“Era meglio farmi i cazzi mia”

Un mio amico, leggendo una bozza di questo post, mi ha detto che il titolo giusto sarebbe “La fatica di essere buoni”. Un altro mi ha detto, per scherzo, “metti ‘era meglio farmi i cazzi mia'”. Siccome, soprattutto qui, preferisco il dark humour alla seriosità, e questo post è bello pesante già di suo, vado orgogliosamente per il secondo consiglio.

Penso di correre seriamente il rischio di fare questa fine. Lo penso da un po’, ma gradualmente questo rischio si è fatto più concreto, fino al punto di dire “non ce la faccio più”.

Il problema è che tutte le altre persone che fanno o hanno fatto Second Tree ogni giorno sono nella stessa condizione. Per questo c’è il rischio vero, presente e quasi immediato che la cosa più significativa e – lo dico – utile che abbia mai fatto in vita mia finisca.

Insomma, questo è il post in cui racconto la storia di una persona che lavora da quasi quattro anni nei campi profughi e si è quasi bruciato cervello, corpo e cuore.

Questo post è una cosa espressiva per me, oltre che un tentativo di mettere in ordine le mie idee, ma anche una richiesta d’aiuto.

Katsikas, dove tutto è cominciato

DARSI DA FARE

Io – rintronato come sono – non sono stato in grado di fare una lista delle cose che faccio, quindi James mi ha seguito per due settimane ed è venuto fuori con una tasklist di 86 ore di lavoro a settimana, fra parlare con ministeri e altre organizzazioni, raccogliere fondi o intervistare potenziali volontarî, andare al campo o scrivere un progetto. La stima è una stima e sarà imprecisa, ma non di tanto, e le altre persone che sono qui in Grecia da tanto tempo sono in situazioni simili.

Il problema è che abbiamo creato una cosa che non esiste altrove, e ci sono buone ragioni per le quali non esiste.

Alcune delle cose che Second Tree fa, nel rapportarsi alle persone che vivono nei campi profughi,sono cose che tutti dicono di fare, ma pochi altri fanno; altre sono cose che pochi altri dicono di fare, perché sono semplicemente diverse.

Il perché le prime richiedano un surplus di impegno, sacrificio e dedizione è molto facile da capire: si tratta di essere presenti, affidabili, disponibili; fare sempre quello che si promette di fare, anche in caso di emergenze. Essere i primi punti di contatto e i primi ascoltatori e solutori di problemi, anche se questi accadono alle 4 di notte, o di domenica. Ma il punto non è lavorare il weekend o dopo le 5, per quello si possono fare i turni, il punto è fare le cose per bene. Molto per bene.

Il perché le seconde, quelle che nessuno dice di fare o fa, richiedano lo stesso surplus è più difficile da dire. Si tratta di considerare le persone che vivono nei campi profughi come esseri umani con i quali si può essere in disaccordo, con cui si può interagire allo stesso livello, con cui si può scherzare e dialogare. Non bambinoni da accudire, ma persone con opinioni, talenti, ottusità, rabbie, empatie, come tutti gli altri. Non concepire l’approcciarsi a un profugo come un’operazione di disinnesco o un esercizio protezione. È molto difficile, e per questo richiede impegno sacrificio e dedizione quotidiani, e infatti non lo fa nessuno.

I risultati si vedono: quando nei campi profughi ci sono gli scioperi dei residenti contro le ONG, Second Tree è esentata. A noi ci fanno entrare. E non perché siamo bonaccioni, o stiamo sempre dalla parte dei profughi, siamo anzi i più severi di tutti quando qualcuno fa una cazzata. Ma per il rispetto nei confronti di ciò che facciamo, del come lo facciamo, e del perché lo facciamo.

Magari un’altra volta scrivo un post su questo, su questa differenza di metodo. Ci sono persone che lavorano nel settore umanitario da anni e hanno conosciuto decine di realtà diverse, e che quando sono venute a vedere quello che facciamo hanno detto «io una cosa così non l’ho mai vista» . Vorrei scrivere un articolo accademico su questo, su come il modello Second Tree andrebbe diffuso negli altri contesti, ma chi trova il tempo? (Però ci proverò!)

