In morte di un blog (o forse no)

Mi ricordo, nei primi anni di questo blog, se non scrivevo almeno una volta al giorno mi sembrava mancare qualcosa. Non al ristretto ma affezionato pubblico (sono arrogante, ma non così tanto!), ma proprio a me. Ora, come ho visto, scrivo due post all’anno, e più per dovere che per desiderio.

Il paradosso è che quando un post l’ho scritto, sono contento di averlo scritto. Ma mettermi a scriverlo mi fa fatica, e un po’ mi angoscia. Non so bene perché, sicuramente è perché mi sento un po’ in colpa di non scrivere abbastanza, ma anche perché penso che dovrei scrivere qualcosa – un progetto, un’email, una richiesta di donazioni – per fare sì che Second Tree possa continuare il suo lavoro e quindi aiutare le persone che vivono nei campi qui.

In questo senso prendere una decisione “non scrivo più sul blog”, lo chiudo, mi darebbe un po’ di sollievo. La sensazione di inadeguatezza è ampliata dal fatto che diverse persone mi dicono che dovrei scrivere di più, e dovrei scrivere per Second Tree, dovrei usare di più quella parte di me, che analizza la realtà, che racconta storie. Hanno ragione. Ma questo aggraverebbe la questione perché, ovviamente, se scrivo di più per Second Tree scrivo di meno di me, di quello che vorrei scrivere io.

È diverso tempo, forse anni, che rimando questa questione. Ma ieri è successa un’altra cosa: ogni paio di mesi mando un’email alle persone che seguono Second Tree, e racconto quello che faccio e soprattutto quello che facciamo. Non è una vera newsletter, perché è più “mia”. Ma è sicuramente meno “mia” di questo blog. Stavolta mi hanno risposto in tanti, dicendomi: ma perché queste storie non le metti sul blog?

E quindi ci ho pensato. Non sarebbero tanti post, sei all’anno, ma sicuramente sarebbero cose che ad alcuni piacerebbe leggere. Potrebbero diventare presto anche di più, se decidessi davvero di mettermi a scrivere le storie delle persone che vivono qui. D’altra parte sarebbe mettere qui contenuti che non sono stati creati per questo blog e in qualche modo una distorsione di quello che questo blog ha sempre fatto, cioè raccontare quello che penso e quello che faccio, non quello che pensiamo e quello che facciamo. Anche perché ci sono tanti “noi” nella mia vita, e questo sarebbe soltanto uno, benché quello più importante.

Ho pensato di domandare cosa ne pensano ai pochi superstiti lettori di Distanti Saluti. Io vedo tre opzioni:
– A. Distanti Saluti chiude
– B. Distanti Saluti rimane così, trascurato ma vivo
– C. Distanti Saluti cambia e include altre cose meno personali
– D. Altre idee?

Mi rendo conto che non è una decisione che cambierà la vita a nessuno, ma mi piacerebbe sentire qualche opinione. Per una volta scrivete nei commenti anziché sui social network per non disperdere il feedback.

E un altro anno è andato

Oggi è di nuovo il mio compleanno, il tempo passa proprio in modo strano.

Me ne sono ricordato due giorni fa, quando Fatima mi ha detto: parto il 25 Marzo. Fatima è la figlia grande dell’ultima famiglia ad andare via da qui fra quelle che erano nel campo di Katsikas quando sono arrivato. Lei, il padre e i due fratellini vanno a ricongiungersi con la madre, Sakine, che vive da tempo in Svizzera. Ieri sera mi ha detto «sono 70% contenta, e 40% dispiaciuta di andare via». Il primo pensiero è stato che quella sovrabbondanza in spregio alla matematica fosse il risultato inevitabile della moltiplicazione delle identità che questi ragazzi – sospesi fra due e più mondi, fra due e più case (o tende, o container) – si trovano a dover vivere.

Poi mi sono ricordato chi è Fatima, di come l’ho vista crescere quasi ogni giorno dai 10 ai 13 anni e mi sono messo a ridere. Forse è il segno della mia vecchiaia, quello di cercare grandi significati palingenetici in ogni piccola sciocchezza. Poi mi sono ricordato chi sono io, di come ‘sta tendenza l’ho sempre avuta, concludendone che – insomma – non sono invecchiato: sono sempre stato vecchio.

