Ieri ho festeggiato il mio diciottesimo compleanno

Un mese fa diverse persone con cui non avevo contatti da anni e anni hanno ricevuto il seguente invito:

A diciott’anni ero un trentenne snob che non voleva festeggiare il proprio diciottesimo compleanno perché era un evento troppo mondano, club, discoteche, eccetera. Ora che ho quasi trent’anni, e la giovinezza di un diciottenne: sono pentito! Troppo tardi? Non è vero.

Perciò sabato 26 marzo festeggerò il mio diciottesimo compleanno – dieci anni dopo, ma come se non ci fossero.Questo vuol dire che inviterò solo persone che conoscevo a diciott’anni (le altre, categoricamente escluse), che avrei potuto invitare. Con alcune di queste non ci sentiamo da tre, cinque, anche dieci anni. Non importa, perché siamo nel 2001, non nel 2011: le Torri Gemelle sono ancora lì, e la Roma sta per vincere lo scudetto. Il mondo sta per cambiare, scegliete voi per quale di questi due eventi.

Naturalmente, l’invito conteneva anche una clausola:

Vestiti come ci saremmo vestiti a quel tempo, con la musica che avremmo ascoltato a quel tempo, mangiando le cose che avremmo mangiato a quel tempo.

E insomma, abbiamo fatto la mia festa dei diciott’anni dieci anni dopo. Avevo preparato diverse attività da diciottenni, ma alcune le abbiamo saltate – in fondo, se avessi dovuto fare proprio quello che facevo io a diciott’anni non avrei fatto la festa (perché ero un trentenne snob…). Però ci siamo divertiti, e abbiamo provato a impersonare i nostri personaggi.

E vabbè: di tutte le storie vi racconto quella di Massimiliano, perché ho la foto che la testimonia. Io ho fatto un liceo abbastanza di destra, e Massimiliano era il tipico ragazzo del liceo che si definisce “fascista”. Come lo si fa a diciott’anni, figuriamoci. Lui arrivò in classe nostra il quarto anno, e buona parte di quell’anno lo passammo con minacce “de menatte, perché sei comunista”. Non che io fossi tanto più intelligente, anzi: ero bello scemo anche io, e – ci ripensavo proprio ieri – ero molto più cinico.

Poi, il primo giorno del quinto anno, ci ritrovammo per primi davanti ai cancelli della scuola (per prendere l’ultimo banco). Potevamo litigare, o spartircelo. Decidemmo per la seconda. E diventammo amici, io “comunista” lui “fascista”, con uno strano rispetto degli opposti, che poi ho scoperto non essere tanto raro. E, a parte quello, da lì ci siamo sempre voluti bene, e anche se non ci vediamo per anni, Massimiliano è una di quelle persone che, quando mi viene in mente, suscita il più immediato “speriamo gli vada tutto bene nella vita”.

Lui aveva una storia travagliatissima con Caterina, anche lei in classe nostra, si mettevano insieme e si lasciavano, si lasciavano e si rimettevano insieme. Poi, qualche tempo dopo il liceo si erano lasciati, e non si erano più visti per anni. Soltanto qualche mese fa si sono rincontrati, sono ritornati assieme, e ora vivono assieme: giusto in tempo per tornare fidanzati alla mia festa.

E insomma: ieri abbiamo impersonato gli scemi che eravamo, e ci siamo fatti questa foto per ricordare i tempi andati. Vestiti come al tempo, in posa come ci saremmo messi al tempo.

I have sex

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In America, i pazzi schizzati della destra religiosa fanno campagne per l’astinenza sessuale – considerato unico metodo contraccettivo e profilattico lecito – contribuendo a dare quell’immagine torbida e proibita del sesso che ne ha rovinato la pratica, e la vita, a tantissime generazioni. In particolare, l’idea che i più giovani possano decidere di fare sesso con consapevolezza e naturalezza, senza niente da nascondere, è combattuta con le immagini più fosche. Così è nata questa campagna dove diversi adolescenti senza risolini (o forse solo qualcuno) dicono la cosa più naturale del mondo: “We are your youth”, siamo la vostra gioventù,  e “I have sex”, facciamo sesso. Di che vi stupite?

Questo è davvero quello che ci vorrebbe in moltissimi Paesi mussulmani. Farebbe davvero fare un incredibile salto in avanti a quelle società.

