In questi giorni abbiamo finalmente completato il magazzino e appena cominciato a distribuire vestiti nel “negozio”: il sistema sembra funzionare, e ogni giorno arrivano persone a prendere l’abbigliamento di cui hanno bisogno. Fra queste ci sono anche le cose che ho portato in macchina, e ogni volta che vedo un capo che viene dall’Italia sono un po’ stupidamente orgoglioso.
Ho una strana sensazione mentre faccio questo lavoro: mi sento più a mio agio con le persone che mi trattano male. Naturalmente non è una sensazione che faccio trasparire, e che non orienta – per quanto ne sia consapevole – i miei comportamenti: anzi, cerco sempre di fare sì che chi è più gentile e meno arrabbiato riesca a ottenere le stesse cose di chi, inevitabilmente, riesce a ottenere quel che vuole prepotentemente.
Però non riesco a togliermi di dosso questa percezione, quella di un certo disagio nell’avere a che fare con le persone più gentili e più grate per il lavoro che facciamo: a sentire le loro storie – me ne hanno raccontate tante e tante ne racconterò – si ha una tale sensazione di inadeguatezza e impotenza che viene da sentirsi responsabili. Non come occidentali o come europei, ma come esseri umani. E a pensare: «ma come fai a essere così cortese?»
Questa è la squadra di volontarî che lavora nel negozio: i volontarî sono la cosa che mi ha più stupito qui. Non soltanto, per il poco che le ho conosciute, sono tutte persone di qualità (e io sono uno severo), ma per il livello di impegno e coinvolgimento nelle sorti del campo: qui le giornate (tutte: dal lunedì alla domenica) cominciano alle nove e mezza e finiscono alle nove e mezza, i primi giorni non si faceva neppure una pausa fra la mattina e la sera, e tutti – me compreso – sono contenti di farlo. Si arriva alla sera e si ricomincia.
E stiamo parlando di volontari che non hanno un ritorno economico da tutto questo lavoro, anzi, ciascuno è qui a proprie spese, consumando i proprî giorni di vacanza, e pagando per il proprio alloggio e per la propria cena. A questo proposito: visto che, come avevo raccontato, i soldi delle offerte hanno ecceduto ogni aspettativa e le mie necessità di sussistenza qui, ho cominciato a usarli per le necessità del campo. In questi giorni è stato per l’acquisto di tubi e arnesi per riparare i bagni.
Nel campo ci sono persone che vengono dalla Siria, dall’Iraq e dall’Afghanistan. Le etnie nelle quali si identificano sono però le più disparate: arabi, palestinesi (che sarebbero arabi, ma qui sono un gruppo distinto), curdi, yazidi.
Gli arabi siriani sono i più influenti qui: un po’ perché parlano l’arabo, che è l’inglese del Medio Oriente, un po’ perché sono di più. Principalmente perché sono più ricchi. Così hanno le tende migliori, quelle più vicine ai punti di distribuzione di ogni cosa, e sono riusciti a costruirsi un ambiente relativamente abitabile.
All’altro capo dello spettro – e del campo – ci sono gli yazidi, lontani da tutto, sprovvisti di ogni comodità, molti dei quali parlano soltanto un dialetto curdo. C’è solo una cosa che è più vicina alle tende in fondo, e cioè agli yazidi, rispetto a quelle davanti: il campo dove organizzo i giochi tutti i pomeriggi.
È un fatto al quale tengo molto, proprio per questa forma di isolamento interno che vivono le comunità più povere. Così, io che pensavo di rafforzare il mio carentissimo arabo mi sto ritrovando a imparare qualche parola di curdo: per ora so contare fino a dieci, dire quando è fallo, “fuori”, “basta”, “piano”, “ai più piccoli” (si vede qual è la mia fonte di nozioni, eh?).
Lui è Mahir, è uno yazidi iracheno ed è una delle persone con le quali ho più legato qui. Il primo paio di giorni era un ragazzo come gli altri che vuole stare con i grandi e farsi i fatti proprî, poi ha capito che può darmi una mano con i bambini e si è trasformato in una risorsa, umana – è il caso di dirlo – molto preziosa. Certo, senza parlare una lingua in comune è dura: ma è riuscito comunque a raccontarmi un po’ della sua comunità. Mi ha detto che nel campo di Katsika ci sono 249 yazidi che vengono da Sinjar, o Shingal come la chiamano loro.