Quindi chissenefrega del compleanno. Lo festeggerò andando ad accompagnarli al bus, che li porterà ad Atene, per poi volare a Zurigo, facendomi un bel pianto di commozione. Ieri, però, ho mantenuto una promessa che gli avevo fatto: per sdebitarmi delle tante cene afgane che nel tempo mi avevano offerto, l’ultima loro sera a Ioannina avrei cucinato qualcosa d’italiano. Ho fatto la carbonara vegetariana:

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Con questa partenza si è chiuso un capitolo. Quella dell’assistenza umanitaria a persone che sarebbero andate in altri Paesi. Le 3200 persone che sono oggi in Epiro non hanno diritto ad andare in altri Paesi europei: sono costretti a rimanere qui in Grecia (se sono fortunate e la loro richiesta d’asilo viene accettata). Tante cose sono cambiate.

E quindi come sto? L’anno scorso, per il mio compleanno, avevo scritto un post molto pensato, in cui raccontavo delle riflessioni che avevo maturato negli ultimi anni, della mia vita. Quest’anno di riflessioni non ne ho molte di più. Se devo rispondere alla domanda, come sto?, direi che sono stanco. Non stanco felice, stanco stressato.

Principalmente perché, per far sopravvivere Second Tree mantenendo la propria capacità di determinare come vogliamo aiutare, è tutta questione di soldi. Ovviamente, non dico nulla di rivoluzionario, è una considerazione così banale, quasi populista. Non è una cosa che stupisce, ma è una cosa che consuma: la qualità del proprio lavoro non c’entra nulla. Quante donazioni riceviamo (a proposito, se volete farmi un regalo, qui c’è la pagina delle donazioni), specie quelle grandi da enti o istituzioni, non dipende in alcun modo dall’impatto di quello che facciamo, o dalla qualità con cui lo facciamo, ma – se siamo fortunati – dalla bellezza della foto che l’accompagna, e – se siamo sfortunati – da cosa siamo disposti a fare per ottenerla.

Non dico nulla di nuovo, eh? Lo so. La cosa che stressa, però, è decidere quanto tempo – e riserve emotive – dedicargli. Second Tree non è stata creata a tavolino, ci siamo incontrati come volontarî  in un campo profughi, ci siamo riconosciuti come persone che hanno lo stesso obiettivo e sono abbastanza dediti a quell’obiettivo da darsi uno standard rigoroso di efficienza. Non abbiamo deciso: “tu fai strategia, tu fai le distribuzioni, tu scrivi i budget”. Siamo stati solo fortunati che tutti avevamo delle qualità complementari. Ma, ovviamente, ci sono dei buchi: non siamo esperti di fundraising o comunicazione.

E quindi tocca a qualcuno farlo. C’è sempre una tensione: cosa sono disposto a fare, eticamente, per fare sì che Second Tree stia in piedi. Ma anche, cosa sono disposto a sacrificare, umanamente. Andare a cena da Fatima ieri è stato il miglior uso del mio tempo? Probabilmente no. Certo, c’è un valore nell’essere vicini alla comunità con la quale lavoriamo, e un enorme valore nel rapporto che abbiamo costruito con loro negli anni, ma – se devo essere onesto – questa è fondamentalmente una spiegazione autocompiaciuta e autogiustificatoria. Se ieri sera avessi speso quelle tre ore scrivendo un progetto e presentandolo avrei contribuito al benessere potenziale di quelle persone molto più che cucinando e mangiando con loro. Ma cucinare e mangiare con loro mi fa stare bene.

Questa è la tensione che consuma. Scegliere quanto consumarsi. È facile dire “per aiutare gli altri devi prima aiutare te stesso”, ma cosa vuol dire aiutare gli altri?

Grandi domande, risposte banali. Continuo a pensare, come ho scritto l’anno scorso, di essere un privilegiato. Posso almeno avere la speranza di essere soddisfatto di quello che faccio ogni giorno. Tante persone non hanno neppure quella speranza. Però, certo, se la domanda è: sono soddisfatto? La risposta è probabilmente, “no”.

O, paradossalmente, sono soddisfatto quando vedo com’era Fatima tre anni fa e com’è ora. Se lo vedo coi miei occhi. Che è precisamente quello che ho appena detto non dovrebbe essere ciò che mi motiva e ciò che pratico quotidianamente. Eppure:

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Auguri Fatima, Nabi, Mehdi, Ali, Sakine. È il mio compleanno, ma è la vostra festa, e di tutte le persone che erano qui, quel 15 aprile del 2016, e ora sono sparse per l’Europa.

