia che in America per quello che ha fatto questa senatrice. La storia è questa: negli Stati Uniti, in anni recenti, si è molto diffuso l’ostruzionismo parlamentare. È il motivo per cui passare una qualche legge “sensibile” in Congresso (quello federale) è diventato praticamente impossibile. In Texas si votava una legge restrittiva nei confronti dell’aborto, e questa senatrice democratica ha fatto ostruzionismo nel modo più classico per gli Stati Uniti: fare degli interventi molto lunghi. Nel suo caso, ha parlato per 10 ore, aggirando le regole molto restrittive per impedire questo tipo di operazioni: non si può andare fuori tema, non ci si può interrompere, neanche per andare a fare pipì, non si può mangiare, non ci si può sedere né appoggiare. Dopo un’ulteriore questione sull’essere passata o meno la mezzanotte, la legge è decaduta proprio per l’opera di Davis.

L’ovvietà sarebbe pensare che Davis abbia fatto una scorrettezza: ha aggirato delle regole – sensate – per impedire che una minoranza blocchi, con stratagemmi e non col consenso, il volere della maggioranza. Ha approfittato di una questione tradizionale, in America, ma bizzarra, cioè l’assenza di un limite di tempo per il suo intervento; e di una cosa molto vicina a un cavillo: la scadenza della possibilità di passare la legge dopo la mezzanotte. Insomma, ha operato completamente in quella zona grigia occupata dalle cose ingiuste, eticamente ingiuste (almeno a livello procedurale: quello che al liberalismo, da Locke, sta più a cuore), ma non ancora illegali.

Non pensate? Provate a pensare alla stesso esempio, ma all’inverso: cioè di una cosa simile fatta per ostacolare una legge che ritenete giusta. Facciamo questo esempio qui: in Italia matura finalmente una maggioranza di persone che è favore del riconoscimento delle coppie omosessuali. C’è una maggioranza popolare che è chiaramente espressa in una maggioranza parlamentare. Si vota questa legge, che ha largamente i numeri per passare: solamente che Giovanardi o Paola Binetti, pronunciandosi solennemente dalla parte di Dio, organizzino un ostruzionismo deciso. Presentano centinaia di emendamenti, così che ci si metta giorni ad affrontare il testo finale, invitano in Senato un centinaio di persone che si mettono a gridare “Uomo e Donna! Uomo e Donna!”, così che il presidente del Senato debba far sgombrare l’aula, rinviando il dibattimento ai giorni successivi. Poi, grazie a uno stratagemma, riescono a presentare un emendamento che collega le unioni gay a un’altra questione accessoria, così che alcuni parlamentari siano costretti a votarlo. Alla fine, si scopre, scrivono un altro emendamento apparentemente inoffensivo, in modo che esso si contraddica, e che così la Corte Costituzionale lo bocci. La legge così non passa.

Cosa succederebbe? Che saremmo tutti furibondi. Alcuni parlerebbero di Colpo di Stato, altri chiederebbero l’arresto di Giovanardì. Più ragionevolmente, in molti lo considererebbero un lestofante, uno capace di tutto per far prevalere la propria idea su quella della maggioranza del Paese. Anzi, a dire il vero, c’è qualcuno che non la penserebbe così: il partito di Giovanardi. Anzi: a confermare la disinvoltura con la quale ci va bene che il fine giustifichi i mezzi – quando questo fine è in accordo con la nostra idea – il partito di Giovanardi lo difenderebbe, dicendo le cose che abbiamo sentito tante volte: le regole sono queste, abbiamo rispettato le leggi, è tutto dentro alle normali strategie parlamentari, eccetera, eccetera.

Ecco, se c’è una cosa che rende inutili i dibattiti, i confronti di vedute, che rende impossibile qualunque progresso generato da un’onesta e attenta discussione d’idee è questa. Questo pregiudizio positivo – questa dissonanza cognitiva – che si ha nei confronti di chi si considera della propria squadra, e delle strategie che vengono adottate per raggiungere le idee che condividiamo. Quelle idee che, così, si dimostrano immutabili e, perciò, stupide.

Berlusconi, il sesso, e le donne che – uh uh uh! – lo fanno

4 su 5

In questi giorni vi sarà capitato d’imbattervi nell’ultimo video in cui Berlusconi fa il Berlusconi, e lo fa chiedendo a una donna «lei viene?». È il solito atteggiamento, bieco che si pensa burlone, ridicolo che si pensa trasgressivo. C’è da commentare?

Però, leggendo in giro, mi è sembrato di capire che nessuno di coloro che si sono indignati per questa ennesima berlusconata di Berlusconi abbia ben presente qual è il punto di quella miseria, il ragionamento sotteso a quel tipo di battuta che poi – bisogna dire la verità – tantissima gente fa, e trova divertente, al di fuori del contesto berlusconide.