Sono tutte persone che sono scappate sulle montagne all’arrivo dell’Isis e, più fortunate di altre, sono riuscite a scampare al massacro. Quando parlavo con lui di questo è arrivato anche un signore più anziano che, sempre a poco più che gesti e con le pochissime parole in arabo che condividiamo, mi ha raccontato di come l’intervento sia stato tardivo, di quanti bambini siano semplicemente morti di sete, di come gli elicotteri che lanciavano viveri siano stati pochi e in ritardo.
Ripensavo a quando l’estate scorsa sentivo le notizie dell’assedio di Sinjar, degli yazidi fuggiti nelle montagne, e di come mai mi sarei aspettato di incontrarne uno di persona, tanto meno di giocare tutti i giorni assieme a quei bambini. È una banalità, ma è vero, le notizie che si leggono superano quell’endemico velo di distacco psicologico e assumono un altro potere evocativo se, in qualche modo, incrociano la tua storia vissuta.
Mi sono trovato a dare dei materassi per bambini. Oddio, materassi è un concetto molto pretenzioso per dei pezzi di gommapiuma tagliati alla bell’è meglio. È, comunque, il meglio che possono avere ora, e in molti, specie nella parte povera del campo – sì, c’è una parte povera e meno “influente”, lo racconterò presto – non hanno neanche questo.
C’è una fotografa del campo che segue le attività. In generale non pensavo di pubblicare troppe foto mie, ma visto che oggi la fotografa mi ha seguito quando andavo a consegnare una tornata di queste barre di gommapiuma, le metto qui. Prometto che nei prossimi giorni saranno di meno:
La cosa incredibile è che finora molte persone hanno dormito su delle pietre con delle lenzuola sopra, al massimo con qualche asse di legno a fare da rete. UNCHR ha promesso di rifare tutte le tende del campo, e noi speriamo che lo facciano presto. Nel frattempo si dà quel che si ha, e altri materassi arriveranno presto.
Non dovevo soltanto consegnare i materassi per bambini, ma anche assegnarli. E così mi sono trovato, dopo anni, nuovamente nel dilemma più difficile: dare poco, non abbastanza (ci sono famiglie che hanno sei o sette bambini piccoli), a più persone o dare il sufficiente a pochi, lasciando gli altri senza niente. Per la cronaca, ho deciso per la prima soluzione, di cui mi sono probabilmente già pentito.
Questa è la prima foto che ho fatto appena arrivato al campo:
Gli imprevisti sono stati diversi già prima di arrivare. Una volta arrivati, tutti i volontarî si sono dovuti registrare all’esercito: è una misura scattata oggi – scelgo bene i momenti, eh? – perché la situazione negli ultimi giorni è diventata molto più tesa. Qualche giorno fa c’è stata una manifestazione dei profughi che hanno interrotto l’uscita dell’autostrada nei pressi del campo, la polizia li ha arrestati e ha incolpato le ong di averli istigati. Non c’ero, non posso sapere, ma già vedendo la situazione del campo ho i miei dubbî che ci sia bisogno di una qualche istigazione.
Il campo è una pietraia sulla quale sono appoggiate delle tende. Katsika è noto a tutti come il peggior campo profughi qui in Grecia, quello meno fornito, con meno infrastrutture e più problemi, quello nel quale nessun profugo vorrebbe finire. Più di una volta hanno portato pullman pieni di gente che si è rifiutata di scendere, creando un braccio di ferro che talvolta è durato per giorni. Insomma, di lavoro da fare ce n’è. Non solo quello, però.
Stamattina sono partito da Roma, con la macchina carica carica, più o meno come me.
La maglietta è quella di Batistuta che indossavo alla mia laurea italiana. L’avevo prestata a un amico che cominciava una cosa importante, con l’impegno che l’avrei ripresa quando fossi stato io a cominciare qualcosa di davvero importante. Lui l’ha custodita con cura e oggi mi è sembrata l’occasione buona per rimetterla.
