La guida su Israele e Palestina, completa

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Ho scritto una guida a quello che è successo in Israele e Palestina sul Post, la ricopio qui in tutte le sue puntate. Su Limes del prossimo mese ci sarà un mio lungo articolo che racchiude tutto quello che penso su come fare la pace.

Nel dibattito su Israele e Palestina, i contributi si articolano fra grandi ricostruzioni storiche e immediata cronaca quotidiana. Questo compendio vuole essere una via di mezzo, cioè un tentativo di inquadrare quello che sta succedendo in questi giorni per chi non ha familiarità col tema. Data la vastità dell’argomento, lo dividerò in capitoli per concentrarmi su un argomento alla volta, in modo da poter raccogliere materiale, analizzare fatti e considerare l’attualità meglio che in un unico scritto-fiume.

Capitolo 1 – La strategia di Israele
Capitolo 2 – Israele e i civili
Capitolo 3 – Cosa succede ora a Gaza?
Capitolo 4 – Perché Hamas si comporta così? (e Fatah?)
Capitolo 5 – Israele e Palestina, e ora che succederà?

Capitolo 1 – La strategia di Israele
La strategia non c’è. Questa operazione militare non ha una strategia di medio o lungo periodo. È un’operazione tattica con la quale Israele vuole ridurre l’arsenale e la potenza di fuoco di Hamas a Gaza. Israele è preparata a una prosecuzione indefinita dello status quo. Questo comporta un ciclico disarmo di Hamas con mezzi militari: nei periodi di tregua, Hamas produce e acquista armi (principalmente diversi tipi di razzi) che possono mettere in pericolo Israele; con cadenza variabile, fra il biennale e il triennale, Israele interviene per riaffermare e garantire la propria superiorità militare.

Dal ritiro unilaterale da Gaza (2005), e soprattutto dalla vittoria di Hamas su Fatah nella Striscia (2007), Israele si è rassegnata a questa ciclicità. Tuttavia, le operazioni militari (“Piombo Fuso”, 2009; “Pilastro di difesa”, 2012; “Margine di protezione”, 2014 – sì, i nomi italiani non sono il massimo) non avvengono in periodi casuali. Israele fa coincidere l’inizio con un casus belli istigato dall’altro fronte – uno che possa definire l’intervento militare come operazione difensiva – consapevole che la scelleratezza di Hamas non mancherà di offrirne. Naturalmente non si tratta di eventi che portano automaticamente a una guerra (di lanci di missili ce ne sono su base quotidiana), ma di piccoli passi che innescano l’escalation di azione-ritorsione-superritorsione che porta velocemente alla guerra.

Israele adotta questa tempistica per due ragioni: primo, perché un’azione militare è molto meno digeribile per la comunità internazionale rispetto a un’azione difensiva in risposta a un attacco verso civili. È per questo che, per quanto sia sempre presente sottotraccia, Netanyahu ha evitato di collegare il rapimento dei 3 ragazzi israeliani – non rivendicato da Hamas, fra l’altro – alle operazioni militari a Gaza: rispondere a dei lanci di razzi bombardando le postazioni di lancio di quei razzi può essere considerata un’azione difensiva; rispondere a un rapimento con dei bombardamenti è a tutti gli effetti una rappresaglia.

Secondo, perché il principio sul quale è fondata la strategia difensiva israeliana è la deterrenza. È importante che i palestinesi abbiano paura delle reazioni d’Israele (e della sua forza militare), così da essere disincentivati a percorrere o sostenere la lotta armata. Il proposito di questo articolo non è la valutazione etica di questa strategia, che è stata tristemente efficace per entrambe le parti nella storia di questo conflitto. Tuttavia, è rilevante notare la vicinanza fra questo criterio e quello della “punizione collettiva” (principio che viola la Convenzione di Ginevra).

Ovviamente non c’è alcun dubbio che Israele abbia la potenza militare per spazzare via tutto l’arsenale di Hamas, ma a un costo in termini di distruzione e di vite delle persone. È perciò questo costo – più precisamente quanto Israele sia disposto a (o in condizioni di) pagarlo – che determina l’intensità dell’azione israeliana. Essendo una guerra asimmetrica, da un punto di vista militare l’unica considerazione è quella sugli effetti collaterali. Formulata in maniera brutale ma veritiera: quanti civili palestinesi è disposta a uccidere Israele per raggiungere il proprio obiettivo?

Capitolo 2 – Israele e i civili
In mancanza di un accordo di disarmo, l’unica possibilità che Israele ha per distruggere l’arsenale di Hamas è attraverso azioni militari. Queste azioni comportano, inevitabilmente, il rischio di causare morti anche fra i civili. Nella Striscia di Gaza questo rischio è una certezza, come si è visto in questi giorni. Per questo diventa fondamentale domandarsi quanti sforzi faccia Israele per prevenire l’uccisione di civili: più precisamente, quanto è disposta a pregiudicare l’efficacia delle proprie azioni. Rispondere a questa domanda, diversamente da quello che sembra nella baraonda delle reazioni partigiane, non è facile.

Una necessaria distinzione preliminare è quella fra l’atteggiamento israeliano e quello di Hamas, cherivendica il fine di uccidere ogni civile che può. Quando ero in Palestina, ai tempi della prima guerra a Gaza, formulai così il concetto:

Ci sono tre comportamenti, nei riguardi dei civili, in guerra: il primo è quello di cercare di ridurre al minimo le vittime civili, anche a costo di fare operazioni militari meno efficaci; il secondo è quello di ignorare la quantità di vittime civili che un’operazione militare possa comportare; il terzo è quello di cercare di fare più morti civili possibile.

Israele si comporta in un modo che rientra nello spettro fra il primo e il secondo, a seconda dell’opinione che se ne ha. Hamas si comporta inequivocabilmente nel terzo modo. Israele vuole uccidere il meno possibile o se ne frega. Hamas vuole uccidere il più possibile.

È importante notare che, da un punto di vista fattuale, la speculazione sul perché Israele non abbia come obiettivo l’uccisione del maggior numero di civili – scrupoli etici o pressioni della comunità internazionale – è del tutto irrilevante.

Naturalmente la distinzione fra Israele e Hamas è ben lontana dall’esaurire la questione, perché fra “cerca di uccidere il meno possibile” e “se ne frega” c’è uno spazio enorme, che va dalla condotta esemplare ai crimini contro l’umanità. Anche qui le versioni competono: da una parte viene citata la sproporzione fra le vittime palestinesi e quelle israeliane (1500 a 19, nei tre interventi a Gaza), dall’altra tutte le precauzioni che Israele prende prima dei bombardamenti, assieme a pareri di esperti militari che sostengono che nell’intera storia bellica, nessun esercito ha mai avuto tanta preoccupazione e attenzione ai civili quanto quello israeliano a Gaza.