Unreasonable Faith

Non siamo diventati tutti caschi blu olandesi

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Una domanda brutale: quanti ne possiamo uccidere, controvoglia, per salvarne quanti? E’ una domanda cui non saprei rispondere. Perché come molti, sono stato pigro, davanti alla Libia. Ho pensato, prima, all’inizio, che per una qualche benedizione seriale, potesse finire come in Tunisia e in Egitto. Poi ho pensato che ineluttabilmente sarebbe finita in altro modo, con la vittoria scontata e feroce di Gheddafi, che lasciava anche alle anime brutte il conforto di una meditazione sul cinismo dell’occidente, e sul destino infame dei ribelli. Invece no, non c’è stata un’altra Srebrenica, non siamo diventati tutti caschi blu olandesi.

Frutto di farabutti

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È esplosa una bomba a Gerusalemme, fra l’altro in un posto dove passavo spesso quand’ero lì. Il titolo di Repubblica “frutto della tensione a Gaza” è riprovevole. Tratta i palestinesi – tutti, fra l’altro, senza distinzione – come una colonia batterica, senza una responsabilità personale.

Non tutti gli attentati sono uguali, per quanto emotivamente ci verrebbe da pensarlo. E questo qui è fra quelli più disgustosi, che non hanno nessuna giustificazione – altro che figlio della tensione a Gaza. È fra i peggiori per l’obiettivo che ha – massacrare il maggior numero di esseri umani – che qualifica chi l’ha fatto, chi l’ha pianificato, e anche chi lo giustifica, come un farabutto. È la differenza fra l’adottare una strategia sanguinosa e controversa, e fare di quel sangue il proprio fine ultimo.

Qualche giorno fa ho fatto un post in cui commentavo la reazione del governo israeliano all’accoltellamento di una famiglia di coloni: quello che segue doveva essere un corollario a quelle considerazioni. In quello scritto criticavo le politiche d’Israele, ma gli riconoscevo questo: niente di tutte le, anche sanguinose, iniziative che Israele prende ha questa faccia. Quella del festeggiare le morti innocenti anziché piangerle.

È proprio per questo, però, che dobbiamo riconoscere che non tutti gli attentati sono uguali, come invece mi sembra di leggere in tutti gli articoli che ora citano il precedente di Itamar. Accoltellare una famiglia di coloni è un atto violento, sanguinoso, ma non è la stessa cosa di un attentato a una fermata dell’autobus affollata di vecchini che vanno al supermercato e bambini che vanno a scuola. Certo, l’attentato di Itamar includeva l’uccisione di due bambini, e le colpe dei genitori – quelle persone non sono innocenti – non devono ricadere su quelle dei figli. Ma proviamo un momento a non considerare questo fatto.

È sempre così difficile, così scivoloso, provare ad analizzare tutte le sfumature di una questione, e fare anche le distinzioni più piccole: ma bisogna provare a farlo. Come disse qualcuno, il problema del conflitto arabo-israeliano è che comprende troppa storia e troppa poca geografia. E, perciò, ogni pezzo di terra costruito dai coloni è un pezzo di terra in meno per i palestinesi. Ogni persona che ne fa un baluardo, è un ostacolo – un nemico – di uno Stato palestinese, e della pace. Il fatto che dei coloni vivano a Itamar – un insediamento nel cuore della Palestina, lontano chilometri e chilometri dal confine Israeliano – è una dichiarazione di guerra. Possiamo girarci attorno in mille modi, ma non c’è altro modo per chiamarla. Non ha la violenza di un accoltellamento, ma è un comportamento possibile solo ed esclusivamente grazie ai mitra e alla forza bruta di decine e decine di soldati che stazionano intorno a quella colonia.

Per un palestinese, l’unica alternativa all’impugnare un coltello è la più inane non-violenza, senza alcuna speranza di cambiamento. E non lo dico nel senso di quella detrazione di responsabilità che anima l’infelice titolo di Repubblica, ma esattamente al contrario: la responsabilità ce l’ha quel colono, e ce l’ha la persona che decide di usargli contro la violenza. Niente di tutto ciò è inevitabile, è il risultato di specifiche scelte, che vanno considerate come tali. Esiste una posizione perfettamente speculare al pacifista senza-se-e-senza-ma che garrisce l’immagine del Che mentre lustra il proprio fucile, ed è quella di chi pacifista non è ma esige che lo siano coloro che non gli stanno simpatici.

