Nel frattempo, a Gaza

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Una mia amica sta lavorando in Palestina per un’ONG internazionale e ogni tanto mi racconta come vanno le cose, visto che oramai manco da più di un anno. In più, essendo una femmina, mi racconta delle vessazioni subite dalle donne – il tema che più mi stava a cuore – da una prospettiva più inserita. Sempre la stessa storia, naturalmente: camminare per strada significa subire occhiate, commenti osceni, qualche volta vere aggressioni. A quelli della solita sciocchezza sul “ma anche in Italia” bisognerebbe portarceli, per vedere quanto la situazione sia drammaticamente più terribile. E, naturalmente, è sempre colpa delle donne: se non indossi un anello vuol dire che non sei sposata, colpa tua che non l’hai fatto se ti molestano. Se in un taxi collettivo sali accanto al guidatore, quello si sente autorizzato a provare a palparti, e naturalmente la colpa sarà tua: «ti sei seduta davanti?!?».

In questi giorni la mia amica è a Gaza, e mi ha raccontato di com’è la vita nella Striscia abbandonata ad Hamas: le ispezioni all’entrata, per fare fuori alcol e maiale, la possibilità di essere arrestati e pestati se si cammina con una donna non “propria”. Appunto: la situazione ancora peggiore per le donne, i racconti delle ragazze sposatesi giovanissime per poi essere rinchiuse nel Niqab dai mariti. Tante storie a cui, da donna, può avere accesso e che nei miei confronti filtravano soltanto dopo diversi mesi di confidenza.

Inoltre mi ha raccontato, lontano dall’attenzione e dagli annunci di questo ennesimo – inutile – processo di pace da cui Gaza è esclusa, del clima di minacce e ricatto che la leadership politica di Hamas impone alle organizzazioni che lavorano lì. Niente di diverso da una dittatura, a cui le ONG non fanno altro che rispondere con l’appeasement. L’ultima ONG a essere chiusa è stata Sharek, per la mancata segregazione sessuale – la stessa ragione per cui venne chiusa Emergency dai talebani – e il rifiuto di far entrare membri di Hamas nel direttivo. Era un’organizzazione che lavorava con 65.000 bambini palestinesi, ma per i dogmatisti religiosi è chiaramente più importante l’oppressione delle donne, attraverso l’applicazione della legge islamica. Un giorno ci dovremo sedere a tavolino per metterci d’accordo su cosa voglia dire volere bene alle altre persone. Perché se “volere bene” ha anche un barlume di significato che trascenda l’ora e qui, quello che succede alle donne palestinesi – e, in genere, a molte donne nel mondo mussulmano – non lo è.

Tutte le altre organizzazioni sono ridotte al silenzio, una denuncia equivale a ricevere lo stesso trattamento e dover chiudere baracca e burattini. Così tutti stanno zitti, nessuno parla, chi può si rifugia nella definizione di “humanitarian” anziché “human rights”, e quelli che ne pagheranno il conto saranno i posteri; noi, che fra vent’anni dovremo confrontarci con una generazione cresciuta a pane (poco) e odio per le donne (tanto).