Da Parigi mi raggiungerà Louise, una vecchia amica che verrà a fare la volontaria fino a fine mese. A questo proposito in molti mi hanno chiesto se, nel corso delle prossime settimane, mi potrebbero raggiungere a Katsika per dare una mano. La risposta è ovviamente “sì”: chiunque abbia anche solo una settimana da dare, può venire e contribuire molto. Il campo di Katsika manca di molte cose – è considerato fra i più sforniti e, purtroppo, poco accoglienti – e fra queste cose anche di persone che si mettano a disposizione.
In ogni caso da sabato pomeriggio, quando arriverò al campo, avrò le idee molto più chiare e potrò dare consigli più documentati a chi voglia imbarcarsi nella stessa avventura.
Da quando ho scritto il post in cui raccontavo di stare per partire per Katsika sono successe molte cose belle, di quelle che dànno fiducia nell’umanità. Un sacco di gente mi ha scritto, inorgoglita, per esprimermi supporto, dando un significato a questa iniziativa che combacia esattamente con il mio. È un fatto che mi motiva ancora di più a fare le cose, e a raccontarvele.
Le donazioni hanno superato ogni attesa, 3557€, che saranno sufficienti a ripagarmi non solo il viaggio, ma anche molto tempo lì. Se ne avanzeranno, li userò per comprare quello di cui il campo ha bisogno.
Anche le persone che hanno risposto alla raccolta di oggetti e alimenti sono state molte, e riuscirò a riempire la macchina di cose che a Katsika sono necessarie. Raccoglierò tutto fra oggi e venerdì, fra Roma e Brindisi, e se qualcuno avesse ancora qualcosa da dare (dopo aver consultato la lista) mi contatti all’indirizzo email scritto qui accanto.
Una persona mi ha contattato parlandomi del suo progetto, concreto, di mandare dei furgoni di generi di prima necessità nel campo: ovviamente vi aggiornerò su come si sviluppa il progetto.
Chi segue da tempo questo blog ricorderà il mio DiariodallaPalestina, che era anche l’esperienza per la quale l’avevo aperto: distanti saluti, si chiama così per quello. Feci lì il volontario fra il 2008 e il 2009, lavorando con due gruppi di bambini provenienti dai tre campi profughi attorno a Betlemme, e raccontavo quotidianamente quello che mi succedeva (per chi volesse leggerlo, qui c’è un estratto di venti di quei racconti).
Successivamente ho fatto tante altre cose, alcune delle quali anche in qualche modo rilevanti, ma nel tempo mi sono sempre più reso conto che nessuna di queste mi rendeva soddisfatto del contributo che stavo dando. O almeno non quanto quell’esperienza in Palestina o le successive nell’Abruzzo post-terremoto e in Burkina Faso per combattere le mutilazioni genitali femminili.
Per questo ho deciso di tornare a fare l’unica cosa nella quale mi ero veramente sentito utile. La prossima settimana, il 15 aprile, partirò per Katsika, un campo profughi in Grecia dove arrivano persone in fuga dalla guerra. È in posti come questi che si vive l’emergenza quotidiana del gestire la vita d’ogni giorno di esseri umani che incontrano una nuova frontiera, dopo averne oltrepassate tante, a far loro da ostacolo. In questo momento a Katsika ci sono più di mille persone, ma molte ne vanno e molte ne vengono ogni settimana.
Quello che andrò a fare lì, assieme a Olvidados, l’Ong che lavora nel campo, è quello che si fa in una situazione d’emergenza come quella: tutto. Dal distribuire cibo e pannolini, al verificare le necessità in ogni tenda, qualunque cosa di cui ci sia bisogno. E c’è bisogno di molte cose, anche alle quali uno non penserebbe, ad esempio la possibilità di spostarsi indipendentemente: è fondamentale avere una macchina, tanto che chi non la porta l’affitta. Io andrò in macchina e ho pensato che sarebbe uno spreco andare con un veicolo mezzo vuoto: perciò se abitate fra Roma e Brindisi e volete inviare delle cose utili al campo (qui ho tradotto una lunga lista di ciò che serve a Katsika), contattatemi e vi farò da facchino d’eccezione.