Ho messo tante premesse e tanti incisi in questo discorso, magari mi date dei buoni argomenti per cambiare idea: ne sarei contento. Per ora, non sono lontano dal pensare quello che diversi israeliani – anche fra i più pacifici che ho incontrato – mi hanno detto: «quei pazzi di Hebron? Se li ammazzano se la sono cercata». Per ora quello che penso è che bisogna riconoscere che c’è una differenza fra fiori e molotov (l’immagine è di Banksy, ed è su un muro a una manciata di chilometri dal luogo dell’attentato di oggi); ma ce n’è una anche fra chi li riceve, quei fiori o quella molotov.

E penso che solo tenendo a mente queste cose si può – davvero, e nel modo più pieno – avere rabbia e spregio per l’effigie del Male che è la bomba – messa lì per colpire tutti, per colpirne il più possibile – che è esplosa oggi sullo Sderot Shazar.

“Da brividi”

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Ieri ho fatto un post sulla Libia che è stato letto un sacco in giro, addirittura una decina di persone mi ha chiesto l’amicizia su Facebook specificando che aveva letto il post e ne aveva condiviso i contenuti. È stato utile a me per chiarirmi le idee, e sono contento che sia stato utile ad altri.

Ovviamente ci sono stati anche pareri contrari. Ci siamo tutti abituati, fa bene ed è naturale. Io, per quanto posso, cerco sempre di rispondere il più possibile ai commenti dei post, specie a quelli critici. È l’unico modo per far progredire la discussione e in passato ho conosciuto un sacco di gente che mi ha insegnato un sacco di cose.

In questo caso, però, sono rimasto di stucco nel constatare come non ci fosse nessuno spiraglio d’apertura al dialogo. Prendo l’esempio del Post perché gli devo molta della diffusione dell’articolo, ma è una cosa comune anche nelle altre sedi. Avevo iniziato a leggere i commenti, per vedere quelli a cui dovevo una risposta, e mentre li scorrevo pensavo mentalmente “a questo ho risposto nel post”, “questo sta rispondendo a una cosa che io non ho detto”, “questo risponde per slogan”, e così via.

Insomma, esattamente quello che avevo scritto di voler evitare. Per rispondere, avrei dovuto ricopiare pezzi del post, perché la maggior parte replicava cose a cui avevo già risposto. In diversi casi mi sono domandato: ma l’hanno letto il post a cui stanno rispondendo? Nessuno che contestava puntualmente un argomento: quello che avevo detto nel post, e cioè che non c’è niente al mondo che possa far cambiare idea a queste persone. E quindi è impossibile instaurarci una discussione: qualunque cosa succeda confermerà la loro opinione.

Se ho spiegato perché gli interessi degli Stati sono irrilevanti e dobbiamo pensare alla vita della gente in Libia, se ho spiegato perché  fare poco è meglio che fare nulla (e quindi chiedersi “perché qui no?” non è un’obiezione), puoi contestare la consistenza logica dell’argomento, puoi dirmi che l’intervento non sarà di beneficio ai libici, puoi tirare in ballo altre obiezioni, ma non puoi rispondere: «eh, lo fanno per interesse! Perché non in Bahrain?».

E poi mi è venuto da ridere pensando che hanno torto pure dall’interno della loro ossessione cospirativa: oggi è «l’Occidente è invervenuto in Libia per interesse, si vede dal fatto che non interviene in Bahrain!». Potrei scommetterci un piede che se domani Francia e Inghilterra intervenissero in Bahrain inizierebbero a strillare: «l’Occidente è intervenuto in Bahrain per interesse!»

(il titolo è rubato a un commento che, scorrendo ossessivamente il post per cercare di obiettare qualcosa, è arrivato all’ultima frase senza trovare niente. Allora ha deciso di prendersela con quella, che fra l’altro avevo ripreso dall’Independent)

Cinque stupidaggini sulla Libia

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Ci sono buoni e cattivi argomenti per essere a favore di questo intervento, e ci sono buoni e cattivi argomenti per essere contro a questo intervento. Io penso che i buoni argomenti a favore siano enormemente di più dei buoni argomenti contro, ma penso anche che discutere di queste cose sia un gran bene: proprio perché cerco di scegliere con cura le mie idee, sono contento che queste siano messe in discussione ed – eventualmente – migliorate.

Per fare questo, però, c’è bisogno di accordarsi su un comune denominatore di convivenza: ovvero escludere le stupidaggini. Intendo gli argomenti sciocchi, quelli che non hanno nulla a che vedere con la discussione. Il chiasso. E, qui, mi sembra che ci sia un enorme squilibrio fra il chiasso a favore e il chiasso contro. Chiunque dicesse “è giusto intervenire per prendere il petrolio ai libici” o “dobbiamo ammazzare più libici possibile” verrebbe immediatamente – e, dico io, giustamente – escluso dalla discussione fino a quando non porti argomenti migliori.