Pantani e il prato di aghi sotto al cielo

Pantani a VissaniOggi sono 15 anni che è morto Pantani, e quindi mi obbligo a raccontare una cosa che mi è successo qualche settimana fa, e che mi ha colpito molto.

Per traversie che non sto a raccontare, mi sono ritrovato nel paesino greco di Vissani, in cima alle montagne dell’Epiro, al confine con l’Albania e con la totale ruralità.

Wikipedia dice che Vissani ha 424 abitanti. Ben uno di questi è italiano, la signora Alessandra, che è mezza lombarda e mezza triestina e ha sposato un greco. Conosco il figlio, che lavora con i profughi anche lui, ed è un bravo ragazzo.

All’entrata del paesino di Vissani c’è una taverna, l’unica, che non è gestita da Vissani, ma dalla signora Alessandra. Ci ha seduti accanto al caminetto e ci ha offerto della “pastasciutta” – dove altro potrei trovare in Grecia qualcuno che dice pastasciutta? Io l’ho rifiutata perché, le ho detto, sarei tornato in Italia qualche giorno dopo per Natale; a quel punto, quasi come si fosse ricordata in quel momento che fossi italiano anche io, mi ha detto «vieni».

E mi ha portato in questo angolo della taverna, in cui sopra alle mensole che ospitano gli Amaretti di Saronno e i Campari c’è una cornice con una foto di Pantani. «Me l’hanno portata i suoi genitori, un anno dopo, perché erano qui quando è morto». Io sono sobbalzato. «Come erano qui?». «Sissì, Pantani è venuto qui anche lui, a caccia con i suoi genitori. Venivano con il camper da casa loro, per rilassarsi». Volevo farle altre domande, ma non sapevo che domande farle. Quando le ho chiesto che tipo era, Alessandra mi dice «non lo so, lui non parlava molto», dimostrando che in fondo lo sa, senza neanche sapere di saperlo, che tipo era.

E allora sono andato a vedere tutti gli articoli del giorno che è morto, e c’è scritto che i genitori stavano rientrando dalla Grecia dove erano in vacanza. E io, nel retro del mio cervello, ce l’avevo anche questa nozione che i genitori di Pantani fossero in Grecia quando lui era morto, ma chissà, li immaginavo da qualche parte al mare, del resto Cesenatico, gente di mare.

E invece venivano qui. Nell’Epiro. In un paesino nel nulla delle montagne della regione in cui vivo, a 45 minuti da dove abito, e a molto più tempo da qualunque altra cosa che avrei collegato a Pantani. Mi sono messo a rileggere tutti gli articoli che raccontavano di come anche lui, dopo un paio di fatti sventurati che tutti conosciamo, aveva cominciato anche lui a venire con i genitori in Grecia, e io ora so dove.

E così mi sono sentito un po’ La storia siamo noi.

Nel mezzo del cammin

Oggi ho 35 anni. Quando ho aperto questo blog ne avevo 25, e stavo per partire come volontario nei campi profughi della Palestina. Ora sono in Grecia, dove ho creato e dirigo una piccola ONG che si occupa di costruire un presente e un futuro migliore ai profughi qui. A leggerla così sembrano due fotografie di un percorso coerente e deciso, e invece no. In mezzo c’è di tutto. In questi dieci anni ho fatto tante cose (ne ho fatte anche troppe poche), ho incontrato molte belle persone (e qualche stronzo), ho cambiato un sacco di idee, ho scelto abbastanza ma avrei preferito scegliere di più, mi sono fatto domande. Ho pensato molto. In generale, sono stato molto fortunato.

È difficile fare un bilancio senza sopravvalutare il presente. Tutto viene inevitabilmente misurato e prende una piega a confronto con l’oggi: sono più o meno felice di dieci anni fa? E di cinque? E di due? (meno, boh, più). Sono più realizzato? Mi sono capito? Ho trovato la mia strada? (forse, penso di sì, macché). Sono diventato più bravo? Più forte? Più buono? (dipende, no, sicuramente). Se il me di dieci anni fa mi vedesse cosa penserebbe di me? Cosa cambierebbe del percorso fatto? Accetterebbe di diventare quello che sono ora? (non capirebbe, poco ma significativo, mi sa di no).