Poi ci sono io. Se volete, c’è un modo per dare una mano a me nel realizzare questo progetto, ed è fare una donazione su questo conto [EDIT: grazie a tutti, chiudo la raccolta]. Al campo le giornate sono piene, si esce al mattino e si torna la sera, e questo sarebbe un modo per aiutarmi a ripagare le spese del viaggio, del traghetto, e della vita quotidiana lì. Non ho ancora definito una data di ritorno, perché dipenderà anche da quante delle spese riuscirò a coprire attraverso le donazioni: più riuscirò a raccogliere, più potrò rimanere a lavorare lì. È un’idea che ho da molto tempo, e non potendo permettermi di metterla in pratica da solo, ho deciso di chiedere a voi. Se volete un’idea per fare beneficienza, questo è un piccolo modo per farla, dando una mano attraverso le mie braccia.
Io riprenderò a fare quello che facevo dalla Palestina, e cioè scrivere un post ogni giorno o due, dove racconto le storie – in fondo raccontare storie è sempre stato quello che so fare meglio – delle persone che incontro, quelle che si trovano a vivere o passare per il campo, spesso aggiungendo delle foto. Spero sia un modo per restare vicino alle persone a me vicine, e anche alle altre.
Pensavo di essere favorevole all’utero in affitto: gli unici argomenti contro alla pratica che avevo ascoltato erano quelli che riguardavano lo “sfruttamento”. Sostantivo equivoco e che intende due cose: l’idea che una persona povera possa decidere di avere un “reddito da maternità”, e questa decisione sia influenzata da una costrizione economica. E quella che si preoccupa che, in alcuni Paesi con sistemi giuridici più labili, una donna sia fisicamente costretta a fare la madre seriale in affitto. Sono due preoccupazioni diversissime: la prima si risolve logicamente, la seconda è un’obiezione non sostanziale.
Chi parla di “costrizione economica”, ho l’impressione, non ha idea di cosa sia la povertà, o se l’è dimenticato. La povertà costringe a fare qualunque cosa, spesso cose peggiori di fare la madre in affitto, ed è sensato che a decidere quali siano le cose migliori o peggiori sia la donna stessa (e non lo Stato, per lei). Riconoscerete, è un discorso simile al medesimo argomento sulla prostituzione. Se pensate che il ricorso al reddito da maternità sia sgradevole e un effetto della povertà, fate bene a combattere contro la povertà, ma finché quella c’è, togliere un’opzione a una donna che domanda di poterne usufruire (denunciandone, in contumacia, lo sfruttamento) è non soltanto illogico, ma anche sessista.
Chi, invece, si preoccupa che in alcuni Paesi lo sfruttamento sarebbe reale, basato su costrizioni fisiche, ha buone ragioni per preoccuparsi, ma la soluzione sarebbe semplice: limitare la legalità della pratica ai Paesi nei quali si hanno sufficienti garanzie che ciò non succeda. Sia a livello giudiziario che esecutivo: potrebbe voler dire escludere Paesi anche importanti, come l’India, ma questa non è un’obiezione di principio. È una preoccupazione pratica che ha una soluzione.
Invece, approfondendo la questione con il mio amico Pietrino Cadoni, mi sono reso conto di essere impreparato a rispondere ai suoi dubbî sulla questione, spostando la mia valutazione dal «qual è il problema?» al «forse il problema c’è». I suoi dubbî sono riconducibili a tre filoni.
1) Certo che ci deve essere la libertà di affittare il proprio utero. Ma non è un uso subottimale di risorse? È enormemente laborioso farlo: espianto, fecondazione in vitro, reimpianto, etc. Costa tempo, dolore e denaro: tantissimo. Non è uno spreco, forse?
Quanto deve contare la volontà di una coppia di avere (metà) dei proprî geni? Nei fatti, con tutti i bambini senza genitori che ci sono, non dovrebbe essere fortissimamente incentivata l’adozione piuttosto che un processo simile? E se la risposta è che il processo di adozione è troppo difficile, magari la risposta è renderlo più facile (ovviamente parto dal presupposto che anche gli omosessuali debbano avere questo diritto). Trovo completamente sensato essere prudenti nel dare dei figli a delle famiglie, ma non dimentichiamoci che la cosa che succede alla larghissima parte dei bambini è di nascere e crescere in una famiglia scelta a caso. Forse dovrebbero, semplicemente, essere (molto) alleggerite le procedure per l’adozione?
2) Certamente i bravi genitori lo sono a prescindere dall’orientamento sessuale e tutta la letteratura scientifica lo indica. Ma nei primi mesi di vita il bambino non sta meglio con la madre che l’ha avuto in grembo? Stiamo creando una situazione obiettivamente peggiore. Ripeto, libertà assoluta, ma stiamo facendo danno al bambino; e non per rispettare la volontà della madre, ma per tornaconto economico e per il desiderio di prole di una coppia. Questa magari è una fesseria, ma proprio non so rispondere.
