Eroina o filibustiera?

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La storia di Wendy Davis dimostra, una volta di più, la nostra disposizione all’indulgenza nei confronti dei metodi con cui si conducono le battaglie che ci stanno a cuore. Lo dimostra, in realtà, l’entusiasmo che ho letto, sia in Italia che in America per quello che ha fatto questa senatrice. La storia è questa: negli Stati Uniti, in anni recenti, si è molto diffuso l’ostruzionismo parlamentare. È il motivo per cui passare una qualche legge “sensibile” in Congresso (quello federale) è diventato praticamente impossibile. In Texas si votava una legge restrittiva nei confronti dell’aborto, e questa senatrice democratica ha fatto ostruzionismo nel modo più classico per gli Stati Uniti: fare degli interventi molto lunghi. Nel suo caso, ha parlato per 10 ore, aggirando le regole molto restrittive per impedire questo tipo di operazioni: non si può andare fuori tema, non ci si può interrompere, neanche per andare a fare pipì, non si può mangiare, non ci si può sedere né appoggiare. Dopo un’ulteriore questione sull’essere passata o meno la mezzanotte, la legge è decaduta proprio per l’opera di Davis.

L’ovvietà sarebbe pensare che Davis abbia fatto una scorrettezza: ha aggirato delle regole – sensate – per impedire che una minoranza blocchi, con stratagemmi e non col consenso, il volere della maggioranza. Ha approfittato di una questione tradizionale, in America, ma bizzarra, cioè l’assenza di un limite di tempo per il suo intervento; e di una cosa molto vicina a un cavillo: la scadenza della possibilità di passare la legge dopo la mezzanotte. Insomma, ha operato completamente in quella zona grigia occupata dalle cose ingiuste, eticamente ingiuste (almeno a livello procedurale: quello che al liberalismo, da Locke, sta più a cuore), ma non ancora illegali.

Non pensate? Provate a pensare alla stesso esempio, ma all’inverso: cioè di una cosa simile fatta per ostacolare una legge che ritenete giusta. Facciamo questo esempio qui: in Italia matura finalmente una maggioranza di persone che è favore del riconoscimento delle coppie omosessuali. C’è una maggioranza popolare che è chiaramente espressa in una maggioranza parlamentare. Si vota questa legge, che ha largamente i numeri per passare: solamente che Giovanardi o Paola Binetti, pronunciandosi solennemente dalla parte di Dio, organizzino un ostruzionismo deciso. Presentano centinaia di emendamenti, così che ci si metta giorni ad affrontare il testo finale, invitano in Senato un centinaio di persone che si mettono a gridare “Uomo e Donna! Uomo e Donna!”, così che il presidente del Senato debba far sgombrare l’aula, rinviando il dibattimento ai giorni successivi. Poi, grazie a uno stratagemma, riescono a presentare un emendamento che collega le unioni gay a un’altra questione accessoria, così che alcuni parlamentari siano costretti a votarlo. Alla fine, si scopre, scrivono un altro emendamento apparentemente inoffensivo, in modo che esso si contraddica, e che così la Corte Costituzionale lo bocci. La legge così non passa.

Cosa succederebbe? Che saremmo tutti furibondi. Alcuni parlerebbero di Colpo di Stato, altri chiederebbero l’arresto di Giovanardì. Più ragionevolmente, in molti lo considererebbero un lestofante, uno capace di tutto per far prevalere la propria idea su quella della maggioranza del Paese. Anzi, a dire il vero, c’è qualcuno che non la penserebbe così: il partito di Giovanardi. Anzi: a confermare la disinvoltura con la quale ci va bene che il fine giustifichi i mezzi – quando questo fine è in accordo con la nostra idea – il partito di Giovanardi lo difenderebbe, dicendo le cose che abbiamo sentito tante volte: le regole sono queste, abbiamo rispettato le leggi, è tutto dentro alle normali strategie parlamentari, eccetera, eccetera.