Una cosa che ho capito, e mi ci è voluto molto tempo, è che – 1) ciò che sei bravo a fare; 2) cioè che ti piace fare; e 3) ciò che è giusto fare – sono cose diverse. Solo alcuni di noi hanno la fortuna, e il privilegio, che almeno due di queste cose coincidano. Gli altri devono faticare d’insoddisfazione, fare un po’ e un po’, barcamenarsi fra l’uno e l’altro, tirare a indovinare. E alla fine fare una scelta. Io ho capito – ci ho messo molto, ma l’ho capito; lentamente e grazie all’influenza di alcune persone importanti della mia vita, una in particolare – che l’unica cosa che davvero vale la pena è la terza: fare ciò che si ritiene giusto, provare ad aiutare chi è vulnerabile. Almeno così è per me.

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Probabilmente alcuni saranno stupiti nel leggere queste considerazioni: non pensi di essere bravo in quello che fai? E, soprattutto, non ti piace? Quanto all’essere bravo, boh, penso di cavarmela. Penso che con un minimo di attenzione e un po’ di voglia di imparare si possa fare decentemente qualsiasi cosa. Ma, di certo, non direi che districarmi nella politica delle ONG è il mio talento. Quanto al piacermi del mio quotidiano, beh, obiettivamente no. Non mi sveglio con la gioia di vivere la giornata che verrà, ma questo dipende anche dal fatto che quello che faccio è molto cambiato da quando abbiamo cominciato Second Tree.

Avevo già raccontato come è andata: dopo aver lavorato per quasi un anno a Katsikas come volontarî indipendenti, assieme ai migliori fra i ragazzi coi quali avevo collaborato nel campo, abbiamo capito che la maniera per diventare più efficaci nel nostro sforzo d’aiuto era – anche in questo caso grazie al casuale incontro con le persone giuste – creare un’organizzazione locale. Era il modo per mantenere un notevole livello d’indipendenza e di autodeterminazione del proprio lavoro e dei proprî principî, ma al tempo stesso essere presi più seriamente dalle organizzazioni internazionali e dallo Stato greco. Per diverse ragioni più o meno incidentali abbiamo deciso che fossi io a coordinare l’organizzazione.

E così è oltre un anno che il mio lavoro non è più stare a contatto con le persone, gestire i piccoli conflitti quotidiani, prendermi cura direttamente. No, la mia giornata tipo è raccontata molto di più dal rispondere a email, partecipare a meeting, incontrare questo o quella per un caffè, scrivere un budget, andare in giro a cercare fondi. Soprattutto cercare fondi. Sì, nei fatti, l’80% di quello che faccio è una qualche forma di chiedere soldi o pensare a come ottenerli (e mi conoscete: l’ho detto che non sono tanto bravo a fare quel che faccio!). Ovviamente posso partecipare alle attività che facciamo: vado a molti degli eventi del nostro programma d’integrazione, ogni tanto assisto alle nostre classi di lingua, delle volte rinuncio al mio unico giorno libero per passare la giornata in una delle escursioni che facciamo coi nostri ragazzi: e in generale tutti sanno – e spesso succede – che possono rivolgersi a me se c’è un problema. Tutti mi conoscono per nome, ma io non conosco più per nome tutte le persone che vivono nei cinque campi in cui lavoriamo. è una differenza significativa e che ferisce la parte più narcisista di me: quella che vuole “sentire” di fare la cosa giusta, più che farla.

Anche questo è cambiato: ho imparato a tenere a bada quella parte di me. So che quello che faccio è importante, che parlare con il ministero per avere accesso a un campo o raccogliere fondi per cominciare un’altra attività, è semplicemente fondamentale e influenza il bene che possiamo fare molto più che il mio piccolo gesto di testimonianza, e se – per varie ragioni – ha più senso che lo faccia io, è giusto che lo faccia io. Non so cosa mi riserverà il futuro: se mi chiedessero “sarai ancora in Grecia a lavorare con i profughi fra due anni?”, risponderei “molto probabilmente no”, ma del resto se mi avessero fatto la stessa domanda due anni fa, avrei dato la stessa risposta, e invece eccomi qui. Certo, life-is-what-happens-to-you-while-you-are-busy-making-other-plans, ma l’aver creato qualcosa che dà compimento a ciò che pensi sia giusto fare è inevitabilmente difficile da lasciare. Mi verrebbe da usare l’abusata metafora del figlio.