La stessa cosa non succede, invece, quando vengono tirati fuori argomenti equivalentemente stupidi o egoisti da chi è contrario a questo intervento. Si inseguono le traiettorie schizzate e i binarî morti di argomenti che nulla hanno a che vedere con la tutela della vita dei libici che – ricordiamolo sempre – è l’unico metro attraverso il quale bisogna valutare la bontà di quest’azione. Per dire: se, il Cielo non voglia, questo intervento dovesse comportare una strage di civili inermi enormemente maggiore di quella che aveva e avrebbe fatto Gheddafi, coloro che sostengono l’intervento avrebbero torto – io, ad esempio, dovrei ricredermi.

Mi sembra, invece, che quelli che portano avanti questi argomenti – slogan che replicano sé stessi – non potrebbero cambiare idea, qualunque cosa accada. E, quindi, se non si stabilisce questo principio minimo di condivisione delle idee, è inutile discutere. Io suggerisco di farla sempre quella domanda: c’è qualcosa che ti potrebbe far cambiare idea? No? Allora questa non è una discussione. Però penso anche che ci siano tante persone, probabilmente la maggioranza, che hanno sottoscritto idee buttate nella mischia da altri sulla scorta dell’emotività o della confusione; ma che, ragionandoci un attimo su, non stanno in piedi.

Perciò, gli unici dubbî sui quali ha senso riflettere sono quelli che pensano alle conseguenze lì in Libia, naturalmente anche sul lungo termine, alcuni sono qui. Questi, invece, sono gli argomenti che sento più spesso, e su cui NON vale la pena discutere:

1)  Lo fanno per interesse/per il petrolio

Prima di tutto, bisogna mettersi d’accordo con sé stessi: fino a tre giorni fa i potenti del mondo dimostravano la loro malafede ignorando la Libia, ora dimostrano la stessa malafede decidendo di intervenire. Questa è, piuttosto, una profezia che si autoavvera. Come ha scritto Giovanna: “Perché l’Occidente non interviene in Libia? Perché ha troppi interessi economici, ovvio! Perché l’Occidente interviene in Libia? Perché ha troppi interessi economici, ovvio!”.

La cosa più ragionevole da pensare, invece, è che per Cameron, Sarkozy e Obama questa sia una bella gatta da pelare, e che fino a che hanno potuto hanno cercato – questo sì, cinicamente – di non imbarcarcisi. Poi, costretti dagli eventi hanno deciso di intervenire: vogliamo dire che non l’hanno fatto di propria coscienza, ma per assecondare l’elettorato che vedeva le immagini dei massacri? Diciamo che, in genere, mi fiderei più della coscienza di Obama che di quella di Putin (o Medvedev), ma fate voi, non mi importa: qui non si valuta il nostro giudizio su Obama o Putin, qui si valuta il nostro giudizio su questo intervento.

Difatti, molto più sinteticamente, la risposta a: «lo fanno per il petrolio» dovrebbe essere: “embè?”. Dovrebbe essere: “a me interessa sapere delle sorti della gente in Libia”. Chiunque abbia più in odio gli interessi di Obama o Sarkozy rispetto a quanto tenga alle sorti di centinaia di migliaia di persone in Libia, e da questo deduca che i supposti interessi dell’Occidente risolvano la questione, può portare il proprio cinismo livoroso da un’altra parte. Chi riuscirebbe a passare su migliaia di cadaveri per fare un danno ai proprî nemici non merita la nostra attenzione.

2) Fino a ieri eravamo alleati di Gheddafi
Se l’ovvia risposta all’obiezione precedente è: «embè? (quello che mi importa è la vita dei libici)», la risposta a questa è: «appunto! (quello che mi importa è la vita dei libici)». Era profondamente sbagliato fare gli amiconi con Gheddafi, era sbagliato in via di principio – perché si legittimava un dittatore sanguinario – e in pratica – perché quegli accordi erano pagati sulla pelle dei libici annegati nel Mediterraneo.

Però fare due volte lo stesso errore è peggio che farlo una volta sola. Da quando in qua perseverare nel male è meglio che smettere? E poi non possiamo mica fare lo slalom opposto: se prima Berlusconi aveva torto, e ce l’aveva, perché difendeva un assassino tiranno, non si può mica fare tutto il giro e dire che no, in fondo, non era poi così male. Ricordiamocelo: qui non è in ballo la nostra opinione su Berlusconi che, immagino, non cambierà di molto, è in ballo la vita di quelle persone. Discutiamo solo di quello.