Ecco, se c’è una cosa che rende inutili i dibattiti, i confronti di vedute, che rende impossibile qualunque progresso generato da un’onesta e attenta discussione d’idee è questa. Questo pregiudizio positivo – questa dissonanza cognitiva – che si ha nei confronti di chi si considera della propria squadra, e delle strategie che vengono adottate per raggiungere le idee che condividiamo. Quelle idee che, così, si dimostrano immutabili e, perciò, stupide.

Cosa pensare delle proteste in Turchia

per Il Post

Questo post dà per scontante diverse cose che avevo spiegato in questo post–bignami, se non l’avete letto è meglio leggerlo per primo.

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È molto difficile analizzare e interpretare il corso e il significato di queste proteste in Turchia. Ed è soprattutto difficile decidere da che parte stare. In realtà è molto facile capire da che parte non stare, quella di Erdogan, per motivi fin troppo ovvî: l’autoritarismo, la rivendicazione del ruolo della religione in politica, la soppressione del dissenso. Ma la grande incognita è: la parte degli altri che parte è?

Questo non l’ha capito nessuno. È una protesta libera e confusa, caotica e disorganizzata, questa è la sua forza, ma anche la sua debolezza. Le stesse fazioni protagoniste delle manifestazioni sono combattute fra il cercare di mostrare un’immagine – più efficace – di una protesta coesa e unitaria, e il tentativo di orientare la protesta a beneficio della propria fazione.

COSA NON VA, SONO POCHI
La prima cosa da non dimenticare è anche la più semplice: questa è una protesta di minoranza. Non si tratta di un giudizio di valore, ma squisitamente numerico. L’AKP, il partito di Erdogan, ha preso il 50% alle scorse elezioni, e nessuno mette in dubbio che sia tutt’ora maggioranza nel Paese – i sondaggi lo dànno addirittura in crescita.

Nel Parlamento turco ci sono 4 partiti, BDP (sx, curdo), CHP (csx, kemalista), AKP (cdx, islamico), MHP (dx, nazionalista): tre di questi, che insieme fanno il 45% dell’elettorato, hanno moltissime differenze, e come unico punto in comune quello di opporsi al quarto partito, che da solo ha più voti di loro. Quelli che manifestano oggi sono coloro che si oppongono a questa egemonia.

Si è parlato anche della fondazione di un nuovo movimento a partire da queste manifestazioni, ma proprio per le stesse ragioni è difficile immaginare quale ne possa essere la base politica, tanto più che la legge elettorale turca scoraggia questo tipo di iniziative (con uno sbarramento al 10%). È possibile che le manifestazioni di questi giorni spostino parzialmente gli equilibrî politici descritti sopra, ma per fare sì che abbiano una vera rilevanza, le opposizioni dovrebbero accordarsi in una comune agenda politica, cosa che – molto semplicemente – non può succedere.

COSA NON VA, SONO TROPPI
La protesta è cominciata dall’iniziativa di un deputato del BDP per impedire la distruzione di un parco a Istanbul; pochi giorni dopo la sede del BDP di Smirne, la principale roccaforte del CHP, è stata presa a sassate (mentre quella dell’AKP è stata data alle fiamme) da quelli che – in teoria – sarebbero gli stessi dimostranti.

In molti, specie fra curdi e ambientalisti, è cominciato a maturare un sentimento di insofferenza e mutilazione per la cannibalizzazione delle manifestazioni da parte dei kemalisti (CHP), e più in generale delle forze nazionaliste (MHP): lo slogan più diffuso è «Erdogan dimettiti», ma il secondo è «siamo i soldati di Mustafa Kemal», cioè Ataturk, e il terzo è «beato chi si può definire turco».

Le manifestazioni sono gonfie di bandiere turche e di ritratti di Ataturk: si può manifestare contro un governo sventolandone la bandiera? E si può manifestare assieme ai rappresentanti di un popolo – quello curdo – che è stato annullato, deportato, e ucciso sotto l’ordine diretto di un personaggio storico, sventolando il vessillo di quello stesso personaggio storico?