Siamo tanto abituati a qualificare lo schieramento di ciascuno a seconda dei fatti che riporta (chi cita la sproporzione è filopalestinse, chi cita le precauzioni è filoisraeliano) che è impossibile credere che le due cose non si escludano. È certamente vero che Israele ha delle procedure per ridurre le morti civili: lancio di volantini con inviti a sgomberare le zone dei bombardamenti, telefonate e sms agli abitanti delle case che verranno colpite, esplosioni di avvertimento prima dell’attacco. Sono effettivamente pratiche precauzionali che mostrano un’attenzione ai civili che raramente si è riscontrata nella storia militare (d’altra parte, gli eserciti non hanno mai avuto una gran fama di cura dei civili, tanto meno nella storia). In questo senso, la domanda da porsi è: è sufficiente?

Ci sono due problemi: il primo è che, come chiunque abbia avuto a che fare con Tzahal sa (per dire la più assurda capitatami, hanno tentato di far esplodere la mia bicicletta), a fronte di procedure molto articolate, l’applicazione avviene con marcata disinvoltura. Più precisamente: quando le procedure lasciano un tasso di arbitrarietà, questo viene sfruttato nella maniera più prevaricatrice. Israele, giustamente, pubblicizza le proprie precauzioni, ma si guarda bene dal garantire di lanciare volantini in tutte le zone che subiranno bombardamenti, di telefonare a tutti gli abitanti delle case da colpire, di operare sempre esplosioni di avvertimento in tempo utile perché gli abitanti scappino. È evidente che questo limiterebbe la libertà dell’esercito israeliano (IDF) di analizzare caso per caso e decidere, in alcuni casi, che l’uccisione di un tot di non combattenti è un sacrificio accettabile per non compromettere il proprio obiettivo militare.

Il secondo è che Hamas difende le proprie postazioni con scudi umani. L’impiego di questa tecnica è contrario alla Convenzione di Ginevra, ma la pratica viene lodata in televisione e ci sono video e foto di persone che si raccolgono sui tetti degli edifici che Israele ha minacciato di colpire. Questo è un implicito riconoscimento di come Hamas sa bene – al contrario di ciò che dice la propaganda – che gli israeliani hanno degli scrupoli nel colpire i civili: ma Hamas sa molto più di questo, e cioè che usare scudi umani mette Israele in un angolo. Questo gigantesco vicolo cieco è mostrato dall’atteggiamento contraddittorio che ha l’IDF: da una parte afferma che quando strutture civili sono usate a scopi bellici, esse diventano obiettivi legittimi che Israele colpirà; dall’altra pubblicizza video in cui mostra come in questi casi rinuncia agli attacchi per tutelare le vite di quei palestinesi.

Il problema, per Israele, è che se promettesse di non attaccare ogni edificio sul cui tetto si raccolgono dei civili, questo darebbe un’arma potentissima a Hamas, che la sfrutterebbe in ogni occasione. È anche per questo che c’è una evidente tensione fra il dare agli abitanti degli edifici il tempo necessario a scappare e il non darlo a chi voglia portarci degli scudi umani. Ed è per questa stessa ragione che se Israele desse tale garanzia, la pratica diventerebbe estremamente meno pericolosa, facilitando a Hamas il reclutamento di nuovi potenziali scudi umani. Questo è ciò che nelle Relazioni Internazionali si chiama il Paradosso (o la Teoria) del Pazzo. Israele vorrebbe convincere il proprio nemico di essere disposta a fare qualunque cosa, anche uccidere tutta la Striscia di Gaza, per raggiungere il proprio obiettivo; al tempo stesso, deve convincere tutto il resto del mondo che non si comporterebbe mai così, e anzi ha a cuore la vita di ciascun palestinese.

Gli scrupoli di Israele sono perciò chiaramente un’arma nelle mani di Hamas: riconoscere questo fatto è semplice realismo. Questo non toglie che la domanda iniziale rimane: posto che Israele ha mostrato una misura d’impegno nello scongiurare morti civili, e posto che Hamas sfrutta questa preoccupazione al proprio fine, quella misura è sufficiente? Qui torniamo al dato iniziale, quello della sproporzione fra morti civili israeliani e palestinesi. Israele ha certamente grande merito nel riuscire a tutelare i proprî cittadini con Iron Dome, ed è sciocco chi gliene fa una colpa. Ed è naturale, per quanto triste, che un governo tenga di più alle vite dei proprî cittadini che a quelle dei propri nemici. Ma una valutazione etica esterna alle parti deve necessariamente astrarsi da questa considerazione.

A oggi, il bilancio di questo nuovo conflitto è di quasi 200 morti (la maggior parte dei quali civili) a 0. È ipotizzabile che il mantenimento dell’arsenale di Hamas avrebbe creato pericoli maggiori ai cittadini israeliani (e palestinesi)? La risposta, naturalmente, non è certa: come è sempre il futuro. È però importante sottolineare che questa è la domanda che deve porsi chi vuole ragionare fuori di tifoseria: se Israele non fosse intervenuto, le cose sarebbero andate peggio? Non solo in termini di vittime civili immediate, ma anche di scenario futuro.

Capitolo 3 – Cosa succede ora a Gaza?

Edit del 18/7: in questo pezzo spiegavo le ragioni che hanno portato all’invasione di terra dell’esercito israeliano. Ora che l’invasione è avvenuta, ho aggiunto in fondo qualche considerazione su cosa vuol dire e ciò che comporta.

Non è mai facile fare previsioni su quello che succederà, tanto meno in uno scenario di guerra. Nel breve termine, il quesito più importante è se Israele avvierà un’azione di terra o se una delle tregue proposte reggerà. Nel lungo termine, in che modo questo nuovo conflitto – e il riassestamento che ne seguirà – inciderà sul processo di pace, sia all’interno del fronte palestinese sia per Israele e la comunità internazionale.

La storia del conflitto israeliano è una storia di dimostrazioni di forza anziché di passi conciliatori. Nel corso dei varî processi di pace, con l’Egitto, con la Giordania, ora con la Palestina, gli accordi non sono mai stati fatti con le mani tese delle parti in gioco, ma con la presa di coscienza dell’impossibilità di annientare il nemico. Questo vale per i Paesi arabi come l’Egitto, che accettò l’esistenza d’Israele dopo quattro guerre perse; ma vale anche per Israele, che rinunciò a mantenere la parte di Sinai fino a Sharm el Sheik (definita da Golda Meir irrinunciabile) solo quando nell’ultima di queste guerre, nel ’73, Israele si rese conto che l’Egitto non avrebbe perso per sempre.

È con questa dinamica, perfettamente replicata quando il conflitto si è ristretto a Israele e Palestina, che si deve capire la storia recente: chi si dimostra più propenso alla pace, dimostra debolezza. È il motivo per cui negli ultimi dieci anni, dopo la costruzione del Muro e la virtuale fine degli attentati, Israele è molto meno interessata alla pace, e perciò meno disposta a fare sforzi, di quanto non lo fosse negli Anni 90. Per i palestinesi vale la stessa cosa, ma all’inverso. Fatah, che ha rinunciato alla lotta armata e non può più mettere sul tavolo la fine degli attentati, è molto indebolita al tavolo della trattativa. Al tempo stesso, negli ultimi anni si è dimostrata molto più interessata a trovare un accordo rispetto a Israele. È un ragionamento molto cinico, ma è purtroppo il filtro reale con cui capire la storia di questo conflitto.