E naturalmente il punto non è il contesto, non è che Berlusconi sia un ex presidente del consiglio né che sia in pubblico. La tristezza umana di quei commenti non ha nulla a che fare col contesto in cui sono pronunciati. E, ancora di più, non c’entra nulla con “la dignità di donna”, come hanno detto in molti, né con l’essere volgare/esagerato/fuoriluogo – ognuno ha diversi standard di volgarità: dire le parolacce non ha nulla a che vedere con le battute à la Berlusconi.

Ha invece a che fare con:

Quella concezione dozzinale e meschina del rapporto uomo-donna, dell’ironia da caserma fascista. Del suo essere portatore insano e orgoglioso di quell’insieme di sessuofobia e sessuomania che è quella malintesa virilità, il latin lover nella peggiore delle accezioni di questo concetto: quello che ha paura del sesso e se ne vergogna, la considera una cosa insana, ma al tempo stesso ha un’ossessione; la mente sempre puntata lì all’infrazione della norma – ovviamente soltanto nelle orecchie degli amici al bar, che ascoltano le tronfie spacconerie di un millantatore in punta di cazzo.

Il punto è che Berlusconi mostra di pensare che il fatto che una donna faccia del sesso, che lei “venga”, sia una cosa curiosa, divertente, e non la più naturale per tutti: donne, uomini, cani, cartoni animati. Provate a immaginare la stessa battuta riferita invece a una qualunque delle naturali attività umane: «lei mangia?», «lei cammina?», «lei dorme?». La gente si guarderebbe in giro domandandosi: «ma che è, ubriaco?».

Berlusconi, e tanti con lui, pensa che se una donna fa del sesso per proprio piacere, come del resto fanno gli uomini, questo stesso fatto è degno di nota. Uh, uh, uh: fa del sesso!, che ridere. Il pensiero sotteso, naturalmente, è che invece ogni donna dovrebbe vergognarsi, semmai cosa-mi-spingo-a-dire avesse una vita sessuale attiva, e nascondere al pubblico questa propria balzana propensione.

Per questo è davvero avvilente leggere Michele Serra che – rispolverando lo stesso armamentario della donna subalterna e indignata in quanto donna dalle allusioni sessuali (si sa, è il ruolo delle donne quello di essere offese dai riferimenti al sesso) – scrive che quella donna avrebbe dovuto rispondere a Berlusconi «ma come si permette, maiale?».

La risposta più sensata – e soprattutto scevra da quella morbosità sessista – sarebbe stata semplicemente: «sì, certo (anche se difficilmente con soggetti viscidi come lei). La trova una cosa stravagante?».

Rumorosi coglioni

Mi ero fin troppo abituato al nuovo stile della pseudo-sinistra, nel quale se il tuo avversario crede di aver identificato il più meschino movente immaginabile [per una tua idea o una tua azione], egli è pressoché certo di aver scovato l’unica reale ragione che ti muove. Questo volgare espediente, che è ora la norma di buona parte del giornalismo, è designato per avere l’effetto di far sembrare qualunque rumoroso coglione come un fine analista.

Christopher Hitchens, Hitch 22

Evidentemente a qualcuno ha fatto male, se scrivi queste cazzate

1 su 5

Quando ho visto quello che ha fatto Delio Rossi, l’allenatore della squadra per cui faccio il tifo, mi sono messo quasi a ridere, archiviando il giudizio etico su una cosa così smaccatamente sbagliata da non doverne neanche parlare. Perciò non riesco davvero a credere che ci sia qualcuno che difende ciò che ha fatto Delio Rossi. Pensavo che “un ceffone non ha mai fatto male a nessuno”  fosse rimasto nella testa solo a qualche vecchio fascista che il tempo si porterà presto via. Invece leggo di no, leggo del “padre saggio che educa i figli”, “uno scappellotto ogni tanto, per insegnare la disciplina”, “lo sbarbatello impertinente”, e tutte queste cretinate.

Quindi ora dovrei scrivere un lungo post in cui spiego anche a quel vecchio fascista che non solo è sbagliato, ma non funziona neanche (il che non vuol dire che se funzionasse, diventerebbe giusto). Oppure un post breve, in cui provo a mettere dei punti fermi sacrosanti, quasi ovvî, ma questo l’ha già fatto perfettamente Francesco. Un altra possibilità sarebbe raccontarvi di quando ero in Palestina, e di come – lì dove l’educazione violenta è una costante – fosse così tremendamente ovvio quali fossero i bambini che venivano picchiati dai genitori, perché erano quelli a loro volta più violenti, più bugiardi, più incattiviti. Oppure ancora, siccome l’esperienza personale non è mai un buon metro per giudicare una vicenda, potrei andare a cercare tutti gli studî psicologici e sociologici che dimostrano com’è del tutto assodato che un’educazione violenta rende un bambino più portato alla violenza, alla delinquenza, ai comportamenti antisociali (negli USA fanno molti di questi studî, perché nella Bible Belt ci sono scuole che permettono le punizioni corporali).