Insomma, è questo che voglio dire quando dico che mi sento molto fortunato: e quando lo dico non intendo (soltanto) rispetto all’essere nato e morto di fame in un Paese dell’Africa centrale, penso davvero di essere fortunato rispetto alla larga maggioranza delle persone. Ogni volta che mi guardo indietro mi ritrovo a essere contento: lavoro quotidianamente per qualcosa in cui credo molto, e che investe di significato la mia vita, e lo faccio con persone che stimo molto che ho scelto e mi hanno scelto. So che in pochi hanno questo privilegio. Il fatto che i piccoli gesti che servono a comporre quel quadro non siano del mio massimo gradimento è, obiettivamente, una minuzia.

I veri scafisti siamo noi

Partiamo da un concetto semplice: se una persona è disposta a rischiare seriamente la vita facendo una traversata in mare vuol dire che l’alternativa che ha, quella di rimanere dov’è, è peggio che rischiare la vita. Se è disposta a pagare per farlo, vuol dire che l’alternativa è molto peggio. Detto in altre parole, non attraversare il Mediterraneo significa per queste persone una delle due seguenti cose:
– rimanendo nel proprio Paese quelle persone correrebbero un rischio maggiore di essere uccise
– rimanendo nel proprio Paese quelle persone vivrebbero una vita che loro considerano chiaramente peggiore che rischiare la morte

NaufragioNei fatti, ciò che questa preferenza dice è che – contrariamente a quanto suggerirebbe l’intuito – pagare uno scafista per fare la traversata del Mediterraneo permette a chi lo fa di diminuire il rischio di morire o di vivere una vita peggiore della morte. Lo scafista non lucra sulla vita delle persone, lucra sulla possibilità di offrire un futuro migliore a quelle persone. Naturalmente non mi spingo a dire che siano personaggi positivi, perché per la maggior parte sono delinquenti con pochi scrupoli affiliati a piccole o grandi mafie locali.

Ma non è il loro operare a portare più morti, come dimostra il ragionamento. A portare più morti sono le leggi assurde dei Paesi europei che costringono questi esseri umani disperati a rischiare la vita per muoversi da un luogo all’altro del mondo. A portare più morti sono le frontiere chiuse dai nostri Paesi, che sono anche l’unica ragione per la quale gli scafisti esistono: via frontiere chiuse, via scafisti. A portare più morti siamo noi.

E c’è di peggio. La ragione più diffusa per rifiutare di accogliere queste persone è che il migrante venga a sottrarci la nostra ricchezza, sia essa posti di lavoro, sussidî o welfare. Non li accogliamo per la banale ragione che vogliamo tenere per noi quei soldi, e questo vuol dire – matematicamente – uccidere più persone. Più chiaro di così. Quelli che lucrano sulla morte delle persone non sono gli scafisti. Quelli che lucrano sulla morte delle persone siamo noi.

Sono il Campione italiano di Sputo del nocciolo!

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Qualche giorno fa avevo visto questa foto:

cellenoOvviamente la cosa che mi ha rapito è la “Gara di sputo del nocciolo”.

Ieri siamo andati con degli amici a fare un giro nell’alto Lazio e nell’Umbria, e tornando siamo passati da Celleno. Potevo mica esimermi dal partecipare?

Complici dei ritardi precedenti, siamo arrivati lì che la gara era già cominciata, e sono riuscito a iscrivermi solo all’ultimo.

Lo “sputodromo” si presentava così, con tanto di regolari giudici e misuratori:

WP_20150614_005Essendo arrivato per ultimo, ero anche l’ultimo a… “lanciare”, come diceva il presentatore. Anzi, il penultimo, perché l’ultimo tentativo era riservato al campione in carica, dominatore incontrastato delle ultime 5 edizioni, che veniva perciò tenuto come ultimo dei concorrenti.

Sputo del nocciolo 2Ciascun partecipante aveva due sputi, e si prendeva la misura del migliore. Il presentatore ripeteva che la media dei maschi era intorno ai 10 metri (quella delle femmine molto più bassa, la migliore ha fatto 8 metri e 77 cm).

Scorse le varie decine di partecipanti, la misura da battere in attesa del campione si era assestata a 13.54 metri. Io, ovviamente, non avevo mai sputato un nocciolo in competizione, né tanto meno misurato la distanza alla quale sputavo un nocciolo, perciò non avevo la più pallida idea di come mi potessi classificare. Pensavo di essere sopra la media, ecco. Ma non pensavo di poter battere i 13 e mezzo.