È anche il filtro attraverso il quale interpretare le vicende di questi giorni. Dopo il rapimento e l’uccisione dei tre ragazzi israeliani, Israele ha voluto dimostrare che episodî simili subiranno pesanti ritorsioni. La Cisgiordania è stata militarizzata, e gli scontri che ne sono seguiti hanno innescato l’escalation che ha portato all’intervento israeliano. Il potere di deterrenza che Israele vuole conservare non è soltanto nei confronti di Hamas, ma anche nei confronti di Fatah, che con Hamas ha formato un governo di unità nazionale. Del perché di questa scelta di Fatah in risposta al nuovo fallimento dei negoziati di pace, e dell’isolamento di Hamas che non ha il pieno controllo della Striscia e delle proprie, o altrui, cellule più estremiste, parlerò in un prossimo capitolo.

Inevitabilmente, qualunque scontro fra le fazioni si trasforma in un gioco al rialzo: con ciascuna delle parti in gioco che vuole dare dimostrazione di forza e di non temere l’avversario. Sia Hamas che Israele avrebbero molto interesse a evitare un intervento di terra israeliano: da parte di Hamas, se Israele entra via terra, sequestrerà e distruggerà tutto l’arsenale che ora i miliziani tengono nei sotterranei e in aree non raggiungibili dai bombardamenti israeliani. Questo renderebbe Hamas completamente inoffensiva per diversi anni, dato anche l’isolamento che subisce da quando al potere in Egitto non ci sono più i Fratelli Mussulmani (la via Sudan-Egitto era l’unico vero canale di approvvigionamento di armi per Hamas). Al tempo stesso, Israele sa che – proprio per questa ragione – nel momento in cui decidesse di entrare con l’esercito a Gaza, Hamas darebbe fondo all’intero arsenale che, altrimenti, verrebbe distrutto nel giro di pochi giorni. In sostanza, Israele sa che se decide di entrare via terra, spinge Hamas alla resa dei conti, al tutto per tutto.

Non sappiamo quali informazioni abbia l’intelligence israeliana, ma è sicuramente su queste che verrà presa la decisione di intervenire via terra o meno. È certo che la decisione di Hamas di rifiutare il cessate il fuoco proposto dall’Egitto avvicina l’eventualità: è un messaggio a Israele che dice «non abbiamo paura di voi, siete voi a dover avere paura di noi». Attenzione: un cessate il fuoco non era una tregua, ed è difficile immaginare che Israele avrebbe accettato una tregua continuata senza il disarmo di Hamas (che non era previsto nei termini dell’Egitto), ma la scelta di Israele di tastare il terreno ha immediatamente subito il rilancio di Hamas, in questo chicken game (o gioco del coniglio) nel quale l’ultimo a voltare prima del burrone è il vincitore.

Nel momento in cui scrivo, Israele ha accettato l’accordo per un nuovo cessate il fuoco a cominciare da domani (venerdì) mattina, mentre non è chiaro se Hamas l’abbia accettato. Date queste premesse, e la violazione della tregua umanitaria di oggi attraverso lo stesso meccanismo (accordo di tregua, colpi di mortaio da Gaza, Israele che risponde immediatamente), è difficile immaginare che il cessate il fuoco di domani regga. E, in caso di violazione, è difficile immaginare che l’esercito israeliano non entri a Gaza. Del resto, un accordo di tregua nel quale Hamas non s’impegni a disarmarsi sarebbe considerato una grandissima vittoria per Hamas, e un’umiliante sconfitta per Israele. Ma è altrettanto difficile immaginare che Hamas accetti un accordo che preveda il proprio disarmo.

In questo senso, sembra inevitabile che si arrivi a un intervento di terra, inesorabilmente sanguinoso. L’unica possibilità che questo non succeda ha un nome: Iron Dome. Per ora, lo Stato israeliano ha attraversato questi giorni di conflitto quasi incolume. La morte del primo israeliano per un colpo di mortaio non ha inficiato l’immagine di infallibilità che Iron Dome ha, ma ha certamente spinto Netanyahu verso l’intervento. Un intervento con truppe di terra costerebbe moltissimo agli israeliani, che in questo modo metterebbero a repentaglio molte vite dei proprî soldati, per ora rimasti relativamente al sicuro. Uno scenario in cui Israele si sentisse completamente immune agli attacchi aerei di Hamas, sarebbe uno scenario nel quale Israele può rinunciare a un intervento di terra, tanto più che entrare a Gaza richiederebbe anche una strategia su come uscirne (Israele non vuole certo tornare a occupare militarmente quel lembo di terra minuscolo, con quasi 2 milioni di abitanti palestinesi).

Il principale punto debole di Iron Dome non è militare, è il costo. Ciascun missile intercettatore costa intorno ai 20 mila dollari, un prezzo che lo Stato Israeliano non è in grado di sostenere, e che lo spingerebbe verso l’intervento di terra. È per questo che è fondamentale una notizia di cui non si è parlato molto, cioè l’impegno al finanziamento di Iron Dome votato martedì dal Senato americano. Dei tre interventi a Gaza, questo è quello in cui gli attori esterni sono stati meno protagonisti. In realtà, l’intervento di questi (principalmente gli Stati Uniti, oltre l’Egitto e anche la Turchia) è fondamentale per la risoluzione di questo conflitto, la stabilizzazione della situazione a Gaza, oltre che – più importante di tutto – per l’intero processo di pace.

Di questo, di come ne usciranno le prospettive di pace, e delle posizioni di ciascuno degli attori in campo, parlerò nel prossimo capitolo.

– Aggiornamento del 18/07
Questa notte Israele ha cominciato la propria invasione di terra nella Striscia di Gaza. Hamas aveva rifiutato il primo cessate il fuoco e violato la tregua umanitaria di ieri mattina. Nel corso della giornata un funzionario israeliano aveva annunciato l’accettazione di un nuovo cessate il fuoco per stamattina, che Hamas non ha accolto, dicendo di non essere stata consultata prima della formulazione. Dati tutti questi elementi – e l’impossibilità di organizzare in poche ore un attacco di questo genere, che sembra essere stato autorizzato martedì, dopo il rifiuto della prima tregua – è probabile che questa seconda proposta israeliana fosse solamente una mossa mediatica, per dimostrare ancora una volta la mancata disposizione alla pace di Hamas. Questo ipotesi è confermata dal fatto che l’IDF abbia più volte citato la mancata accettazione di questa seconda tregua nel motivare il proprio attacco.

Le ragioni che hanno portato a questo attacco credo siano ben spiegate qui sopra. C’è però un elemento nuovo: Israele ha citato la distruzione dei tunnel di Hamas come principale obiettivo. Attenzione: non stiamo parlando dei tunnel fra Gaza e l’Egitto, di cui si è spesso parlato in questi anni. Bensì dei tunnel che Hamas costruisce per arrivare in territorio israeliano e compiere attentati terroristici. Di questi tunnel non si è mai veramente trattato, almeno dai tempi del rapimento di Gilad Shalit. Ieri, però, l’IDF ha pubblicato video e immagini di un commando palestinese che era entrata in Israele attraverso uno di questi tunnel, pronto a compiere un attacco terroristico.