Solo negli ultimi 5 giorni – ed è un esempio piuttosto routinario, delle lotte quotidiane – abbiamo rischiato per tre volte di perdere lo spazio in cui facciamo le nostre attività in due dei tre campi in cui lavoriamo, è c’è stato bisogno di uno stremante sforzo diplomatico per scongiurare il pericolo (per quanto?). Ovviamente l’alternativa sarebbe di dire: beh, ma cosa importa?, sospendiamo le attività fino a quando non troveremo uno spazio, come fanno in molti, ma questo vuol dire tradire le persone alle quali diamo il primo barlume di stabilità, di ascolto, di speranza per il futuro.

Il messaggio che ha scritto Lucas dopo il meeting in cui abbiamo parlato della possibile chiusura di Second Tree

PERSONE

L’unico modo per riuscire a fare queste cose è trovare delle persone intelligenti, capaci e soprattuto disposte a stare a lungo e imparare. Ovviamente più persone ci sono, più ci si divide il lavoro. Perché le cose più importanti, quelle che bisogna proprio fare, non possono essere affidate ai 15-20 volontarî che sono con noi per tre mesi, perché quei tre mesi ci vogliono tutti solo per imparare a farle.

Quello che dico sempre è che Second Tree è un’opportunità molto, molto, molto, grande per un numero molto, molto, molto limitato di persone. Non sono molte le persone che abbiano voglia di darsi da fare per aiutare gli altri, senza un vero ritorno economico, ma per la soddisfazione che dà. Però per queste poche persone, l’opportunità di accedere alla gestione e al potere decisionale di un’organizzazione che con successo fa del bene e lo fa bene non capita tutti i giorni.

Il problema è che queste persone non le abbiamo trovate. O non ne abbiamo trovate abbastanza per assicurare un buon turnover che includa anche noi. Con alcuni, forse, avevamo capito male noi; altri hanno cambiato idea; altri ancora hanno proprio mentito. E ovviamente tutte queste delusioni hanno acuito il senso di solitudine, e il senso d’impossibilità di trovare qualcuno, che ci ha portato – oggi – a pensare che probabilmente l’unica strada è chiudere.

A fronte di un gruppo di 5/6 persone che gestisce l’organizzazione sul lungo termine, e che nel tempo si sono consumate, ci sono soltanto 3 nuove leve, persone capaci e che hanno detto di aver voglia di stare almeno un anno. E se vogliamo scongiurare il rischio che anche queste persone facciano la nostra fine, dobbiamo averne di più, non di meno, così da avere la possibilità di spartirsi maggiormente il lavoro.

I “nostri” bimbi

SOLDI

E allora perché non le assumete, direte? Perché non mettete un annuncio? È questione di soldi? Sì e no. Il problema è che il livello di qualità e impegno di cui c’è bisogno per fare le cose bene, come le facciamo noi, è del tutto fuori mercato. Dina, la programme manager di Second Tree, nel suo lavoro precedente guadagnava 5000€ al mese, se ora prende un rimborso di 600€ vuol dire che non lo fa certo per i soldi.

Quindi, certo, se avessimo dieci milioni di euro potremmo investirne 5000€ al mese nell’assumere la crème degli humanitarian workers: ma 1) non avremo mai quei soldi; 2) anche se li avessimo non sarebbe il modo migliore per spenderli. Il piccolo rimborso che prendiamo (e che tra l’altro ci siamo autostabiliti assieme), serve a sopravvivere mentre diamo una mano. Se anche decidessimo di alzarlo un poco, al costo di fare meno cose, attireremmo persone che – legittimamente – sono interessate a quello, e quindi nel momento in cui ricevessero un’offerta da una grande e ricca organizzazione internazionale (come è successo a tutti noi nel giro di 3-6 mesi qui) accetterebbero.

Il segreto di Pulcinella, che tutti sanno nel mondo umanitario, è che le organizzazioni piccole e ben organizzate sono molto, molto più efficienti, serie e rispettose degli impegni oltre che estremamente più oculate col denaro che le grandi organizzazioni internazionali, quelle che uno – almeno io lo pensavo – si aspetterebbe essere più professionali. E questo non perché ai vertici delle organizzazioni internazionali ci siano persone meschine o sciocche, ci sono generalmente persone molto brave e volenterose che devono però lavorare con ciò che hanno. E con i (tanti) soldi che ricevono dai governi, sono costretti ad assumere per la maggior parte persone che non lo fanno per passione, che magari vengono da tutt’altro settore (lavorando come autista per una grande organizzazione internazionale guadagni più del doppio dello stipendio medio da autista), e questo considerarlo un lavoro come un altro si riflette nel lavoro che fanno. Se le grandi organizzazioni internazionali sono mediocri, è perché coi loro mezzi puntare alla mediocrità è l’unico modo che hanno di sopravvivere.