C’è un povero ragazzo (i libici) che viene picchiato a sangue da un teppista (Gheddafi, con la connivenza di Berlusconi), e noi cerchiamo di farlo smettere. Quando poi, finalmente, quel teppista (Berlusconi) smette di picchiarlo, noi che facciamo? Gli diciamo: «eh, no, prima lo stavi picchiando, mica puoi essere incoerente»?

3) L’attacco è stato avventato. Si poteva trovare una via di mezzo prima della guerra
Perché una no-fly zone implementata con mezzi militari? Non si potevano trovare delle vie di mezzo o ulteriori sanzioni? Di queste obiezioni sarebbe la più ragionevole, perché almeno punta a qualcosa di smentibile e che non si auto-avvera. Il problema è che è già smentita dai fatti, e continuare a ripeterla contro tutte le evidenze suggerisce – nella migliore delle ipotesi – un’ostinazione cinicamente pacifista, quella che considera la pace come un fine e non come un mezzo per garantire la vita delle altre persone e passerebbe sopra a un genocidio commesso dal proprio vicino di casa per non intaccare la propria immacolata coscienza.

Come ha scritto Francesco, “esistono moltissime vie di mezzo tra ignorare lo sterminio di un popolo e dichiarare guerra alla Libia, e la comunità internazionale le ha provate tutte: gli ha intimato di smettere con crescente decisione, ha espresso dichiarazioni di condanna con tutte le sue istituzioni internazionali, ha riconosciuto ufficialmente i ribelli, ha approvato un primo pacchetto di sanzioni economiche e politiche, ha congelato i suoi beni, gli ha nuovamente intimato un cessate il fuoco, ha dato il sostegno che ha potuto dare ai ribelli. Niente di tutto questo è servito”. Si è battuta la strada dell’esilio, della presidenza dorata, quella della concertazione, quella delle sanzioni: non ha funzionato.

La verità è che fino all’altro ieri eravamo tutti qui a chiederci cosa aspettassero. Un nuovo massacro? La ragione per la quale la comunità internazionale è intervenuta così tardi è stato proprio aver provato tutte queste vie di mezzo. Tentativi ragionevoli che, a questo punto, possiamo definire fallimentari. C’è il legittimo dubbio che bisognasse intervenire prima. La decisione del consiglio di sicurezza è arrivata poche ore dopo che Gheddafi – probabilmente giocando sul terremoto in Giappone che aveva catalizzato l’attenzione internazionale – era arrivato alle porte di Bengasi, la roccaforte dei ribelli, e aveva annunciato una vendetta consumata “fino all’ultima goccia di sangue” a chiunque non si arrendesse. Era criminale aspettare ancora.

4) Stiamo violando la sovranità di uno Stato
La sovranità di uno Stato è il principio inviolabile che la tradizione conservatrice – i cosiddetti “realisti”, quelli delle dittature in Sud America, che ora sono tutti contro a quest’intervento perché (ironia della sorte) “non ci conviene” – ha sancito e riproposto dalla pace di Westfalia. Qualunque persona progressista – dai marxisti, ai liberali a tutte le vie di mezzo –, nei secoli passati, l’ha sempre considerato un vecchio arnese per permettere ai potenti del mondo di violare i diritti degli altri in santa pace. Einaudi, settant’anni fa, scriveva “[Il] principio dello Stato “sovrano”. Questo è oggi nemico numero uno della civiltà, il fomentatore pericoloso dei nazionalismi e delle conquiste. Il concetto dello Stato sovrano, dello Stato che, entro i suoi limiti territoriali, può fare leggi, senza badare a quel che accade fuor di quei limiti, è oggi anacronistico ed è falso”. È un concetto odioso, che il mondo ha cercato di limitare sempre di più. Il più grande attacco all’inviolabilità di questo principio è arrivato dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo: basterebbe questo per risolvere l’argomento.