È probabilmente inevitabile, e forse anche auspicabile, che in un tipo di protesta come questa si convoglino diverse prospettive, speranze e pretese; ma la reciproca diffidenza delle varie anime che manifestano, e la contraddittorietà delle ambizioni che spingono curdi, laici, militari, nazionalisti e ambientalisti a manifestare, rendono molto difficile che ciascuna di queste istanze si concretizzi in una rivendicazione comune e soprattutto concreta. La società turca è troppo frammentata, balcanizzata in gruppi ideologici e identitarî, e così lo è la parte di Turchia che si oppone all’AKP, con fazioni che si guardano vicendevolmente con ostilità – anzi, inimicizia – e, su alcuni temi, sono anche più vicine all’AKP che fra loro.

COSA VA
Sembra una battuta, ma non lo è: questa è una delle poche volte, almeno in Medio Oriente, che chi scende in piazza vuole meno Dio in politica rispetto a chi è al potere. Chi protesta, protesta – anche – contro una legge che vieta gli alcolici durante le ore notturne, contro scuole elementari sempre più confessionali, contro un’islamizzazione simbolizzata, in questi giorni, da un episodio di cui si è parlato molto in Turchia: il divieto, espresso da un funzionario dell’AKP di Ankara, a due ragazzi di baciarsi in pubblico.

Questo fattore – quello della lotta popolare per la laicità – è ancora più importante in Turchia, dove per decenni c’è stata una parte politica, quella che ora sostiene l’AKP, che si è sentita defraudata della propria legittimità popolare, attraverso i colpi di Stato dell’esercito; questo ha fatto sì che fino a pochi anni fa la lotta per la laicità delle istituzioni sia sempre stata associata – anche simbolicamente – all’autoritarismo. Qualunque turco laico si è sentito spesso accusare di essere “al soldo (o schiavo) dell’esercito”.

Inoltre, per la stessa ragione la risposta alle due domande sopra potrebbe essere, genuinamente, «forse sì». È possibile manifestare contro un governo portando la bandiera di quello stesso governo? È possibile che rappresentanti di un popolo sfilino assieme a chi inneggia al padre della patria che ha, coscientemente, annichilito quello stesso popolo? Forse sì. Forse in Turchia, uno dei Paesi più nazionalisti al mondo, è addirittura necessario.

L’affezione, che spesso sfocia in suprematismo, è una parte imprescindibile della storia e dell’identità turca, e muove moltissime scelte politiche, militari ed economiche. Per fare un esempio poco conosciuto in Occidente, i turchi finanziano la costruzione e il mantenimento di numerose scuole turche all’estero (i figli dell’aristocrazia in molti Paesi arabi o ex sovietici vengono mandati alle scuole turche, come un tempo accadeva per quelle francesi), nel nuovo Iraq sono già 30.

Si può considerare negativamente il nazionalismo, o molto negativamente come faccio io, ma una maggiore integrazione di una società estremamente polarizzata, quasi atomizzata, non può che passare attraverso la costruzione di un’identità condivisa. È un processo che, come dicevo, molti Paesi europei hanno fatto uno o due secoli fa, ma che in Turchia non è mai avvenuto, anzi manca del tutto: ci sono i turchi “bianchi”, i turchi “neri”, e i curdi (oltre a mille altre minoranze intrecciate, spesso tutt’altro che piccole, come gli aleviti). E, naturalmente, questo ipotetico processo di identificazione collettiva dovrebbe passare anche attraverso una perdita di memoria. Come diceva Renan, raccontarsi delle frottole sul proprio passato è parte essenziale dell’essere una nazione.

COSA SUCCEDERÀ, I PERICOLI
Nel breve termine i pericoli sono molto chiari, e di speranze se ne vedono davvero poche. La cosa più probabile è che queste proteste si disperdano via via e, lentamente, muoiano nella constatazione che nulla sta cambiando concretamente. Tranne nell’ipotesi, oggi molto remota, di una nuova discesa in campo dei militari, è molto difficile che queste proteste operino un cambio di regime, rispetto a un partito che ha tuttora una solidissima base elettorale.

