Vittorio Arrigoni era un loro nemico

Ero ancora sveglio quando si è saputo di Arrigoni e mi sono messo a scrivere.
Questo è quello che ne è venuto fuori la mattina dopo. Pubblicato ieri sul Post.

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È notte, a Gaza è ancora più notte, e ho appena ricevuto la notizia dell’assassinio di Vittorio Arrigoni. Probabilmente ci avrei litigato tutta una sera parlando di Palestina davanti a uno knafe, e sono ora qui con gli occhi gonfi. Riesco a pensare soltanto “non ci posso credere”, anche tutte le persone che conoscevo giù in Palestina scrivono o dicono la stessa cosa: “non ci posso credere”.

Inutile nasconderlo, mi sono domandato: “poteva capitare a me?”. Quando sei lì ci scherzi sempre su, è una cosa alla quale capita di pensare – insieme agli altri volontarî – ma che non prendi mai sul serio: «la Palestina è il posto più sicuro al mondo: c’è un soldato a ogni incrocio!». E poi, senza crederci per davvero: «i Territorî Occupati non sono Gaza, è lì che rapiscono la gente». E invece l’hanno rapito per davvero, e l’hanno ammazzato.

La notizia me l’ha data un’amica che ha lavorato a Gaza e ora collabora con le Nazioni Unite in Egitto. Con lei abbiamo il macabro rito di sentirci ogni volta che in quella terra maledetta succede qualche disastro: qualche notte fa mi ha chiamato in lacrime dopo aver letto dell’uccisione di Juliano Mer Khamis. La sua incredulità è stata ancora più caustica e scoraggiata: «non ci posso credere. Vittorio Arrigoni. Cioè, ma uccidete uno di noi dell’Onu semmai», mi ha detto. È il modo disperato di provare a entrare nella mente di questi farabutti, di provare a misurare la realtà con il loro metro pazzoide, per appigliarsi anche al più piccolo barlume di spiegazione razionale.

Arrigoni non era uno spirito libero. Era devoto anima e corpo – e mai così tanto il suo corpo era lì – alla sua precisa idea di lotta per la liberazione della gente in Palestina. Era la più pro-palestinese e la più anti-israeliana delle voci che si potessero ascoltare sul Medio Oriente. Non è bastato questo bagaglio di verità ideologiche, pregiudizî che non gli ho mai scusato, ad acquietare questi assassini. L’infame sorte, come era stata quella di Angelo Frammartino, di morire per mano di coloro per cui stai provando a lavorare – forse la cosa più vicina all’essere un martire, uno shahid – rende questa morte ancora più straziante e assurda.

Per questo ci sono già i soliti rintronati che gridano al complotto sionista – deve essere stato il Mossad: niente di quello che Arrigoni faceva, scriveva, diceva, poteva suggerirlo come bersaglio. Ma queste canaglie non ci odiano per quello che facciamo, scriviamo o diciamo. Ci odiano per quello che siamo. Vittorio Arrigoni corrompeva con i suoi “vizî occidentali” la gioventù mussulmana, e veniva dall’Italia, un “Paese infedele”. Non c’è niente di più simile al razzismo: l’odio nei confronti dell’altro non per quello che fa, né per quello che pensa, ma per ciò che è.

Mi è tornato in mente il racconto di un medico della Croce Rossa sulla morte di un suo collega in Afghanistan. Il medico era stato rapito da un gruppo islamista che voleva uccidere tutti gli stranieri. Una volta portato davanti al capo, però, c’era stata un’epifania: questi aveva visto lo stemma e si era ricordato che alcuni medici della Croce Rossa gli avevano salvato la vita da bambino. Purtroppo non era bastato, Dio voleva la morte di qualunque straniero, e Dio era più importante di qualunque fetta d’umanità. L’incapacità di rimanere umani, avrebbe detto Arrigoni.

In questo sordido esito di sangue c’è una sorta di comunione laica che anche coloro che non erano d’accordo con una sola parola di quelle che scriveva Arrigoni – e io non ne condividevo molte – devono riconoscere. Gli islamisti che avevano rapito Arrigoni hanno dato il loro verdetto. È un verdetto che ha a che fare con il riconoscere che il mondo non si divide in sfruttati e sfruttatori. Che c’è chi odia l’Occidente quale che siano le cose che i suoi cittadini fanno. Persone che ce l’hanno con noi, tutti, indipendentemente dalle nostre azioni. E persone che hanno detto chiaramente una cosa semplice: che Vittorio Arrigoni era un loro nemico. Noi lo sapevamo, ricordiamocelo oggi.

Arrigoni e i buoni

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Vittorio Arrigoni è stato rapito a Gaza da un gruppo salafita che lo accusa di corrompere – con i suoi “vizî occidentali” – la gioventù mussulmana. In un’incredibile gara a essere il più puro – e c’è sempre uno più puro che ti epura, diceva Nenni – anche Hamas è sul banco degli imputati per eccessivo filo-occidentalismo.

In questa faccenda spaventosa, il video di Arrigoni insanguinato è agghiacciante, c’è una cosa che non si potrà dire di Arrigoni – come invece si disse delle “due Simone” o di Mastrogiacomo – è che “se la sia cercata”. Anzi, quello che è successo dovrebbe zittire una volta per tutte coloro che usano questa espressione orribile.

Arrigoni è sempre stato la voce più pregiudizialmente contraria a Israele, di predilezione dei palestinesi a senso unico. Conobbi il suo blog e le cose che scriveva nel dicembre del 2008, quando Israele attaccò Gaza: io ero a Betlemme, ben lontano dai bombardamenti, ma raccontavo un po’ le reazioni dei palestinesi a quelle vicende. Più d’una volta, nei miei mesi lì in cui tentavo di mantenere l’equilibrio, qualche lettore mi scriveva per dirmi che “non ero come Arrigoni”. Intendeva dire che criticavo gli israeliani, ma anche i palestinesi quando c’era bisogno. Arrigoni, insomma, doveva essere l’ultimo nella lista di questi farabutti.

E invece no.  Perché quella gente lì – gli islamisti – ci odia per quello che siamo, non per quello che facciamo.

È per questo che tutti, anche coloro che non condividevano una sola parola di quelle che Arrigoni scriveva, hanno il dovere di sperare che questa situazione si risolva per il meglio, come se nelle mani dei rapitori ci fosse la persona di cui più condividono ogni idea. Perché queste canaglie ce l’hanno ricordato: noi siamo i buoni.