Questo (la prima parte) è un tema sul quale, semplicemente, non sono qualificato a rispondere. Ci sono sicuramente psicologi o sociologi dell’infanzia che hanno delle risposte più precise, e che invito a intervenire. Attenzione, però: non si tratta dell’obiezione, sciocca, secondo cui a un bambino servono madre e padre, ma del fatto che nei primi mesi di vita avere la madre (o una madre) possa essere un vantaggio. Come ho detto, non so quanto ciò sia vero (tenderei a dire di sì), ma se ciò è vero, bisognerebbe incentivare moltissimo l’adozione (anche coi metodi scritti qui sopra). La seconda parte, invece, mi preoccupa meno. Una cosa che però voglio rilevare è che questa sarebbe un’obiezione anche alla fecondazione eterologa e, al contrario, non lo sarebbe alla donazione di un seme maschile a una coppia di lesbiche.
Se si può pagare l’uovo, si può pagare il seme, l’espianto, l’impianto, l’uso dell’utero, allora dobbiamo logicamente rendere oggetto di compravendita il prodotto finale. Cioè il bambino. Magari è un modo per farne nascere di più, tipo pacchetto all inclusive. Ma a quel punto dei bambini che abbiamo già, pronti, che ne facciamo? Li vendiamo?
Penso sia un buon argomento, con il solo caveat che alla domanda “ma se io sono d’accordo con questo, devo necessariamente essere d’accordo con quest’altro” si risponde logicamente con “allora sono d’accordo con entrambi”, altrimenti è una slippery slope. In quale momento l’acquisto di un essere umano diventa schiavitù? Finisce per essere una questione bioetica: quando ha coscienza? Quando ha cognizione del dolore? Quando è partorito? Ciascuna di queste riposte complica enormemente la possibilità di fare una legislazione coerente.
Insomma, non credo che queste siano opinioni conclusive, ma credo siano ottimi elementi di riflessione su un tema sul quale – sarà probabilmente evidente – avevo ragionato meno che su altri, spero che non siano utili solo a me.
L’unica tradizione di questo blog, come ogni anno, il post di San Valentino.
Tanti auguri.
Agli unici innamorati al mondo che non possono permettersi di non sopportare questa festa. Che non hanno il diritto di sogghignare dei lucchetti a Ponte Milvio o farsi venire l’urticaria per le strade tappezzate di cuori di peluche rossi. Di ridere delle scritte per terra, o di considerare kitsch le scatole di cioccolatini a forma di cuore.
In Arabia Saudita, e in tanti altri posti del mondo, festeggiare San Valentino è vietato dalla legge. Ti viene a prendere la polizia per l’imposizione della virtù e l’interdizione del vizio. Non è una parodia, si chiama veramente così. Perché amarsi è un’idea occidentale.
A tutti coloro per i quali volersi bene è – necessariamente – un atto rivoluzionario, a loro, buon San Valentino.
Omofobia è una brutta parola, perché decide che l’unica fonte d’odio per gli omosessuali è la paura deliberata (-fobia). In realtà il disprezzo per gli omosessuali ha molte forme: la repulsione, l’odio diretto, l’ignoranza schietta, il conformismo che ride del diverso, e in generale un approccio acritico, che non si domanda davvero che bene o male possa fare un omosessuale, ma si affida a quello che ne pensa l’ambiente che si ha attorno. E l’ambiente è spesso maschilista, banale, ferocemente canonico.
Per questo è difficile ragionare su come sia giusto rapportarsi a Sarri, che è semplicemente il prodotto di una mentalità: Sarri, ovviamente e al contrario di come ho letto, non voleva offendere la comunità omosessuale, né voleva suggerire che Mancini fosse davvero omosessuale. Sarri appartiene a un ambiente, e più in generale una cultura, dove l’impiego della parola “frocio” è uno dei possibili insulti, e lo è perché è il contrario di essere “un vero uomo”, dove essere-un-vero-uomo è qualcosa di auspicabile.
