Sabato 31 gennaio

I bambini – Diario dalla Palestina 154

Dunque due racconti che ieri non vi ho fatto a proposito di Popcorn e cinema:

1 – Mentre stavamo guardando il Robin Hood Tina si alza, viene da me e mi chiede «posso andare al bagno?»; io mi stupisco – non devono mai chiedere se possono andare in bagno, se hanno bisogno ci vanno – e trasparendo nella mia incomprensione, dico «sì, certo, perché no?». E lei: «nono, questo vuoldire che devi fermare il film!».

2 – Durante la proiezione Ghaida si è girata verso di me e mi ha fatto la linguaccia, allora io le ho risposto con la linguaccia, e lei mi ha ririsposto con la linguaccia, così poi io le ho riririsposto con la linguaccia, e poi lei mi ha ririririsposto con la linguaccia, e alla fine io – che sono una persona seria – le ho fatto l’occhiolino come per dire «dài, ti voglio bene, ma se andiamo avanti così non finiamo più: ora guardiamo il film», e mi sono messo a vedere il film.
Ora direte voi: e che c’è di strano? Tu sei grande e grosso, e quella è una bambina. È normale che tu sia più “saggio”.

Ecco, il fatto è che ve l’ho raccontata al contrario: cioè sono io che ho cominciato a farle la linguaccia e lei che, saggia, a un certo punto mi ha fatto l’occhiolino come per dire «ok, ora torniamo a Robin Hood».

Oggi c’è il sole

Oggi si vota in Iraq: comunque la si pensi sulla quella guerra che ha portato tanti morti e queste elezioni (io continuo a pensarla più o meno così) è un bel giorno per l’Iraq e per il mondo. Per tutti coloro che rifiutano di pensare che gli arabi sono inferiori e i mussulmani “non sono pronti per la democrazia”, oggi c’è il sole.

Venerdì 30 gennaio

Pop corn e McGyver – Diario dalla Palestina 153

Tutto comincia qualche giorno fa, quando abbiamo preparato la stanza a mo’ di cinema per vedere il film: sedie in prima fila, sedie in seconda fila, sedie in terza. Difatti, proprio come al cinema, appena diamo il via libera i bambini si catapultano, di corsa, per prendere i posti migliori. A quel punto, una delle mie scemate, prima di far partire il “quadro”, scrivo a caratteri cubitali sullo schermo “avete pagato il biglietto?”.

Seguono lamentele: «noi non paghiamo il biglietto perché non ci sono i pop-corn!» «senza i popcorn non è un vero cinema!». Uno a zero per i bimbi, dunque.

Era dura, perché al centro di Amal non c’è una cucina o un fornello. Ma non potevo non raccogliere la provocazione, così ci siamo consultati con Ahlam su cosa si potesse fare: «eeeh, se avessi ancora la bici potrei andarli a fare a casa, e tornare di corsa – ma a piedi arriverebbero più che freddi», dicevo io; «maddai, sono buoni anche freddi», diceva lei; «mannò, freddi non sono come al cinema», dicevo io; «Beh, ma comunque non lo sanno, il cinema l’hanno visto in televisione», diceva lei.

Perché dovete sapere che a Betlemme un cinema non c’è, ce n’era uno, ma è andato a fuoco e nessuno l’ha più ricostruito: ora la zona dove c’era il cinema si chiama “cinemà”, con l’accento sulla ‘a’ finale ma un cinemà non c’è.