Anche in questo caso, è difficile immaginare che questi tunnel siano il vero obiettivo dell’intervento, come dice Israele, ma piuttosto che le ultime notizie siano state usate per giustificare ciò che era già pianificato da tempo. L’attività di monitoraggio del confine israeliano e le pratiche per individuare e distruggere  questi passaggi (qui c’è un datato articolo di Slate su 10 modi in cui Israele poteva combattere i tunnel con l’Egitto) sembra essere del tutto alla portata d’Israele: è sufficiente pensare che la salita al potere di al-Sisi in Egitto viene considerata determinante nella distruzione degli altri tunnel, quelli appunto con l’Egitto. È difficile pensare che ciò che riesce a fare il meno organizzato, interessato ed efficiente Egitto non lo riescano a fare l’intelligence e l’esercito israeliano, seppure su di un confine più grande.

Rimane da definire l’entità di questa nuova operazione, quanto Israele si spingerà in avanti nella Striscia e per quanto tempo dureranno le operazioni. Io non credo, come hanno invece detto in molti, che questo dipenderà da quanto Hamas risponderà al fuoco. Israele ha un piano ben preciso, determinato dalle informazioni dell’intelligence – rafforzate anche dall’identificazione delle minacce di questi giorni – e si atterrà a quello, non facendosi trascinare in operazioni improvvisate. Certamente Israele non ha alcuna intenzione di rimanere a Gaza con l’esercito, e il futuro della Striscia è sicuramente incerto. Non penso, tuttavia, che la Striscia finirà nelle mani delle milizie vicine all’Isis, come si sente dire in queste ore. Hamas ha un’infrastruttura – non solo di edifici e armi, che sarà colpita da Israele, ma di uomini – molto forte, e comandava a Gaza con mezzi dittatoriali. Non riesco a immaginare che, immediatamente dopo l’invasione, il vuoto di potere sia riempito da nessun altro che Hamas. Naturalmente posso sbagliarmi.

In tutto questo ci sono altre due cose da notare: 1) Il fatto che il governo egiziano abbia dato la colpa a Hamas dell’invasione israeliana, dimostrando una volta di più la svolta nei rapporti con Israele del nuovo governo egiziano e l’inimicizia fra il governo di al-Sisi e quello che era il braccio palestinese dei Fratelli Mussulmani. 2) La particolare posizione in cui si trova Fatah: Abu Mazen ha cercato più volte di imporsi come l’interlocutore col quale l’Egitto e Israele trattavano la pace, così da prendersene il merito (con il placet di Israele ed Egitto), ed è anche per questo che Hamas ha rifiutato ogni accordo. Questa prospettiva è però svanita con l’inizio delle operazioni di terra, e in questo momento Abu Mazen si trova nella paradossale situazione di dover sperare che l’invasione israeliana vada il meglio possibile, perché una qualunque pace in cui Israele faccia delle concessioni a Hamas sarebbe una gigantesca sconfitta anche per Fatah. Al contrario, se l’esercito israeliano dovesse riuscire a raggiungere i proprî obiettivi senza soffrire molte perdite, la leadership di Fatah potrebbe essere nuovamente convocata come unico interlocutore di Israele, per prendersi i meriti della fine delle ostilità.

Capitolo 4 – Perché Hamas si comporta così? (e Fatah?)

Nei giorni passati sono arrivate notizie drammatiche da Gaza: il dolore per la morte di tante persone anticipa e prescinde qualunque considerazione politica. L’obiettivo di questa rubrica è tentare di capire – di analizzare quello che succede e perché succede – da un punto di vista strettamente razionale, dato che di emotività se ne legge già molta. Ci tenevo, però, ad aggiungere queste parole.

Prima di parlare di come questa guerra influenzerà il processo di pace, ho pensato fosse utile esaminare il comportamento del fronte palestinese. Una precisazione: se avevate letto il terzo capitolo  prima dell’invasione di terra, sappiate che ho aggiunto delle spiegazioni su ciò che succede ora che l’invasione è cominciata. Se vi interessa, potreste trovare utile ritornarci prima di continuare la lettura: l’aggiornamento si trova in fondo all’ultimo post.

La domanda che più ho ascoltato in questi giorni è: «perché Hamas si comporta così?». Il sottinteso è: «da un punto di vista razionale, che senso ha fare di tutto per arrivare allo scontro militare con uno degli eserciti più potenti al mondo?». Per provare a darsi una risposta a questa domanda bisogna concentrarsi su quattro punti: la natura di questo conflitto; la natura di Hamas come organizzazione politico-religiosa; la situazione interna alle fazioni palestinesi; la situazione internazionale con Egitto, Qatar, Iran e Stati Uniti.

Nel terzo capitolo abbiamo già parlato di come il conflitto arabo-israeliano sia, da sempre e drammaticamente, un gioco al rialzo in cui ciò che rende più docile il nemico non è la disposizione al compromesso, ma la capacità di spaventarlo. Questo meccanismo ha portato all’escalation di questi giorni, in cui chi non risponde alla forza con ancora più forza tradisce la propria debolezza. Per questo, dopo il rifiuto di Hamas del cessate il fuoco proposto dall’Egitto, avevo scritto su Twitter: “Se davvero Hamas rifiuta la tregua, Israele è costretto a entrare via terra: altrimenti mostra – per la prima volta – paura del loro arsenale”.

Oggi sappiamo che è all’indomani di quel rifiuto che il Governo israeliano ha autorizzato l’operazione. È molto difficile immaginare che l’accettazione della tregua da parte d’Israele non fosse una mossa strategica: la proposta egiziana non prevedeva il disarmo di Hamas, una condizione che difficilmente Israele avrebbe accettato. Ma allora perché non accettare la proposta di tregua e “vedere” il bluff d’Israele? Perché continuare il gioco a rialzo al potenziale costo di tante vite e di un’inevitabile distruzione delle proprie infrastrutture militari (e non solo)?

Non c’è dubbio che Hamas sperava di impaurire gli israeliani, per i quali l’eventualità di un intervento di terra comportava la verosimile messa a repentaglio dei proprî soldati che, con i soli bombardamenti, erano relativamente al sicuro. Questo non è però sufficiente a spiegare una scommessa così alta come il rifiuto di una tregua che era appoggiata da Fatah, dall’Egitto e dalla Lega Araba. Ci sono altri fattori che aiutano a contestualizzare quella che, vista così, sembra una mossa della disperazione.