E come si cambia un ambiente? Come si cambia una cultura? Molti fanno riferimento, anche in questo caso, al “modello inglese” – lo stesso Mancini ha detto che, in Inghilterra, Sarri verrebbe squalificato per due anni – ed è vero che nel calcio inglese c’è stata una rivoluzione di mentalità. A questa hanno contribuito più di tutto due storie: quella tragica di Justin Fashanu, e quella di Graeme Le Saux. Mentre la storia di Fashanu è stata spesso raccontata, quella di Le Saux è quasi del tutto sconosciuta, in Italia.
Graeme Le Saux è stato un terzino sinistro del Chelsea e di altre squadre inglesi: era considerato un grandissimo talento, che non ha pienamente corrisposto alle aspettative che si avevano su di lui, storia abbastanza comune. In Inghilterra, però, è conosciuto per un altro fatto: per tutti gli anni 90 è stato dileggiato, irriso, preso in giro e accusato di essere omosessuale, una vicenda che tutti gli spogliatoi, tutti i talk show, e tutte le tifoserie conoscevano e – a modo loro – sfruttavano. Incidentalmente, Graeme Le Saux non è omosessuale: il che dovrebbe essere un dettaglio irrilevante. Le Saux ha raccontato la propria vicenda nella sua autobiografia: “non sono gay, e non lo sono mai stato, ma sono diventato vittima dell’ultimo tabù del calcio inglese”.
In un passaggio titolato giornalisticamente dal Times “Come l’accusa di essere omosessuale ha rovinato la mia carriera”, racconta la classica pressione all’omologazione che c’era nello spogliatoio e il sillogismo strano=omosessuale: “Siccome avevo interessi diversi, siccome non mi sentivo a mio agio nella cameratesca e machista cultura dell’alcol che era dominante nel calcio inglese di fine anni 80, fu dato per scontato dai miei compagni di squadra che in me c’era qualcosa di sbagliato. Ne seguì, naturalmente, che dovevo essere gay”.
Tutto cominciò nell’estate del 1991, quando Le Saux era un ragazzo appena uscito dalle giovanili. Durante quella stagione aveva fatto amicizia con un compagno di squadra (per di più nero, del Suriname) chiamato Ken Monkou e avevano fatto un viaggio assieme. Al ritorno dalle vacanze, i compagni gli avevano chiesto delle proprie vacanze e Le Saux aveva raccontato del viaggio. Da questo banale episodio cominciò a diffondersi nello spogliatoio la battuta su “Le Saux che va in campeggio con Monkou”. Risate.
La battuta da spogliatoio fu replicata. Le Saux stesso dice che, al tempo, era un ragazzo sensibile alle offese e piuttosto ingenuo e prendeva le cose più seriamente di quanto avrebbe dovuto, e anziché ridere delle prese in giro – come la cultura da spogliatoio gli richiedeva – reagiva e protestava. Non so quanto non reagire l’avrebbe aiutato, perché è una situazione senza via d’uscita: se non reagisci all’accusa vuol dire che quell’accusa è veritiera; se reagisci, è perché hai qualcosa da nascondere. In entrambi i casi è “vedi, ti ho fatto tana”. Nei fatti, sei spacciato.
Le Saux ha detto che nei momenti peggiori, periodi simili alla depressione, ha pensato seriamente di smettere di giocare. Non avremmo visto questo pallonetto a niente meno che Peter Schmeichel
Un altro fattore che confermava i pregiudizî dei compagni sulla sua stranezza, e quindi sulla sua omosessualità, era che Le Saux leggesse il Guardian, un quotidiano generalista, e per di più di sinistra e con un’aura intellettuale. Una volta Andy Townsend, un compagno di squadra, lo vide leggere il giornale, glielo prese dicendo di voler leggerlo, e dopo un paio di secondi glielo rilanciò a terra dicendogli «ma non c’è un cazzo di sport qui dentro!». Il resto della squadra scoppiò a ridere.
“Tutto quello che facevo veniva usato come prova che fossi omosessuale: come mi vestivo, la musica che ascoltavo, il fatto che andassi alle mostre, I giornali che leggevo, erano tutti indizî che andavano a confermare il loro pregiudizio sulla mia sessualità”.