Se è vero che l’AKP ha ancora un largo consenso, è anche vero che Erdogan ha fatto molti errori nella gestione di queste proteste. Ha mantenuto, e anzi rivendicato, un pugno duro contro i manifestanti che lo ha identificato – non a torto – come il principale responsabile del comportamento della polizia. In questo senso Erdogan sta giocando molte delle sue carte in un gioco particolarmente rischioso, che potrebbe tranquillamente perdere se un altro membro dello stesso partito – o di quell’area culturale – decidesse di prendere una posizione più dialogante, come il presidente Abdullah Gul aveva accennato a fare durante la prima settimana di proteste.

Ma il vero pericolo per Erdogan non è costituito da Gul, personaggio notoriamente più moderato e meno populista, ma suo amico personale e riconosciuto contraltare. Piuttosto, una figura da tenere presente è Fetullah Gulen, guida del “Gulen movement”, un movimento religioso che – attraverso i suoi aderenti – costituisce la base di una buona parte del consenso dell’AKP. Se si vuole fare una similitudine spericolata, solo per capire da una prospettiva italiana, si può dire che se Erdogan ha molto di simile a Berlusconi, il Gulen movement ricorda una turca Comunione e Liberazione, ma più potente e con un peso politico molto maggiore (molto maggiore, sì, avete capito bene). E sarebbe un paradosso che da una protesta che ha come tema cardine la laicità, ne traesse giovamento un leader religioso.

Il rischio maggiore, però, è certamente quello che l’indebolimento di Erdogan possa minare il processo di pace fra Stato turco e milizie curde, firmato recentemente da Ocalan (capo del PKK in prigione) e lo stesso Erdogan, certamente la miglior cosa fatta dal primo ministro turco negli ultimi anni. Sia il CHP che i nazionalisti, com’è tradizione, si sono detti contrari a questo processo di pace, e anche Gulen ha sempre espresso alcune riserve. Una perdita di forza di Erdogan potrebbe mettere un freno alla realizzazione dei successivi passaggi dell’accordo, quelli più impegnativi per lo Stato turco dopo il ritiro – avvenuto come da patti – delle milizie del PKK dalla Turchia. Questo sarebbe un vero disastro.

COSA SUCCEDERÀ, LE SPERANZE
Come detto, nel breve termine si stenta a vedere una possibile evoluzione positiva di queste proteste, specie dopo il corso, ancor più autoritario e repressivo, scelto da Erdogan. Forse, però, alzando lo sguardo un po’ più lontano si può riuscire a intravvedere qualche speranza.

Il grande dibattito sulla società turca, quello più interessante e più gonfio di significati profondi e conseguenze ideali, è sempre stato quello sul kemalismo: il processo, profondamente riformatore e secolare, ma al tempo stesso autoritario, di Ataturk è stato un successo oppure no? Ataturk ha tentato, nello spazio fulmineo di una di un paio di generazioni, di modernizzare – sul modello europeo – una delle società più conservatrici del tempo, quella ottomana.

Per forzare quegli stessi processi che negli Stati Europei avevano impiegato due secoli, ha usato un autoritarismo oligarchico. Ha fatto pulizia etnica, ha soppresso il dissenso, e ha cercato di escludere – per legge – qualunque manifestazione pubblica della religione, con le leggi più severe e intransigenti che qualunque Paese non comunista al mondo abbia mai visto. Questo dibattito sulla secolarizzazione forzata è anche, ovviamente, un dibattito sulla possibilità di una democratizzazione dell’Islam.

I successivi decenni del ventesimo secolo possono essere visti come i rigurgiti, di quella società conservatrice, contro un’innovazione avulsa e forzata. Religiosi che riguadagnavano il potere, e seguaci di Ataturk – nella forma dell’esercito – che facevano un colpo di Stato per riprenderselo, e riassicurare la tutela della laicità. In questo ultimo decennio, con la salita al potere dell’AKP e l’indebolimento dell’esercito, il quesito al centro del dibattito è cambiato: l’arrivo al governo di una forza islamica, ma certamente meno integralista di quelle passate, è il tradimento del sogno di Ataturk o ne è il suo compimento?

