Le bombe di Boston, il ragazzo saudita, e un po’ di buon senso

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C’è questa storia del ragazzo saudita che si trova “nel posto sbagliato, al momento sbagliato”, e cioè alla maratona di Boston, nei secondi successivi alle esplosioni delle due bombe. Scappa, come fanno tutti. È ferito. È anche più sveglio degli altri: ha capito che le bombe sono state due, mentre le persone lì attorno pensano sia stata una sola. Questo fa insospettire qualcuno. Così la polizia, dopo averlo portato in ospedale, lo interroga. Intanto, un’altra squadra perquisisce la casa in cui vive con alcuni coinquilini, e fa delle domande anche a loro. Tutto questo solo perché è saudita. Scandalo. Gli americani sono razzisti. Il colore della pelle, eccetera.

Dovevano interrogare mia nonna. No, dico sul serio. Mia nonna vive a Boston. Non era alla maratona (per fortuna), ma fosse stata lì avrebbe dovuto suscitare gli stessi sospetti nella polizia rispetto al ragazzo, no? Perché del resto c’è la stessa possibilità che un’anziana signora di novantanni piazzi delle bombe a un evento pubblico rispetto a un ragazzo saudita? Se, a questa domanda, rispondete «sì», allora viviamo in due mondi diversi, e a me piacerebbe vivere nel vostro. Se, però, rispondete «no», com’è ovvio rispondere, allora è naturale conseguenza che la polizia si concentri sulle piste più sensate.

Il tutto, ovviamente, senza ledere alcun diritto della persone sospettate, ma è una posizione ottusa e ideologica sostenere che qualunque crimine ha le stesse possibilità di essere commesso da chiunque. Perché io, Giovanni, sono ben più sospettabile di mia nonna. E se la polizia interroga mia nonna, anziché interrogare me, non perde soltanto del tempo ma mette a repentaglio la vita delle persone che dovrebbe proteggere. E infatti non si comportano così, per fortuna.