Le Saux diventò oggetto di prese in giro giornaliere, e con la fama le cose peggiorarono. “In quei giorni, se qualcuno pensava che tu fossi anche solo un poco effemminato, eri nei casini”. Il pettegolezzo si diffuse agli allenatori, alla società, e a settembre “quello che più temevo si concretizzò”. Durante una partita col West Ham, il tifosi avversarî cominciarono a cantare sul motivo di Go West “Le Saux, takes it up the arse” (Le Saux lo prende nel culo). “Pensai: o mio Dio, è finita. Sapevo che da quel momento in poi i tifosi di qualunque squadra mi avrebbero rovinato la vita”.
Il coro divenne una costante. Se c’era un momento di vuoto nella partita, se non c’era un gol, un’azione o un altro canto da fare, quel coro era l’opzione di riserva. Quella sempre a disposizione. Da questo, dice Le Saux, capisci molto della mentalità delle masse: se la partita comincia male, dirigono la loro rabbia e frustrazione verso di te. “La varietà degli insulti che la gente indirizza agli omosessuali diventò la materia nella quale sono specializzato”.
“Provai a prevenirlo facendo il macho – pensate che vita miserabile deve essere, cercare di manifestarsi come macho in ogni cosa che si fa in campo – la cosa peggiore era quando andavo a battere un calcio d’angolo, e vedevo le persone a pochi metri da me, gente livida di rabbia che mi urlava insulti”. Un episodio che lo colpì molto accadde ad Anfield Road: andò a battere un fallo laterale e vide a pochi metri di distanza un bambino di non più di dieci anni che gli gridava «frocio, lo prendi nel culo!», con il padre del bambino che anziché sgridarlo si associò a lui negli insulti.
Le Saux che fa il macho, qui una rissa in campo con il suo compagno di squadra David Batty
E ovviamente cominciarono i giocatori avversarî: un caso eclatante fu quello di Paul Ince, con cui Le Saux aveva sempre avuto un bel rapporto. Durante una partita, Ince aveva provocato varie volte Le Saux con il solito insulto – “frocio, frocio!” – e dopo avergli fatto un fallo, con Le Saux a terra, gli disse: «alzati, signorina, non ti sei fatta nulla». A quel punto Le Saux rispose con un insulto alla moglie di Ince. Questi impazzì, per tutto il resto della partita provo a spezzargli una gamba, e sulla via degli spogliatoi gli tirò un cazzotto. “Voleva ammazzarmi”, dice Le Saux aggiungendo di non essere orgoglioso dell’insulto alla moglie di Ince, ma “volevo fargli provare un po’ della stessa moneta”.
In tutto questo c’era un dilemma piuttosto ovvio, e cioè che smentire le accuse, rispondere gli insulti, lo mettevano in una situazione davvero complicata: era difficile continuare a negare, con sempre più forza, di essere omosessuale, senza essere irrispettosi nei confronti degli omosessuali stessi. “Mi sono domandato se fosse diffamatorio essere chiamato omosessuale dato che non lo ero”, dice Le Saux, in una domanda che riecheggia la sciocca attenuante data a Sarri sulla non omosessualità di Mancini. “Ma nel calcio penso che lo sia, perché uno si deve difendere: ammettere di essere gay può voler dire la fine della tua carriera”, nessuna squadra ti cerca più, nessun allenatore ti vuole più in squadra perché pensa che potresti creare problemi allo spogliatoio. “È un atto d’accusa per il calcio, ma è così”.
Il più bel gol di Le Saux con la maglia della Nazionale
Il culmine della vicenda capitò in una partita contro il Liverpool. Robbie Fowler, attaccante noto per le sue trovate, fece un fallo su Le Saux, seguito dal solito “alzati ricchione”. Poi si piegò con il sedere verso Le Saux come a dirgli “vieni, vieni, è per te”. Il guardalinee aveva visto tutto, e Le Saux andò da lui a chiedergli cosa pensasse di fare. “Vidi su di lui uno sguardo di una persona nel panico”. Quando Le Saux disse che non avrebbe ripreso a giocare se la terna arbitrale non avesse preso provvedimenti, l’arbitro ammonì Le Saux stesso per perdita di tempo. Le Saux dice che quella fu un’occasione in cui il calcio avrebbe potuto prendere una posizione: se l’arbitro avesse espulso Fowler, tutto il sistema calcio si sarebbe dovuto confrontare con il problema che aveva. “Forse avrei dovuto rifiutarmi comunque di battere se non lo avesse espulso, e così venire espulso io, ma non mi andava di diventare un martire della causa”.