Primo fra tutti, l’isolamento in cui si trova Hamas da quando in Egitto è al potere al-Sisi e i Fratelli Mussulmani sono stati messi al bando. Hamas era molto vicina alla Fratellanza, dopo esserne nata come branca palestinese. Questa evoluzione non soltanto ha privato Hamas di un alleato importantissimo – quello che ha sempre fatto da negoziatore delle tregue con Israele – ma ne ha anche limitato consistentemente l’approvvigionamento. Il governo dei Fratelli Mussulmani chiudeva più di un occhio rispetto alla costruzione di tunnel, e al passaggio di materiale, fra l’Egitto e Gaza; il Governo di al-Sisi, che ha molto interesse a indebolire gli alleati del suo principale nemico interno, ha adottato una politica completamente diversa, e questo ha fatto sì che per l’approvvigionamento di materie prime Gaza tornasse a essere completamente dipendente da Israele, mentre l’unico canale di importazione di armi non artigianali veniva significativamente ristretto.

La differenza è stata chiarissima in questi giorni di guerra, nei quali l’Egitto è stato eloquentemente critico nei confronti di Hamas. Non soltanto il ministro degli esteri egiziano ha dato la colpa a Hamas dell’invasione israeliana, ma tutte le trattative di tregua si sono svolte con Fatah come partner senior di Hamas, senza l’accordo di Hamas stessa. L’Egitto vuole rafforzare Fatah e delegittimare Hamas, mentre Hamas fa l’opposto: è per questo che finora Hamas ha rifiutato non soltanto i tentativi egiziani di arrivare a un accordo, ma anche l’Egitto di al-Sisi come interlocutore. È significativo ricordarsi che, 2 anni fa, un accordo di cessate il fuoco del tutto simile a quello di martedì scorso l’aveva proposto l’Egitto guidato da Morsi (cioè dai Fratelli Mussulmani), e in quel caso Hamas aveva accettato.

Questo isolamento ha costretto Hamas a cercare un accordo con Fatah, formando un governo di unità nazionale che ha permesso a Hamas di pagare gli stipendî dei dipendenti pubblici, e più in generale di uscire dall’isolamento internazionale (USA e UE hanno accettato di collaborare col Governo di unità nazionale, diversamente dal boicottaggio che riservavano a quello di Hamas a Gaza). Fatah, dal canto suo, si è trovata in una posizione di relativa forza, come in politica interna non accadeva da prima delleelezioni del 2006 (basta pensare che il governo di unità nazionale è guidato da un Primo Ministro di Fatah, e non presenta neanche un membro di Hamas). Trovatasi in questa posizione, ha usato Hamas come strumento di pressione su Israele. Avendo rinunciato alla violenza, Fatah usa armi diplomatiche e legali per cercare di portare Israele a fare le concessioni necessarie ad arrivare alla pace. Dopo mesi di nuove trattative, quando Netanyahu ha dimostrato una volta di più di non volere percorrere i passi necessari, Fatah ha stretto l’alleanza con Hamas: come a dire – se non volete la pace, non abbiamo ragione di fidarci di voi.

Naturalmente Hamas non è contenta di essere in questa morsa, e questo nuovo conflitto ha portato le due fazioni palestinesi a uno scontro su più fronti. Oggi Fatah si trova in una posizione molto particolare: prima dell’invasione di terra ha cercato di farsi campione del cessate il fuoco egiziano in modo da prendersi i meriti della fine della guerra. L’Egitto spingeva per questa soluzione e anche per questa ragione Hamas ha rifiutato la soluzione. Ora che l’invasione di terra, e tutte le morti che ne derivano, non può essere più scongiurata, Fatah si trova nella posizione paradossale in cui, diplomaticamente, ha tutte le ragioni per sperare in una schiacciante vittoria di Israele che costringa Hamas alla resa senza condizioni. Qualunque concessione ottenuta da Hamas attraverso mezzi militari sarebbe un’enorme sconfitta per la strategia di Abu Mazen, oltre che un’ipoteca sulla possibilità di ricostruire una propria influenza con i palestinesi a Gaza. Se, invece, Hamas fosse tanto indebolita da essere nell’impossibilità di porre delle condizioni, Egitto e Israele investirebbero certamente Abu Mazen del ruolo di interlocutore, restituendogli la veste di paciere che aveva tentato di imporre prima dell’attacco di terra.

Da diversi anni Fatah adotta una strategia legale, più che militare, per tentare di fare leva sulla comunità internazionale così da convincere Israele ad arrivare alla pace: è quello che è successo in occasione del riconoscimento dello Stato palestinese all’ONU, una grande vittoria per Fatah. Anche in questa occasione, lo stesso scontro si è riprodotto: Abu Mazen in televisione ha domandatocausticamente «ma cosa pensate di ottenere lanciando dei missili?». La considerazione non è soltanto pragmatica, per le ragioni appena dette (se la strategia dei missili ha successo, Fatah ha fallito strategia), ma anche perché questa strategia mina quella di Fatah: Fatah vorrebbe usare la stessa leva legale in sede internazionale e tentare di incriminare Israele per le sue azioni, ma sa che la presa a bersaglio indiscriminato dei civili (nonché l’uso di scudi umani) da parte palestinese rendono l’accusa insostenibile, come spiega l’inviato palestinese al Consiglio Onu per i Diritti Umani. Hamas è convinta che continuare a lanciare razzi garantisca le condizioni stesse che rendono possibili il lancio di razzi, indebolendo l’autorità di Fatah.

Non bisogna dimenticare, poi, che anche il fronte interno a Gaza è molto frammentato. Negli ultimi tempi, il Medio Oriente è il teatro della lotta fra Qatar e Iran per assicurare la propria influenza all’interno dei movimenti islamisti. L’Iran è stato per anni il più importante sponsor di Hamas, ma la contraddizione fra sunniti e sciiti – che era sempre stata presente sottotraccia – è venuta fuori prepotentemente in Siria, dove gli alleati naturali di Hamas sono in guerra con l’Iran. Per questo Hamas si è avvicinata al fronte qatariota (a cui fanno riferimento i Fratelli Mussulmani), perdendo così il suo principale alleato, mentre l’Iran ha stretto sempre più i legami con la Jihad Islamica, il principale movimento islamista che compete a Hamas il potere nella Striscia. È in questo quadro che si inscrive la sempre maggiore difficoltà di Hamas di controllare tutti i gruppi islamisti nella Striscia e il conseguente scollamento fra la leadership politica di Hamas e l’ala militare, le Brigate al-Qassam, che stanno orientando le sorti del conflitto con la propria intransigenza.

Queste sono le considerazioni pragmatiche, di carattere politico e strategico, che animano le scelte di Hamas. C’è un altro fattore – ben meno pragmatico – necessario a completare il quadro. Lo aggiungo in questa postilla, in modo che chi fosse interessato soltanto a un’analisi logico-strategica (cioè il piano, volutamente asettico, sul quale è scritta questa guida) possa interrompere qui la lettura.

– Postilla, la natura di Hamas
Per comprendere fino in fondo delle scelte apparentemente incomprensibili o avventate di Hamas, bisogna capirne la natura profondamente confessionale, come la fibra religiosa permei l’ethos del Movimento Islamico di Resistenza. Per molti di noi è impossibile immaginare la condizione di chi sia convinto che Dio abbia dei precetti e delle aspirazioni immediate sulla vita di ciascuno. Perciò siamo portati a declinare strategie e motivazioni di questo tipo in razionalizzazioni più prossime alle nostre categorie politiche. Ma questo lascia un difetto di traduzione: quanto ha senso usare i criterî che usiamo nel quotidiano per definire Hamas un partito dell’estrema destra religiosa?