Lo stesso articolo 11, tante volte tirato in ballo da chi è contrario a questo intervento, dice una cosa importante: che l’Italia ripudia la guerra come strumento d’offesa alle libertà altrui o metodo per risolvere controversie internazionali (e, semmai, in questo caso l’offesa la stava facendo Gheddafi), ma aggiunge una cosa importante che nessuno cita e Sciltian ricorda: “consente (…) le  limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni” (corsivo mio, naturalmente riferito all’Italia: ma implica lo stesso per tutti). La comunità internazionale stessa, attraverso le Nazioni Unite, riconosce la sovranità come un principio limitato dalla “responsabilità di proteggere” i proprî civili, e il fatto stesso che sia stato l’ONU ad approvare l’azione spazza via qualunque obiezione. A onore del vero, coloro che erano contro la guerra in Iraq “perché non c’era l’ONU” devono dimostrare la propria onestà intellettuale dicendosi favorevole a questo intervento.

Infine, la gente di Bengasi ha già manifestato (e oggi ha ribadito) come il rispetto dell’autodeterminazione dei popoli sia dalla parte delle persone – che esultavano in piazza per  il passaggio della risoluzione – e contro il despota. Come spesso succede, rispettare la sovranità (cioè la sua inviolabilità) di un luogo significa rispettare chi comanda, spesso attraverso sangue e terrore, in quel luogo.

5) Anche altrove ci sono violazioni dei diritti umani
Questo è l’argomento che l’Independent ha definito Perché-Dovrei-Mettere-In-Ordine-La-Mia-Cameretta-Quando-Il-Mondo-È-Così-Incasinato. È giusto o non è giusto mettere in ordine la cameretta? Si fa bene o si fa male? Certo, in Arabia Saudita, in Bahrein, in Qatar, in tante parti del mondo ci sono violazioni dei diritti umani: sostenere che, siccome si sbaglia in un posto, bisogna sbagliare in tutti i posti è ridicolo. Anzi, sostenere questo porta come logica conseguenza il sostegno a molti più interventi come questi qui, almeno dove ciò è fattibile. Insomma, chi è a favore di questo intervento ha ragioni di obiettare “perché non anche lì?”, ma chi è contro dovrebbe – semmai – celebrare il fatto che non ce ne siano di altri interventi simili.

Spesso questo argomento viene sostenuto su due tipi di speculazioni. Entrambe piuttosto cerebrali e indimostrabili: una è quella del complotto dei media che raccontano violazioni che non ci sono. La seconda è che gli Stati intervengano in Libia per il petrolio (vedi punto 1)  e non negli altri posti perché non ce n’è. La prima rimodula in diverse maniere questo concetto: Gheddafi non sta uccidendo la popolazione (nonostante sia lui stesso ad averlo promesso), i mezzi di comunicazione sono conniventi con le superpotenze e plasmano l’opinione pubblica attraverso un determinato linguaggio (in realtà, non so se ci avete fatto caso: in Tunisia e in Egitto chi protestava era definito da tutti “il popolo egiziano/tunisino”, in Libia tutti parlano di “ribelli”, accettando sostanzialmente la retorica di Gheddafi). Anche questa obiezione è semplice da risolvere:  se c’è un complotto non sei certo tu l’unico talmente intelligente da andare oltre alla cortina di fumo che hanno diffuso per tapparci gli occhi. Quindi parliamo di quello che sappiamo.

La seconda è che la bontà delle opinioni di chi è genuinamente favorevole all’intervento sia inficiata dalla malafede di chi le attua. Io non so a quali segretissime fonti abbiano accesso queste persone per leggere le menti di quei capi di Stato, tuttavia c’è un dato abbastanza ovvio: se Cameron, Obama e Sarkozy non agiscono su considerazioni umanitarie, non lo fanno certamente coloro che sono sempre stati riluttanti all’intervento: Hu Jintao, Putin/Medvedev, ma anche i Partiti dell’Egoismo come la Lega Nord o i Tea Party. Se la mia opinione a favore dell’intervento è “sporcata” dal fatto di condividerla con Obama, quella di chi è contrario ha una compagnia ben più odiosa: quella di Borghezio, di Putin, di Hu Jintao, e di tutti i dittatori del mondo a cui piace la camera disordinata così com’è. Sarà meglio rassettarla?

E noi stavamo a guardare (i cartoni)

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Mi racconta Jai:

Il mio amico Alex ha vissuto anni in libia, dai suoi 6 ai 10. Ogni volta che gli dico, tipo, «oh, ti ricordi Holly e Benji?», lui mi fa, sempre (ormai è una gag standard), «in tv da me facevano le impiccagioni in diretta, al massimo».

Penso che la prossima volta che userò l’espressione “un capo del governo possiede tutte le televisioni” mi verrà un groppo in gola pensando all’infanzia di Alex.