La vittoria dell’AKP è la sconfitta del secolarismo kemalista o è il successo di quel processo di secolarizzazione che ha reso possibile la creazione di un partito d’ispirazione religiosa, ma responsabile e senza spinte teocratiche, equivalente a un partito cristiano-democratico europeo (come dice spesso Erdogan)? Nei primi anni 2000, anche grazie alle aperture all’Europa e alla democratizzazione, la risposta sembrava essere l’ultima: l’AKP sta diventando un centrodestra europeo.

Negli ultimi anni, però, con il continuo accrescimento del potere, e la svolta confessionale e autoritaria che il governo Erdogan ha preso, si è tornata a fare strada la prima ipotesi: un partito d’ispirazione religiosa, per di più islamica, comincerà inevitabilmente a reclamare un’invasività nelle scelte delle persone, sull’istruzione, sugli stili di vita. Non è un caso che, nelle proteste di questi giorni, una delle accuse trasversalmente più diffuse sia stata proprio quella di “mettere bocca nel proprio stile di vita”.

La preoccupazione, quindi è che Erdogan voglia trasformare la Turchia in una sorta di Dubai (o Qatar, o per fare un esempio al di fuori del mondo islamico, il Cile di Pinochet), uno Stato con grandi libertà economiche, ma confessionale e autoritario, con limitate – o limitatissime – libertà di dissenso, e di comportamento. Delle preoccupazioni ben riassunte in questa bella foto:

Per questo è importante che queste proteste siano, e auspicabilmente si mantengano, plurali e multiformi. Come dicevo, è difficile immaginare che attraverso delle dimostrazioni si rimarginino ferite profonde un secolo; però, in un passaggio storico per la Turchia, come saranno certamente ricordate queste proteste, un piccolo tassello – se proprio ci sforziamo a essere ottimisti – si sta costruendo in questi giorni, su due fronti.

Per prima cosa, il solo fatto che curdi e kemalisti, non dico manifestino insieme, ma condividano una protesta è già degno di nota (per chi conosce un po’ di Turchia, anche soltanto questa foto scattata a Londra è assurda). E in questo senso – al contrario di quanto detto prima – il fatto che i contenuti delle manifestazioni siano impostati molto sui principî e meno sui dettagli concreti è un vantaggio.

Inoltre, e questa è forse la cosa più importante, il fatto che molte anime protestino in piazza per la laicità e contro l’islamizzazione di una società cardine del Medio Oriente, quella a cui tutte le rivoluzioni arabe hanno guardato, è estremamente positivo. È importante che la parte laica della Turchia guadagni una consapevolezza e una coscienza civica che – quasi inevitabilmente – nei decenni passati è sempre stata demandata alla tutela dell’esercito che ne custodiva il valore, ma anche il monopolio.

Questo è significativo anche per quell’altra parte di Turchia, quella che vota l’AKP, e che per la prima volta vede nella laicità un principio difeso da un’opposizione democratica – un’opposizione che, perciò, dovrà cercare di guadagnare consenso, anche il loro – e non come un’istituzione imposta dai militari. Naturalmente non c’è alcuna garanzia che le cose andranno così, che la laicità diventi un patrimonio condiviso di tutta la Turchia. Ma l’alternativa non c’era: non si poteva continuare a colpi di Stato per sempre.

Un po’ di Turchia

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Un paio d’anni fa mi sono messo a studiare abbastanza approfonditamente la storia e la politica della Turchia, e l’ho scoperta essere il Paese più complesso, contraddittorio, peculiare, e interessante al mondo. È uno di quei posti dove le categorie con le quali siamo abituati a pensare alle cose saltano, e quindi è molto difficile farsi un’opinione – cioè declinare il proprio pensiero generale in un contesto preciso – su quello che succede. Com’è possibile? L’esercito è il garante della laicità? La destra, ma non l’estrema destra, è la più europeista? Il centrodestra è meno ostile ai curdi, e alle minoranze, del centrosinistra? E l’occupazione militare, lunga trent’anni, di un Paese dell’Unione Europea, cioè Cipro? Sono tutte, queste e molte altre, posizioni strane, che si possono capire solo alla luce della storia della Repubblica turca.