Però non c’ho voglia di fare nulla di tutto ciò, e la ragione è che non ce la faccio a discutere con un tavolo della sala da pranzo. Quindi mi limito a postare la cartina delle nazioni dove lo Stato, il saggio padre di famiglia, adotta punizioni corporali nei confronti dei proprî cittadini irriguardosi: devono essere bei posti dove vivere, se adottano questo metodo educativo sano ed efficace. Diciamocelo, non ha mai fatto male a nessuno.

Fra gli Stati nei quali sareste lieti di educare i vostri figli spiccano Paesi come: Afghanistan, Arabia Saudita, Iran, Nigeria, Pakistan, Somalia, Sudan, Tanzania, Yemen.

Perché Annunziata e Busi su Lucio Dalla hanno ragione e torto assieme

3 su 5

L’accertamento postumo dell’identità sessuale di Lucio Dalla non è molto interessante, ma non è certamente inopportuno o fuori luogo perché prossimo al funerale: ricordiamoci che dire «Lucio Dalla era omosessuale» non è un insulto.

Se qualcuno avesse detto: «sapete? A Lucio Dalla piaceva pattinare», nessuno l’avrebbe considerato offensivo. Dovremmo imparare a considerare alla stessa maniera qualcuno che dica «a Lucio Dalla piaceva un uomo». Non c’è nulla di male a pattinare, non c’è nulla di male ad amare (o fare sesso con) gli uomini. È proprio per questo che, al contrario, la questione non è molto interessante: perché quell’umore da a-ha ti ho beccato! che viene alimentato da questo atteggiamento sottintende che gli omosessuali abbiano maggiore dovere di combattere l’omofobia che non gli eterosessuali, e questa è una sciocchezza egoista. Io non so se Dalla fosse omosessuale, non sappiamo se Marco Alemanno fosse il suo compagno (e, non essendone certi, penso che i giornali abbiano fatto bene a non riportare tale informazione: questa sì, mi sembra una polemica inutile). D’altra parte, però, è sciocco difendere il diritto di Dalla a non rispondere a quella domanda, e non difendere il diritto di Lucia Annunziata o Aldo Busi ad avere un’opinione su quella scelta.

Dalla aveva certamente il diritto di scegliere di non dire di essere omosessuale, noi abbiamo certamente il diritto di criticare quella scelta. E io – Dalla o meno – la critico per le ragioni che chiunque conosca anche solo un poco la storia del movimento omosessuale sa a memoria: che ogni omosessuale che non si fa problemi a rispondere alla più semplice delle domande, chi ti piace?, aiuta un pochino la propria accettazione e quella di tanti altri, oltre che le molte persone che stanno cercando di fare a loro volta il proprio coming out.

Scrivevo:

Non c’è dubbio che un omosessuale che vuole rivendicare la segretezza, l’essere privato, della propria preferenza sessuale sta introiettando il principio per il quale quello debba essere un carattere di cui non parlare in pubblico*. Se lo vivesse con tranquillità, come si vive qualunque dato privato di cui non vergognarsi (ti piace la pasta al pomodoro? Qual è il tuo colore preferito?) non avrebbe problema a parlarne.

Annunziata e Busi – che hanno ragione e torto assieme, ma più ragione – dicono una cosa molto semplice: una persona può, con la sua scelta, rendere la vita un po’ più facile alle altre persone.  Non ha nessun “dovere” legale, ma una spinta etica sì.

Adriano Sofri

4 su 5

Il miglior momento per piantare un albero era vent’anni fa;
il secondo miglior momento è ora.
Proverbio africano

Oggi Adriano Sofri in gergo giornalistico è tornato “un uomo libero”, come io l’ho sempre considerato da quando – ero un adolescente, uno Young Contrarian – gli sono silenziosamente grato. Non avevo ancora diciott’anni e lessi un suo articolo sul lanciare i sassi, dentro e fuori di metafora. Era una lettera con cui Sofri diceva ai diciottenni come me: «io, che ho lanciato i miei sassi, e non faccio più a tempo per non lanciarli, vi provo a spiegare – ragazzi – perché è meglio non farlo». Per me fu un seme di pensiero molto importante, indottrinato com’ero alle lodi per la coerenza, alla fedeltà alla linea. A vent’anni si è stupidi davvero.

Mi sforzai di dargli torto, ricordo, e non ci riuscii. Fu così che imparai che non è l’occasione a fare l’uomo ladro, che non si può dare il male per scontato in tutti; quello tracciò la strada per la rivelazione più importante, che non si può dare il male per scontato in nessuno. Ora che sono cresciuto ho capito anche che non è neppure un furto a fare di un uomo un ladro, e che si è sempre in tempo per non lanciare il prossimo sasso.