Hamas è un movimento che, con piglio dittatoriale, cerca di imporre la Legge islamica nella Striscia di Gaza. Mette all’indice alcuni libri, vieta concerti, annulla attività sportive o chiude locali perché non vi è garantita la segregazione dei sessi. ONG che operano per fornire supporto ai bambini palestinesivengono chiuse perché permettono la fruizione sia ai maschi che alle femmine. Alle donne è vietatoballare o andare in motorino dietro a un uomo. C’è una polizia religiosa (il Comitato per la Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio). Conosco persone che sono state picchiate perché passeggiavano (camminavano al fianco) con una ragazza che non fosse la moglie.

Al contrario di ciò che dice l’atteggiamento paternalistico a cui siamo abituati, si tratta di persone che ci credono, non di persone che usano la religione ai proprî fini. È lo stesso errore in cui incorreva chi, nei primi anni 2000, sosteneva che il terrorismo palestinese fosse causato da povertà o mancanza di istruzione, prima di scoprire che gli attentatori suicidi erano più educati e più ricchi degli altri palestinesi. Quando sentiamo Hamas invitare gli abitanti delle case che saranno bombardate dagli israeliani a rimanere lì al costo della propria vita, o sentiamo membri di Hamas rivendicarepubblicamente questa strategia come manifestazione del Jihad, dobbiamo capire che tale disposizione al sacrificio (della vita propria e dei proprî familiari) è integrale a quell’ideologia religiosa. Non è soltanto dei “poveracci”, ma delle cariche più importanti: come Nizar Rayan, quello che per molti versi era il numero uno di Hamas a Gaza, che durante la prima guerra a Gaza, saputo dell’imminente bombardamento della propria casa, convocò le sue 4 mogli e i suoi 11 figli (uno era già morto in un attentato suicida) per morire come martiri.

Per questo, nei nostri tentativi di razionalizzazione delle scelte di Hamas bisogna tenere conto della commistione fra strategia militare e ideologia religiosa che anima quelle scelte. È importante per capire come Hamas si senta nella posizione di dettare delle condizioni preliminari al cessate-il-fuoco, in quello che sarebbe un paradosso, dato che i palestinesi sono quelli che subiscono – largamente – più vittime degli israeliani. Hamas, nel porre queste condizioni, sta inviando a Israele (e al mondo) il messaggio che, nonostante questa sproporzione, quelli preoccupati devono essere gli israeliani. È importante per capire come la netta supremazia militare israeliana non spinga Hamas ad adottare una politica più realista. È importante per capire come l’analisi razionale, che prescinde dall’analisi dei presupposti trascendenti di Hamas, non può aspirare all’interezza della comprensione.

Naturalmente il fatto che la scorta ideale di un movimento presenti questa componente non vuol dire che ciascuna delle rivendicazioni di quel movimento, come la fine del blocco su Gaza, sia sbagliata. È solamente uno strumento necessario a capirne le aspirazioni.

Capitolo 5 – Israele e Palestina, e ora che succederà?

Ho aspettato diversi giorni prima di scrivere questo ultimo capitolo della guida per cercare di seguire il punto d’arrivo delle vicende delle ultime settimane, così da raccoglierne gli esiti e le influenze sugli scenarî futuri. Israele e Hamas, però, sono ancora lontane dal trovare un accordo che chiuda la questione – o la congeli – per qualche tempo. Non è da escludere che a una vera tregua non si giunga proprio, ma che lancio di razzi e incursioni israeliane continuino nei prossimi mesi, soltanto con una frequenza minore. Del resto, è bene tenere presente che questo è un conflitto che, a bassa intensità, non si è mai interrotto: anche nei mesi più lontani dai tre veri interventi militari israeliani, quelli in cui in teoria una tregua era in vigore, razzi da Gaza hanno continuato a colpire Israele, che ha continuato con le proprie incursioni in territorio palestinese.

Per questo è difficile definire quale parte abbia “vinto” questa nuova guerra a Gaza, anche perché le parti sono tre: Israele, Hamas, e Fatah. Ciascuna di queste parti ha buone ragioni per volere l’indebolimento di entrambe le altre, e per questo si trova ad avere un nemico in comune con un proprio nemico. Israele vuole indebolire militarmente Hamas perché è l’unica parte che le si oppone armi alla mano, ma vuole indebolire politicamente Fatah perché un’ANP debole è la garanzia della prosecuzione dello status quo nei Territorî Occupati (il massimo territoriale a cui Israele possa aspirare). Hamas vuole colpire Israele, per ovvie ragioni, ma al tempo stesso vive qualunque vittoria diplomatica di Fatah come una minaccia per la propria presa sui palestinesi. Fatah è alleata di Hamas nel cercare di indebolire Israele per costringerla a interrompere l’occupazione, ma è alleata con Israele nel cercare una soluzione diplomatica che metta Hamas fuori dai giochi.

Questo triangolo intricato rende l’analisi delle vicende molto complessa: perché si può al tempo stesso sostenere che Israele a Hamas facciano lo stesso gioco (Hamas è alleata con Israele), che gli israeliani non abbiano un interlocutore (Fatah è alleata con Hamas), o che Fatah stia facendo il poliziotto per Israele in Cisgiordania (Israele è alleata con Fatah). Sono tutte cose vere, utili da citare nelle proprie analisi, ma che prese singolarmente non restituiscono la completezza del quadro.

ISRAELE
Perché ha vinto: non c’è dubbio che, militarmente, la vittoria israeliana ci sia stata. Israele ha colpito fortemente le infrastrutture di Hamas che ha dato fondo al proprio arsenale di missili. Questi si sono dimostrati molto meno pericolosi rispetto al passato (si è passati dall’avere 1 ferito ogni 3 razzi lanciati nel 2008, a 1 ogni 8 nel 2012, a 1 ogni 35 nel 2014), grazie principalmente al perfezionamento di Iron Dome. In sostanza, la minaccia posta dall’arsenale di Hamas si è rivelata essere minore di ciò che temevano in molti, e il fatto che Netanyahu abbia autorizzato l’operazione di terra (lo scenario che avrebbe portato Hamas alla resa dei conti) è stata la dimostrazione di questa fiducia. Durante il conflitto si è anche dimostrata la portata del cambio di regime in Egitto, da uno pro-Hamas a uno fortemente anti-Hamas: il governo di al-Siisi ha usato ogni occasione per delegittimare Hamas, anche al costo della propria efficacia nel ruolo di mediatore. Questo fa certamente tirare un sospiro di sollievo agli Israeliani.