Tocca a me, mi metto in pedana, e… 18 metri. Diciotto metri precisi. Ho il secondo tentativo, questo è peggiore: 16 e mezzo. Vale il primo.

A questo punto c’è da aspettare il campione in carica, al quale viene approntata una nuova pedana di partenza, perché la pista potrebbe non bastare (è lunga poco più di 18). Al primo tentativo non va oltre i 16. Per il secondo tentativo si prepara e si concentra come ho visto poche persone fare, il nocciolo vola in avanti e si ferma vicino ai 18 metri: sembra dietro, ma serve la misurazione precisa del giudice.

Anche il metro dice lo stesso. Vittoria!

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In Italia è questa la competizione, ma ho letto che negli Stati Uniti c’è chi ha fatto 24 metri. Dovrò allenarmi.

Questo è il video della premiazione (il presentatore è la persona più simpatica del mondo):

Sul carro del perdente

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Poco più di un anno fa scrissi un post molto eloquente, era intitolato Contro il PD. Parlavo della componente che, per semplicità, definiremo dalemiana/bersaniana/cuperliana (sì, certo, ci sono differenze). All’indomani delle ultime politiche dicevo:

una cosa è chiara: se il PD avesse preso il 41% (cioè il 7,76% in più rispetto alle ultime politiche), avrebbero detto che quella gigantesca vittoria era merito della svolta socialdemocratica e anti-liberista del PD. Invece hanno preso il 25.42% (cioè il 7,76% in meno rispetto alle ultime politiche), e cosa dicono? Esattamente lo stesso.

In sostanza l’infalsificabilità della propria opinione, la convinzione che qualunque dato di realtà conferma la propria teoria (è la definizione di furore ideologico, se ci pensate). Nel post citato ci sono molti altri esempî di vicende in cui un giorno ci si bullava dell’efficacia di una porcheria e il giorno successivo si negava recisamente che qualcuno avrebbe mai potuto farne una. Questo atteggiamento non è andato via: è rimasto, fortissimo, in molte discussioni (ultimi due esempî capitati), specie quelle che toccano punti cardine dell’ortodossia.

Però, oggi che Renzi ha preso proprio il 41% che un anno fa preconizzavo per paradosso, mi rendo conto che molte delle persone che condividevano quella battaglia, che rilevavano gli stessi problemi, lo facevano – in fondo – solo per partigianeria. Tanti che, in passato, criticavano la mentalità autoreferenziale e complottista interpretano precisamente così le azioni dei proprî avversarî. Solo nelle ultime 24 ore ci sono stati due esempî che mi hanno colpito.

Stefano Fassina ha dato un’intervista in cui riconosce, parzialmente, che su Renzi si era sbagliato. È un’intervista dignitosa, di una persona che in passato ha detto cose indegne. Umile, di una che in passato ha detto grandiosità. E che noi abbiamo criticato per questo. Accusare Fassina di essere “salito sul carro del vincitore” è la negazione di tutto ciò che gli abbiamo criticato in questi anni, e qualifica le critiche che gli venivano fatte come partigiane, anziché di contenuto. Accogliere negativamente il cambio d’idea altrui, cercarne lo sporco, è una delle peggiori abitudini italiane. Sulla questione Fassina/intervista ho detto tutto ciò che penso in questo thread (se non lo vedete, chiedete l’amicizia, è una persona simpatica).

L’altra vicenda è quella di Boschi che torna in Italia con i bambini congolesi finalmente adottati e si fa fotografare mentre uno di questi bambini le intreccia i capelli. Naturalmente non c’è nulla di male, è certo che Boschi fosse consapevole dell’effetto della foto ma non c’è modo – né ragione – di pensare che senza macchine fotografiche si sarebbe comportata in maniera differente. Non è una foto finta. Ma è, comunque, una scelta politica. Ed è una scelta politica efficace, perciò vincente. Al proposito, Chiara Geloni ha ricordato un’intervista in cui Massimo D’Alema raccontava una scelta opposta. Geloni stessa merita due righe, perché è la persona che più incarna la dinamica di cui parlo in questo post: come carnefice – è la più partigiana fra tutte, quella che presenta al parossismo, e rivendica, i peggiori difetti del PD; ma anche come vittima: proprio perché nelle logiche da conventicola è “nemica”,  è anche destinataria di insulti indegni e pettegolezzi spregevoli.