Insomma, non sto dicendo che sono tutti scemi o cattivi. Anzi, all’interno delle grandi organizzazioni internazionali si trovano sempre persone che si fanno in quattro per aiutarti ad avere un’autorizzazione o ti fanno un ordine di quaderni o cartucce per la stampante, così da farti risparmiare quel vitale centinaio di euro. Probabilmente se queste persone non fossero esistite, sulla nostra strada, Second Tree sarebbe già morta (anche per questo individuare queste persone e mantenere queste relazioni è parte dell’immensa mole di lavoro). Anzi, a giudicare da ciò che sto scrivendo, gli scemi siamo noi, visto che il nostro modello – a meno di non riuscire ad avere un bacino molto più grande di potenziali volenterosi – non può sopravvivere.

E non sto rivendicando che Second Tree sia pura e non compromessa col sistema, figuriamoci: facciamo le stesse richieste di autorizzazioni al ministero (siamo una delle uniche due organizzazioni di volontarî in Grecia ad avere ufficialmente accesso ai campi, il che ha ovviamente richiesto un sacco di lavoro diplomatico) e cerchiamo fondi e collaborazioni con quelle stesse organizzazioni, anche solo per piccole cose, come avere un passaggio per andare ai campi (altro lavoro da fare).

Zakia <3

COSA RIMANE

Stiamo provando a fare una cosa che non esiste, e probabilmente ci sono delle buone ragioni per le quali non esiste. Ed è per questa ragione che, visto che facciamo le cose in modo così particolare, l’unica maniera che una persona ha di rimanere a lungo termine è di venire e poi innamorarsi di quello che facciamo, è quello che è successo a tutti quelli che sono poi rimasti.

Mettere un annuncio per attirare persone, magari alzando un po’ il rimborso, non funzionerà: perché la mole di lavoro, l’impegno richiesto, i pochi soldi, sono evidenti a tutti; mentre la parte bella, quella che fa dire a tutti noi – come nel messaggio di Lucas – che questa è la cosa più significativa che avremmo mai potuto fare in vita nostra è nascosta, la puoi vedere soltanto se sei qui e vedi ogni giorno perché Second Tree, per il tipo di persone che siamo noi, vale molto di più di ogni altro lavoro, ed è una delle ragioni per le quali – stupidamente – non ci siamo resi conto di quanto questa bellissima cosa ci stesse mangiando.

Provare a ridurre la quantità di cose che facciamo non aiuterebbe, perché il problema non sono le attività sul campo, per le quali abbiamo un numero sempre sufficiente di volontarî che vengono per 3 mesi, bensì la struttura, lo sviluppo dei programmi, la raccolta fondi, il mantenimento e la gestione delle relazioni, e queste cambiano di molto poco all’aumentare o al diminuire delle attività che si fanno.

Il mio sogno sarebbe quello di stare 4 mesi all’anno in Grecia, 4 mesi all’anno a lavorare per Second Tree e per la causa dei profughi altrove (e ci sono tante cose da fare altrove), e 4 mesi all’anno di qualcosa di meno emotivamente e fisicamente sfinente (magari proprio scrivere quell’articolo accademico). Ma lo so, è un sogno. Purtroppo, però, a stare 12 mesi all’anno in Grecia non ce la faccio più. Cose simili le pensano tutti gli altri che sono qui da tempo.

La mia paura è che saremo costretti a chiudere Second Tree e, nei prossimi 10 anni, incontrerò per caso tante persone di quel tipo lì, quelle che mi diranno “ah, cavolo se solo avessi saputo, era proprio la cosa che avrei voluto fare, ma non ci conoscevamo”.

E questo descrive la paura più grande, e cioè non essere qui per Zakia e per le migliaia di persone come lei che vivono qui e che ci conoscono e conosciamo per nome, e sarebbero perse senza quello che facciamo. Non riesco neppure a immaginare il cuore che ci toccherebbe o toccherà avere per andarglielo a dire. E tutto questo, in buona parte, perché siamo stati sciocchi a non rendercene conto prima. Anche questo, in fondo, è un pensiero egoista. La domanda che mi brucia dentro continua a essere: potrò perdonarmelo?

Se avete qualcosa o qualcuno in mente, scrivetemi: distantisaluti2@gmail.com.