Perché ha perso: è vero, però, che data la sproporzione di mezzi, sul successo militare israeliano non c’era alcun dubbio, ciò che era in discussione era il prezzo che Israele avrebbe pagato, e questo prezzo è stato molto alto. Durante e dopo l’invasione di terra sono morti molti più soldati – a oggi sono 64 – che in tutti gli altri interventi, come all’esercito israeliano non succedeva dalla Guerra in Libano. Inoltre Israele non è riuscito a raggiungere l’obiettivo che aveva dichiarato, quello del disarmo di Hamas, e verosimilmente non ci riuscirà. Successivamente, Netanyahu aveva spostato l’attenzione sui tunnel, dicendo che l’obiettivo dell’invasione era quello di distruggere tutti i tunnel di Hamas. È stato con questa posteriore “missione compiuta” che Netanyahu ha annunciato la fine dell’operazione di terra, ma Hamas ha subito mostrato ai media come neppure questo successo fosse stato ottenuto. È molto interessante, perché spiega la dinamica delle dimostrazioni di forza di questo conflitto: Hamas ha ancora dei tunnel in funzione, ma non sceglie di nasconderne l’esistenza per preservarli, bensì li pubblicizza in modo da inferire un colpo mediatico a Israele.

HAMAS
Perché ha vinto: partendo da una posizione di quasi completo isolamento internazionale, Hamas è riuscita ad arrivare a questo punto del conflitto senza fare alcuna concessione. È vero che militarmente ha perso, ma nessuno si aspettava che vincesse. Quello che Hamas si proponeva era di uscire dall’angolo dell’isolamento internazionale: per quanto la situazione geopolitica non sia cambiata, è chiaro che ogni guerra che Israele fa è mediaticamente perdente agli occhi del mondo. Inoltre, sul fronte interno, Hamas ha dimostrato di essere l’unica forza in grado di creare un vero problema a Israele, di costringerla a trovare una soluzione alla questione palestinese. Hamas può ben dire che, se non ci fossero i suoi missili, Israele continuerebbe con la propria occupazione indisturbata, senza che la questione abbia alcuna attenzione da parte della comunità internazionale né che Israele si ponga alcun problema.

Perché ha perso: è vero che Hamas non ha fatto concessioni, ma in alcuni frangenti – come nelle violazioni delle tregue – è sembrato che questa posizione derivasse più che da estrema forza, da estrema debolezza. Hamas è entrata in questo conflitto in una posizione complicata, quasi da ultima spiaggia. Fra le pressioni dei gruppi ancora più estremisti (oppure legati all’Iran) nella Striscia, e la necessità di emanciparsi dal ruolo di forza islamista per uscire dal proprio isolamento, Hamas ha dato segnali contraddittorî. C’è sicuramente uno scollamento fra la leadership politica e quella militare, le Brigate al-Qassam, e non è un caso che la prima viva lontano da Gaza, mentre la seconda viva a contatto con gli altri gruppi. In tutto questo, Fatah ha più volte affondato il colpo sull’irragionevolezza delle azioni di Hamas, sostenendo che siano soltanto causa di ulteriore sofferenza per la gente palestinese che, ovviamente, è stufa di continue guerre.

FATAH
Perché ha vinto: Fatah beneficerà certamente della nuova attenzione alla questione: quando la comunità internazionale cercherà un interlocutore, quello sarà certamente Abu Mazen, così come è già successo in Egitto durante i ripetuti tentativi di arrivare a un cessate il fuoco. Da qualche anno Fatah ha abbandonato la lotta armata e si è affidata alla diplomazia: Abu Mazen ha riconosciuto il disperato bisogno di una leadership palestinese presentabile, e di un interlocutore nei colloqui di pace, che il mondo manifesta, e sta provando da anni a essere questo interlocutore. Alcune piccole vittorie le ha ottenute, come il riconoscimento dello Stato palestinese all’Onu. In questo momento, la situazione internazionale è molto favorevole e prima dell’intervento Fatah si confrontava con un Hamas tanto indebolito da essere costretto ad accettare un governo di unità nazionale con Fatah alla guida, e senza neanche un ministro di Hamas.

Perché ha perso: Abu Mazen non è riuscito nel suo principale obiettivo, che era quello di siglare un accordo di cessate il fuoco nelle veci di Hamas, così da mettere il Movimento Islamico di Resistenza ancora più in secondo piano. Nei fatti, Fatah sperava che l’intervento israeliano indebolisse Hamas tanto da costringerlo a rivolgersi a Fatah, nelle vesti di genitore responsabile. Questo non è successo, e in Israele c’è chi dice che uno dei motivi per i quali Israele non è andato fino in fondo nella propria invasione di terra è proprio per non legittimare troppo l’ANP, così da essere costretti a sedersi seriamente al tavolo di pace. Inoltre, pochi giorni fa si è saputo di un piano di Hamas per rovesciare il governo di Fatah in Cisgiordania molto simile a quello che era successo a Gaza. In altre parole, Abu Mazen sa di non potersi fidare né degli israeliani né di Hamas, e l’unico vero alleato che ha – la comunità internazionale – sembra guardare dall’altra parte per la maggior parte del tempo.

E QUINDI?
Dalla fine della seconda intifada, con la costruzione del Muro, e la conseguente fine degli attentati suicidi, c’è un fatto inesorabile: Israele ha dimostrato fra il poco e il pochissimo interesse a trattare per la creazione di uno Stato palestinese. La spinta che c’era negli anni della speranza, il decennio che va dal 1992 al 2001, è svanito quasi completamente. Gli israeliani hanno deciso di “fare da soli”, e i governi che sono stati eletti sono la testimonianza di questo orientamento. Netanyahu ha più volte detto che il suo obiettivo è garantire prosperità economica ai palestinesi, sperando che questo faccia loro dimenticare le rivendicazioni territoriali. In questa ottica, interventi militari come questi possono essere soltanto da scongiurare: gli israeliani misurano il proprio insuccesso in interventi come questi nel numero dei proprî morti molto più di quanto non faccia Hamas, che ha sempre dimostrato una maggiore disinvoltura riguardo alla vita della propria gente (provate a immaginare, per un momento, lo scenario opposto: quanto sarebbe ridicolo e inefficace per gli israeliani usare dei civili come scudi umani per difendere i proprî soldati od obiettivi militari?). Vale anche per i civili: ogni morto israeliano è un successo per Hamas, ogni morto Palestinese è un insuccesso per Israele. Inoltre, gli interventi militari attirano l’attenzione del mondo, che vuole trovare una soluzione alla questione palestinese, quella che Netanyahu vorrebbe far scivolare via. Israele ha – per un misto di buone e cattive ragioni – una sindrome d’accerchiamento che la porta a non fidarsi di nessuno a livello internazionale, ma sa che senza l’appoggio americano, la situazione attuale non sarebbe sostenibile. In queste settimane, l’Amministrazione Obama non è stata per nulla tenera con Israele, ed per questo che Netanyahu ha cercato di scavalcare il Presidente, e rivolgersi al Congresso, storicamente meno propenso alle imposizioni nei confronti di Israele. Il problema è che questa è una strategia vincente.