Di articoli di Adriano Sofri ne avevo letti e ne continuai a leggere, ma quello in particolare lo ricordo con affetto, perché è la memoria istantanea di una mia più lenta epifania. Invero, la mia gratitudine non fu completamente silenziosa, una volta gli scrissi una lettera impudica che non so se abbia mai ricevuto (mi firmai solo “Giovanni”) in cui spesi mille parole per dirgli grazie, fra le altre cose, di avermi insegnato a non lanciare i sassi. È sempre difficile raccontare a una persona quanto la si stima senza essere pacchiani, dirle che ti ha fatto da maestro quando questa non ti conosce. Mi rassegnai a dire, anche in maniera indiscreta, le cose che pensavo e che penso tuttora: che “la sua sofisticata sensibilità, il suo delicato modo d’insegnar cose” meritavano il mucchietto di parole che gli stavo scrivendo.

Così ho sempre conservato questa vicenda e quelle parole per me, e oramai è passato qualche anno. Ho riletto la lettera oggi, e un po’ me ne vergogno, ma sono contento d’averla scritta. E anche quest’altre parole, quelle che sto scrivendo qui, m’imbarazzano un po’: però penso sia il modo migliore per spiegare che io, ad Adriano Sofri, voglio bene, e anche se non lo conosco di persona e lui non sa chi sono, è un uomo che mi ha fatto crescere – certamente è una delle persone che mi ha insegnato a tenere più alla felicità dei più deboli che all’infelicità dei disonesti.

Per questo oggi è un bel giorno: perché quale che sia l’opinione di ciascuno sulla bontà della sentenza che l’ha dichiarato colpevole o sulla bontà delle idee che un tempo professava (la mia è negativa su entrambe le cose: ma cosa conta?), non c’è alcun insegnamento che alcuna persona possa trarre dal fatto che Adriano Sofri sia privato della propria libertà. Se il fine ultimo del carcere è la riabilitazione – e, per favore, lo è –, non c’è modo di dire che non sia avvenuta, anche a livello simbolico: chissà a quanti diciassettenni come me avrà insegnato che è meglio leggere un libro (o giocare alla Playstation) che lanciare dei sanpietrini.

Un paio di settimane fa, fra i migliori dei miei contatti, è girato il video qui sotto: è il discorso con cui Sergio D’Elia, ex militante di Prima Linea, segnò il proprio – e quello di molti suoi ex-compagni – passaggio dalla lotta armata alla lotta disarmata, dalla lotta al costo delle persone alla lotta per le persone. È un video commovente.

Visto che lo cito in questo post, dovrei forse specificare che – per le ragioni storiche che sappiamo – Lotta Continua non è Prima Linea; che, per questo, Sergio D’Elia appartiene comunque a un altro gruppo rispetto ad Adriano Sofri, per quello che ha fatto e per la storia che rappresenta. Ma sbaglierei: tutti appartengono allo stesso gruppo, al quale apparteniamo anche noi, quello degli esseri umani, che devono essere giudicati per quello che sono ora, e non per quello che sono stati in passato. Se possono dare un contributo alla società o, purtroppo, un detrimento.

Il video è tratto da questo documentario, ed è un video che secondo me qualifica chi lo guarda più di chi lo ha pronunciato: cosa si può obiettare alla vittoria della democrazia e della natura umana, della fratellanza e di tutti noi, se si hanno il cuore e la testa in equilibrio? Come si può considerare valore la sofferenza di un qualunque individuo, qualunque cosa abbia fatto, per la sola ottusa ragione del fargli pagare la persona che è stata e non è più?

Spero che queste non sembrino parole ingenue; sono fra le meno ingenue delle parole che ho scritto, fra le più ragionate e riflettute. Non mi sembra possibile pensare altrimenti, se non si è sedotti dal male: è un principio fondato su di una verità basilare – che non c’è etica al di fuori della sofferenza degli umani.

Come dicevo, si è sempre in tempo a non lanciare la prossima pietra. È un’idea che non ha colore. Qualche tempo fa lavorai, sulle mutilazioni genitali femminili, a No Peace Without Justice. Nella stanza a fianco alla mia lavoravano, con Nessuno Tocchi Caino, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. S’impegnavano, e s’impegnano, assieme a Sergio D’Elia per una buona causa. È una rivoluzione così bella e commovente che in un film la crederemmo esagerata. Mi ricordo che, senza dire niente, ogni volta che li incrociavo pensavo: «qualunque vittima non potrebbe essere più riscattata di così».

E penso che sia anche grazie ad Adriano Sofri, che mi ha insegnato che si può sempre cominciare a piantare gli alberi, se la penso così. Sono felice che anche lo Stato italiano l’abbia riconosciuto, così tardi, oggi.