«Possiamo chiedere a Nabil, se ci presta la cucina», ma ad Ahlam scocciava molto chiedere a Nabil. Così – c’era un mercoledì libero di mezzo – mi sono trasformato in McGyver, e al grido “se si vuole davvero fare, si può fare” ho preso da casa pentole, grani, mestoli, olî, scolatoî. Poi, inquadrato il mio obiettivo (una stufa elettrica), ho impugnato un cacciavite di fortuna (un coltello) e zac, via il coperchio. Poi un barattolino di vetro da mettere sotto alla stufa in modo che, adagiata per terra, sia orizzontale:

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Poi si riavvita il coperchio in modo che sia molto più vicino alla fonte di calore, ma certi che il ferro non tocchi l’altro ferro, ed ecco qui Tina in posa, mentre si dà alla cucina – purtroppo Ahmed, il fotografo, non è bravo alla macchina fotografica, quanto Tina è brava con i popcorn:

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Ed eccomi che servo il primo giro – Tina sembra divertita, ma mica tanto convinta di quei pop corn:

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Alla fine tutti se ne convinceranno, a mani piene:

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Tuttavia, è ovvio, i popcorn non li hanno distratti dalla proiezione di Robin Hood:

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Lo spirito di Roma

Quando dico che in Palestina mi manca lo spirito di Roma, ovviamente mi chiedono cosa sia questo spirito, non so mai bene come spiegarlo, allora racconto il solito episodio: scatta il verde al semaforo, ma la prima macchina in fila vede alla guida una ragazza intenta a truccarsi; caso vuole che il mezzo dietro di lei sia un camion, con tanto di camionista d’ordinanza. Il quale non fa nessuna delle due reazioni che uno s’aspetterebbe, quello educato che aspetta pazientemente, e quell’altro – più comune – che si attacca al clacson, incazzoso. No, lui si sporge col gomito dal finestrino e – rivolgendosi alla pilotessa della macchina davanti – in tono bonario fa: «a regazzi’, piuvverde deccosì nun ce diventa».

Ecco da oggi, grazie ad Alessandro Gilioli, di episodî ne ho un altro:

Oggi, sull’autobus 714, durante un alterco tra passeggeri imbottigliati, a un certo punto uno dei litiganti se n’è uscito con la più classica delle frasi, quella che credevamo ormai confinata alle commedie degli anni ’60: «Lei non sa chi sono io!» – ripetuta oltre tutto almeno tre volte.

Ad alterco consumato, il litigante in questione – un cinquantenne onusto di sdegno – se la prendeva anche con il conducente del suddetto 714, gridandogli: «Basta, me ne vado, mi faccia uscire di qui!».

Al che il dipendente dell’Atac – incuriosito dagli eventi – ha frenato e si è voltato pacato verso i passeggeri: «Io je apro, dottò, però adesso ce dice chi cazzo è lei».

Giovedì 29 gennaio

Dopo il nazista ciclista, il nazista dentista – Diario dalla Palestina 152

Ho sempre saputo che i dentisti non stessero simpatici in giro, e – con quel trapano – avevo anche sentito ‘sta metafora… ma non pensavo seriamente:

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Qui un’altra entrata, ma senza caratteri latini:

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Della differenza fra stelle e strisce, e stivali

p.s. Ma davvero il traduttore della Rai ha detto “perseguire una piena misura di felicità”? Cioè, capisco che il lavoro di traduttore simultaneo è un compito ingrato, e che sul momento venga più automatica una traduzione letterale. Ma cavolo, la Dichiarazione d’Indipendenza l’avrai studiata un milione di volte.

Se non ho capito male

Mi era stato rimproverato, e mi ero rimproverato, di non aver parlato della politica italiana. Meglio dice, non è quella l’emergenza, è qui, lì dove stai tu. E sì, difatti è qui l’emergenza della laicità, e del sorriso di tante donne. Però, proprio su Eluana Englaro, sulla vicenda della quale mi ero intestardito a non cercar le parole per scrivere, Adriano Sofri ne ha scritte di molto migliori di quelle che avrei potuto scrivere io, impegnandomi:

Gentile Davide Rondoni, un suo fondo sull’Avvenire di sabato addebita a me e ad altri, a proposito del destino di Eluana e dei pronunciamenti del ministro Sacconi e del cardinal Poletto, d’esser mossi dal “livore”. Ci ho pensato, e non mi riconosco affatto in questo pessimo risentimento. Né in genere, né in particolare. Apprezzai convintamente il cardinal Poletto quando disse cose che mi sembrarono, oltre che giuste, coraggiose. Dissento da lui in questa. Non provo livore verso i credenti e la chiesa, i suoi uomini e le sue donne. Nemmeno verso di lei, che pure impiega parole molto spinte. Provo a illustrarle una differenza incisiva fra noi due, se non mi sbaglio. Se io incorressi in una condizione come quella di Eluana e di tante altre persone, vorrei con tutto me stesso essere esentato, ed esentare le persone che amo, dall’alimentazione forzata. Questa mia rigorosa convinzione non mi potrebbe mai indurre a esigere e neanche a suggerire un desiderio e una scelta analoga a chicchessia. Per esempio a lei, se dovesse un giorno trovarsi in quella condizione. Invece lei, se non ho capito male, non si accontenta di difendere una scelta opposta per sé e per chiunque la condivida, ma vorrebbe estenderla a me. Per questo dissento da lei, e anzi ho un po’ paura. Non livore: un po’ di paura.

Mercoledì 28 gennaio

Occupazione – Diario dalla Palestina 151

Ho sentito più volte, durante la guerra a Gaza, dire che la Striscia non è più sotto occupazione dallo smantellamento delle colonie tre anni fa: questa è sia una mezza verità, che una bugìa deliberata.

È una mezza verità perché, come per i campi profughi, l’occupazione non è quello che ci si immagina in Europa se si sente parlare di “occupazione militare”, ma questo non ha nulla a che fare con il (ovviamente commendevole e necessario) piano di Sharon del 2005, con cui l’ex premier ha demolito gli insediamenti e portato via di forza i settemila abitanti.

È invece una bugia per molte ragioni, alcune delle quali proverò a raccontare: Israele si è ritirata da Gaza nel senso che ha portato via i coloni, e di conseguenza i soldati che servivano a difendere quelle colonie. Questo cambia veramente poco in termini di “occupazione”: i soldati israeliani agli incroci non ci sono da Oslo I, ovvero dal ’94-’96. L’esercito, invece, entra per le operazioni militari, come succedeva prima del ritiro dei coloni. La maggior parte delle volte sveglia la gente in piena notte (è, ovviamente, l’orario meno rischioso) e gli dice “domani presentati al commissariato X domani”. Altre volte va a finire peggio, con degli arresti. E altre volte ancora, ci scappa il morto.

Secondo il criterio dello smantellamento delle colonie Ramallah sarebbe sotto occupazione e Gaza no, ed è ridicolo sostenerlo. L’occupazione militare, invece, è l’altra faccia del non avere uno stato da parte dei palestinesi. Quindi vuoldire non avere dei confini, e non avere una frontiera: se un palestinese vuole andare in Giordania, passerà dal Ponte di Allenby che è una vera e propria frontiera israeliana, con tanto di esercito e timbri israeliani. Se un abitante di Gaza vuole uscire da Gaza, più semplicemente, non può: perché tutte le frontiere sono chiuse, e i valichi (anche quelli) sono tutti gestiti da Israele, tranne quello di Rafah che è gestito dall’Egitto – a seguito di un accordo Israele/Egitto, non Egitto/Palestina – e supervisionato da Israele.

A Gaza è Israele a decidere cosa entra e cosa esce (legalmente, poi ci sono i tunnel), a Gaza si paga con gli Shekel – ve lo immaginate il fondamentalista di hamas che compra il pane per le quattro mogli con le monete con sopra la Menorah? Ecco, succede. A Gaza (come nel resto della Palestina) non ci sono ambasciate straniere. E così via.

Io considero molte delle cose che talvolta vengono imputate all’occupazione, prima di tutto la drammatica condizione delle donne, come estensioni abusive dei nessi causali. E non sono per nulla persuaso che se Israele terminasse questa occupazione-soft che dura da 40 anni, Hamas accetterebbe la convivenza. Però dire che questi tre anni di governo Hamas a Gaza hanno dimostrato che – anche senza l’occupazione – i palestinesi vogliono distruggere Israele è falso.