Hamas è consapevole di una cosa: che, a Gaza, non c’è un’alternativa alla sua leadership. Gli israeliani non vogliono tornare in quel ginepraio, ma neanche Fatah può realmente permettersi di amministrare la Striscia: sarebbe un impegno con molti oneri e pochi onori. Neppure Hamas riesce a controllare le cellule più estremiste, sarebbe tanto meno in grado di farlo Fatah, come del resto non c’è riuscita negli anni in cui ha governato a Gaza: difficilmente vorrebbe spendere così la propria credibilità acquisita. Come detto, però, le minori preoccupazioni di Hamas rispetto alla credibilità internazionale, sono però assieme una forza e una debolezza, e l’atteggiamento del Movimento Islamico di Resistenza è segnato dalla stessa ambiguità nei riguardi delle prospettive future. Sulla carta, Hamas è orientata alla sola distruzione d’Israele. È ciò che dice la costituzione e la propaganda, ciò che si sente nei comizî e nelle tv, ciò che insegna ai bambini nelle proprie scuole. In altri contesti, però, le cose diventano meno definite: alcune volte si parla di accettazione dei territorî del 67, altre di una tregua di dieci/venti anni con Israele (ma senza mai spingersi a riconoscerne l’esistenza). Anche durante questo conflitto si è passati dal dire che tutti gli Israeliani sono obiettivi di Hamas, all’affermazione che Hamas colpisce i civili solo per la rudimentalità delle proprie armi. Ed è nella stessa direzione che va letto l’invito all’ANP di continuare a spingere per un’indagine della Corte Penale Internazionale sui crimini di guerra commessi da Israele (la notizia è significativa perché, come la leadership palestinese sa, il mirare indiscriminato ai civili è – di per sé – un crimine di guerra che potrebbe incriminare Hamas stessa e complicare la posizione palestinese).

Dal canto proprio, Fatah ha rinunciato alla violenza e – negli ultimi anni – ha dimostrato significativi segni di apertura  Questa scelta di giocare la carta della diplomazia ha però il problema di essere un’arma spuntata, specie perché l’unico modo che Fatah ha di costringere Israele al tavolo delle trattative è attraverso le pressioni della comunità internazionale, che però si allerta seriamente soltanto durante gli interventi militari, rendendo di fatto Fatah ostaggio delle azioni di Hamas. Inoltre, questa necessità comporta una tensione da due fronti: da una parte Fatah deve pubblicizzare la propria disposizione alle concessioni, anche dolorose, in modo da essere credibile; ma dall’altra, pubblicizzare cosa si è disposti a concedere non è soltanto una pessima strategia di trattativa ma costituisce un serissimo problema per l’opinione pubblica, visto che la larga parte della popolazione palestinese vede queste rinunce come un tradimento (mentre è, genericamente, favorevole ai due popoli due stati, quando si parla delle specifiche rinunce necessarie alla pace, le cose cambiano), una percezione che Hamas è prontissima a sfruttare. Per questo Fatah si rende conto della propria posizione di debolezza ed è disposta a concessioni notevoli (arrivando a rinunciare privatamente alla questione che sembrava la più irrisolvibile, il rientro degli eredi dei profughi) ma senza poterle rendere pubbliche. In poche parole, Fatah è prigioniera della storica dinamica fra israeliani e palestinesi in cui dominano le prove di forza e si è interessati alla pace solo se si è vulnerabili.

In sostanza ci sono molte ragioni per pensare che le cose rimarranno come sono. L’unica speranza che qualcosa cambi risiede in un maggiore coinvolgimento della comunità internazionale, e in particolare degli Stati Uniti, perché costringano Israele a trattare con Fatah (e ad accettare concessioni, come la divisione di Gerusalemme, e lo smantellamento della maggior parte delle colonie). Il paradosso è che, in molti, vedono già troppa attenzione da parte del mondo nei confronti di Israele. È vero che la sproporzione di attenzione che la condotta israeliana riceve rispetto a quella di molti altri Stati che compiono crimini ben più efferati è equivoca e sospetta, ma l’errore è l’ignorare i comportamenti degli altri Stati, non l’essere troppo attenti a quelli di Israele.

Questo era l’ultimo capitolo di questo piccolo compendio: diversamente dalle altre puntate, ho pensato che fosse utile aggiungere alcune mie interpretazione ai fatti che ho riportato, per tentare di chiarire meglio come si inscrivono nel quadro generale. Queste interpretazioni sono, ovviamente, mie opinioni. Grazie a chi mi ha letto.

2 Replies to “La guida su Israele e Palestina, completa”

  1. mi sono imbattuto per caso in questo articolo e leggendo il passaggio sotto riportato capisco il perche’ la maggioranza delle persone credono alle cagate che la stampa scrive sui poveri israeliani minacciati. Chi scrive queste panzane e’ mai stato a Gaza? ha mai visto i militari israeliani sparare su civili palestinesi che vanno a prendere acqua ai pozzi leggete cosa dicevano i padri fondatori di israele
    :Yigal Allon e Ben Gurion dichiaravano che “C’è bisogno di una reazione brutale. Dobbiamo essere precisi su chi colpiamo, se accusiamo una famiglia palestinese dobbiamo colpirli senza pietà, donne e bambini inclusi… non dobbiamo distinguere fra colpevoli e innocenti”. Nel 1978, il Capo di Stato Maggiore dell’esercito d’Israele, Mordechai Gur, dichiarò all’analista militare israeliano Ze’ev Schiff che “Per 30 anni abbiamo combattuto una guerra contro civili che vivono in villaggi… abbiamo colpito civili consciamente perché se lo meritano… il nostro esercito non ha mai fatto distinzione fra target militari e civili, ma ha attaccato di proposito target civili”. Nel 2000, Dan Halutz, che sarà Capo di Stato Maggiore dell’esercito di Tel Aviv, dopo un attacco aereo da lui stesso condotto su Gaza e dove furono massacrati dei civili dichiarò “Cosa ho provato? Solo una piccola scossa al mio aereo per lo sgancio della bomba, ma dopo un secondo passa tutto”.
    come fate a scrivere boiate come quelle qui sotto?
    perche’ dovete scrivere certe cose ? non ne capisco davvero il motivo e’ molto triste

    sono tre comportamenti, nei riguardi dei civili, in guerra: il primo è quello di cercare di ridurre al minimo le vittime civili, anche a costo di fare operazioni militari meno efficaci; il secondo è quello di ignorare la quantità di vittime civili che un’operazione militare possa comportare; il terzo è quello di cercare di fare più morti civili possibile.

    Israele si comporta in un modo che rientra nello spettro fra il primo e il secondo, a seconda dell’opinione che se ne ha. Hamas si comporta inequivocabilmente nel terzo modo. Israele vuole uccidere il meno possibile o se ne frega. Hamas vuole uccidere il più possibile.

  2. Infatti, questa equidistanza è molto nauseante. Mettere sullo stesso piano la vittima e il carnefice, chi occupa e chi subisce l’occupazione è immorale oltre che intellettualmente disonesto. Per quanto mi riguarda qualunque considerazione che non parta dal presupposto che Israele è uno stato nato con metodi coloniali, cresciuto nell’illegalità e che gli israeliano non sazi del furto originale occupano sempre più porzioni di terra destinate ai palestinesi perfino da quei criminali che effettuarono l’odiosa “spartizione” è da rigettare al mittente.

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