Fowler continuò con lo stesso gesto nel corso di tutta la partita, quindi Le Saux andò da lui e gli disse: «Robbie, c’è la mia famiglia sugli spalti». Fowler rispose: «anche Elton John era sposato!» o «sticazzi della tua famiglia», a seconda di quale delle due versioni si ascolta. A quel punto Le Saux non ci vide più, e, a palla lontana, tirò una gomitata sul viso a Fowler. Qualche settimana dopo Fowler ne fece un’altra delle sue, e dopo un gol andò a sniffare una riga del campo, come fosse cocaina: la cosa curiosa è che lo fece per smentire e prendere in giro le voci e calunnie che lo accusavano di essere cocainomane, proprio come voci e calunnie erano quelle che avevano armato il suo comportamento nei confronti di Le Saux. Ma né lui, né Ince (insultato più volte per il colore della pelle) si resero conto della similitudine. Il paradosso, dice Le Saux, fu che la federazione diede a Fowler una punizione molto peggiore per quello che era solo uno scherzo, che non insultava nessuno, che non per il suo atteggiamento nei confronti di Le Saux.
Uno dei gesti di Fowler, e la gomitata di Le Saux
Da quel momento, comunque, i cori cominciarono a diventare meno arrabbiati e a rarefarsi. Era scaturito un dibattito, sulla puerile crudeltà di quel trattamento. Anche Le Saux cominciò viverla più serenamente: “quello che Robbie aveva fatto era sempre stata la mia più terribile paura, ora che era successo, non c’era nulla di peggio che poteva capitarmi”. Quasi a fine carriera, le cose per Le Saux migliorarono, “Comunque, sentii una sensazione di grande sollievo quando mi ritirai”.
Indipendentemente dal fatto che la federazione inglese non prese dei provvedimenti serî, questa vicenda segnò un’evoluzione della consapevolezza del problema del rifiuto dell’omosessualità nel calcio. Si aprì un dibattito, e la sola manifestazione del problema, ignorato per la gran parte da tutti, servì a confrontarcisi e trovarne soluzioni. Naturalmente l’Inghilterra non è il paradiso: il disprezzo per gli omosessuali non è sparito, come non è risolto il problema del razzismo; ma è nota qual è la linea collettiva, quale il pensiero comune e ufficiale, quale l’aspettativa dei media, ed è di ferma condanna per un comportamento simile.
Oggi Graeme Le Saux lavora per la FA, la federazione inglese, ed è parte dell'”Inclusion Advisory Board”, cioè è membro del direttivo che suggerisce quali siano i metodi migliori per favorire l’inclusione delle diversità nel calcio. L’Inclusion Advisory Board è una di quelle istituzioni le cui iniziative sono criticate da molti come inutili, o di mera immagine, ma che per lo meno testimoniano l’impegno e la direzione che la federazione vuole dare. È la dimostrazione che c’è stato un cambio di mentalità, e che questo cambio di mentalità è arrivato fino alle sedi federali.
Per questo il problema non è Sarri o Fowler. Loro sono solamente la manifestazione del problema. Nei fatti non si può chiedere a tutti i calciatori di essere come Le Saux, un giocatore con uno spirito critico fuori del normale. La cultura di dileggio degli omosessuali che ha respirato negli spogliatoi fin da bambino, ha plasmato il comportamento di Fowler, che è sempre stato un calciatore un po’ più sguaiato degli altri, e nel comportarsi in quel modo, ha semplicemente spinto un po’ più in là il comportamento che tutti consideravano accettabile nei confronti di Le Saux. Per ironia della sorte, il suo farlo in maniera così eclatante ha permesso a tutti di discutere e di modificare quella cultura cosicché i giocatori che vengono formati oggi imparino a non fare gli stessi errori che ha fatto Fowler.
Per conto proprio, un paio di anni fa, Fowler hascritto su Twitter: “Continuano a dirmene per una cosa che è successa quand’ero un ragazzino, ingenuo e immaturo. Ho chiesto scusa a Graeme Le Saux e lui ha accettato. Ovviamente sono imbarazzato se mi guardo indietro, ma purtroppo non posso cambiare quello che è successo. Si impara dagli errori crescendo, e io ho imparato”.