D’Alema racconta, a una festa dell’Unità, che in un episodio molto simile a quello di Boschi ha fatto una scelta diversa. Ha deciso di far andare via le bambine prima di lui, di non permettere la pubblicazione di una foto del genere. Ha avuto questo pudore, e ne fa un punto d’orgoglio. È una cosa molto dignitosa, certamente politicamente inefficace, ma credo che ci si riconoscerebbero molti lettori di questo blog, io sicuramente. Anche in questo caso, però, invece di risposte misurate come «è una cosa molto bella, ma in politica bisogna essere bravi a pubblicizzare i proprî successi» ho letto critiche del tutto partigiane. Enrico Sola, uno molto bravo (come sono bravi Guido e Addolorato della conversazione FB, sto volutamente cercando i migliori, evitando gli interventi dei più ottusi e sguaiati) ha scritto “Dire ‘una volta ho fatto una cosa bellissima ma non me la sono tirata’ è tirarsela”.

Intanto non è vero, o non è quello il punto. La scelta di D’Alema, e la decisione di raccontarla a una festa dell’Unità (video che non conosceva praticamente nessuno, fino a ieri), in risposta a una specifica domanda di una giornalista, anni dopo l’episodio e due anni prima della vicenda Boschi, è una chiara scelta politica. Vuol dire decidere che quelle fotografie non sono una buona ragione per essere votati, vuol dire rinunciare alla demagogia perché non la si ritiene pertinente al ruolo politico come lo si concepisce: in una parola, ritenere che prendere voti grazie a ciò – in questo senso di mancata attinenza, leggete il post linkato prima di urlare – sia una forma di prostituzione. Può benissimo essere che queste cose siano necessarie ad avere successo, specie se gli avversarî ne usano di peggiori; ma non riconoscerne la dignità pre-politica perché viene da un avversario, perché nel grande dibattito sul partito “vuoto” o “pieno” fa perdere punti, è solamente ottuso o disonesto.

Il punto non è essere partigiani, lo siamo tutti (e io sono sempre contento quando la gente litiga alla luce del sole), ma esserlo a dispetto della realtà. Dimostrare che qualunque cosa succeda sarà filtrata, e archiviata nel proprio orizzonte etico, a seconda dell’origine ideologica o della convenienza politica. Mi sento solo, oggi.

 

Cambiare idea

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All’inizio di questo blog parlavo spesso di me, delle cose che mi succedevano, delle cose che pensavo; poi ho cominciato a scrivere soltanto di posizioni politiche, etiche, polemiche; potrei tornare a fare come facevo prima.

Perché mi sono reso conto di questa cosa: tanto tempo fa, non mi capacitavo del fatto che le persone non cambiassero idea. Delle volte dicevo o scrivevo delle cose che mi sembravano molto convincenti, e trovavo inconcepibile che le persone mantenessero la propria opinione senza fornirmi (e soprattutto fornirsi) un’obiezione. Molte di quelle idee erano sicuramente sciocche, e se le rileggessi ora mi metterei a cantare (capita anche a voi di mettervi a cantare se pensate alle cose imbarazzanti che avete pensato o fatto in passato?). Ma la questione era di metodo: come è possibile non darsi gli strumenti per ammettere la possibilità di un ravvedimento? Due persone di intelligenza paragonabile, che partono da premesse simili, non possono non giungere a una conclusione condivisa.

Poi ci ho fatto il callo, su come è il mondo là fuori. Mi sono abituato: molte persone sono affezionate alla propria idea, sono più interessate al difenderla che all’avvicinarsi alla verità. Determinano perché pensare una cosa dopo aver deciso cosa pensare. Quando si discute di una cosa capita più spesso che si finisca a discutere di un’altra («e allora tu?», «lo dici perché…», per fare due esempî prezzemolo) che non a risolvere la cosa stessa. Quindi bisogna abituarsi all’idea di arrendersi: se ci sono segnali che una persona non sia disposta a cambiare idea, beh, è inutile continuare a discuterci. Si può parlare d’altro, ma vale la pena lasciare stare quell’argomento.

Ultimamente, mi sono reso conto, c’è stato una terza evoluzione che è al tempo stesso un ritorno alle origini e il compimento di questo percorso evolutivo. Ma è anche dimostrazione di disincanto e, quindi, in ultima analisi di cinismo. Sono stufo. Ho perso di testardaggine, ma anche di generosità. Non ho più quello che Alessio ebbe a definire il mio “fervore speranzoso”. Se concepisci la discussione come un terreno in cui difendere la propria opinione (se pensi che esista una cosa come un’opinione propria), se non hai interesse a convincermi delle tue ragioni e a essere convinto dalle mie – se non t’interessa migliorarti, se non t’interessa migliorarmi – a me non interessa avere un rapporto con te. Così, fra le persone che frequento, ho progressivamente guadagnato la fama di quello che è più disposto a cambiare idea, e quello che è meno disposto a tollerare chi non cambia idea.

Sono incattivito? Probabilmente è così. Anzi: è così. Vivo meglio, ma sono più egoista. Eleggo alcune persone, quelle con le quali – sono stato molto fortunato a incontrarle – si discute anche 2 ore della stessa cosa, non capacitandosi che l’altro non si convinca della mia, o non mi convinca della sua, idea. Poi, sempre, arriva l’epifania: e in un secondo, dopo ore di discussione, si cambia discorso e non se ne parla più, perché il fatto che uno abbia cambiato idea non è un fatto degno di nota, tanto meno un’umiliazione. Sono certamente una persona migliore, ma sono migliorato per me, e non per gli altri: ho lavorato molto su me stesso, ho maturato degli strumenti per elaborare in fretta un necessario cambio d’opinione, ma lo stesso pretendo dagli altri. Il paradosso è che, forse, se incontrassi quel me di qualche anno fa mi starei sul cazzo.

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Oggi ho capito qual è il mio vertice di autoreferenzialità. Ho capito qual è il fatto che più denota il mio distacco dal paese reale. Ho capito qual è la cosa che, più di ogni altra, mostra come mi contorno di persone tanto simili a me quanto lontane dalla larga maggioranza degli altri individui.

Non è il fatto che conosco sì e no due persone che abbiano votato per Berlusconi; non lo è neppure il fatto che, nonostante ciò, la maggior parte dei miei amici non sopporta Travaglio; non è il fatto che la larga maggioranza delle persone che frequento non crede in Dio; non è che conosco diverse persone a cui non piace la cioccolata; non è che conosco tanta gente che ha votato per i Radicali, né che un sacco di miei amici difende il PD; non è che conosco almeno 5 persone la cui pizza preferita è la margherita con cipolle; non è che praticamente tutti sono a favore dei matrimonî omosessuali; ma neppure che praticamente a nessuno fa ridere Crozza, né le battute sul sesso; non è che i miei amici sanno che “la tua fidanzata s’innamora di un tuo amico” è colpa tua e non del tuo amico; non è che per diversi il ciclismo è lo sport più romantico del mondo, né che quasi tutti vanno pazzi per McDonald’s (o Burger King). Non è, non è, non è.

È, invece, che tutti i miei amici – ma tutti eh, non uno dell’altrove diffusissima mozione ha-solo-culo – considerano Filippo Inzaghi il miglior numero “9” degli ultimi 10 anni.

Spiegatemi la TAV

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Dunque: io della TAV non so nulla. Per dire meglio: conosco superficialmente le posizioni dei favorevoli e dei contrarî, ma non so quanto esse siano radicate in dati e ragionamenti logici. Vorrei invece saperne di più e meglio.

Mi sono reso conto che, ultimamente, mi ero formato un’opinione sostanzialmente su di un pregiudizio: e cioè che alcune (forse molte) delle persone che sostengono il fronte notav hanno atteggiamenti vergognosi, fra lo stronzo il leghista e il criminale. Questo, naturalmente, è male: non bisogna valutare le persone che portano un’idea, ma l’idea e basta. Del resto capita di essere d’accordo su iniziative (alcune cose che fa Action, ad esempio) di persone per altri versi poco condivisibili. Inoltre, probabilmente, se valutassi gli argomenti dei peggiori fra i pro-tav troverei stupidaggini anche lì.

Quindi, ecco, questo post serve a chiedere a chi un’idea ce l’ha di contribuire: con commenti, o anche rimandi a letture interessanti e documentate. Naturalmente sono benvenute sia opinioni favorevoli che opinioni contrarie. Il requisito è, per favore, che l’opinione sia ben argomentata, e logicamente consistente.

Penso sia una discussione che potrebbe interessare anche ad altre persone.