In questi giorni di proteste mi sono trovato spesso a raccontare un po’ di queste cose, a persone e amici che cercavano di capire e che magari in passato mi avevano sentito dire frasi come quella con cui ho aperto il post: “la Turchia è il Paese più complesso e interessante al mondo”. Così ho pensato di mettere giù anche qui un po’ delle cose che penso siano importanti per capire queste proteste: è un racconto non solo parzialissimo e superficiale – un disclaimer che per la Turchia è ancor più necessario – ma è anche frutto della mia personale interpretazione degli eventi. Magari, però, a qualcuno può essere comunque utile per farsi un’idea.

Una considerazione chiave è questa: per capire la Turchia del XX secolo, non la si può confrontare con gli Stati europei dello stesso periodo, ma bisogna analizzarla attraverso la lente e le categorie dei due secoli precedenti: il nazionalismo era, a quel tempo, un’istituzione progressista, volta a conferire per la prima volta al popolo un diritto di legittimità su qualcosa: la propria terra. Nel caso di Ataturk, era in opposizione alla monarchia assoluta, storicamente e religiosamente importantissima, dell’Impero Ottomano, o anche l’ultimo Califfato (per capirne l’importanza, anche a livello dottrinario, basta pensare che il Califfato è l’unico degli imperi dissoltisi con la prima guerra mondiale ad avere ancora dei sostenitori).

In questa prospettiva due cose (lascio da parte altre, come la politica estera e la dearabizzazione, altrettanto interessanti ma non strettamente legate alle proteste di questi giorni) erano una minaccia per la coesione identitaria della Turchia: la religione e l’eterogeneità etnica. Per questo, la Repubblica è stata fondata su leggi che, al tempo stesso, vietavano e ne davano allo Stato (e quindi all’esercito, Ataturk era un generale) il controllo, di ogni manifestazione religiosa. Per le medesime ragioni, venne bandito qualunque tipo di riconoscimento dell’identità curda, anche il più flebile: parlare in curdo, la prima lingua di milioni di persone residenti in Anatolia, era vietato e punito come attentato allo Stato.

Tutti i successori di Ataturk hanno sempre conservato questo orientamento, rappresentati in quello che è sempre stato il partito kemalista (il vero nome di Ataturk era Mustafa Kemal) di riferimento, il CHP. Il CHP è un partito socialdemocratico – Ataturk era un estimatore dei socialismi europei –, attuale membro dell’internazionale socialista, che ha però delle peculiarità: è sempre stato strenuamente filo-occidentale (ma non filo-europeista, almeno negli ultimi decenni), ha delle posizioni fortemente nazionaliste, è molto legato all’esercito, ha rapporti pessimi con i partiti comunisti (che in Turchia sono curdi), è profondamente laico (fino al 2008 era vietato l’accesso al partito a chi portasse il velo).

Il problema è che, come spesso accade, la popolazione – specie quella rurale – è sempre rimasta più legata alle proprie tradizioni religiose rispetto all’élite cittadina, burocratica (e militare) che era l’ossatura del CHP. Questo ha fatto sì che, con un paradigma che si è ripetuto ogni 10 o 15 anni, ogni volta che si andava alle elezioni la parte conservatrice e religiosa prendeva molti più voti di quelli rispecchiati dalla precedente rappresentanza nelle istituzioni e nella politica. Un governo di stampo più religioso veniva formato: questo provava a riformare lo Stato nel senso di una maggiore apertura al dissenso, alla religione, alle minoranze, cercando inoltre di indebolire l’esercito. Ogni volta che questo succedeva, l’esercito entrava sulla scena politica con un colpo di Stato, varava delle leggi speciali per ristabilire l’ordine e lo “spirito patriottico del kemalismo”, e riconsegnava il potere al CHP.

Questo processo si è ripetuto tre volte e mezza negli ultimi 50 anni, l’ultima (la mezza) poco più di 15. Per questo la Turchia è sempre stata una semi-democrazia, guidata da un’élite con idee talvolta condivisibili, ma che venivano imposte attraverso leggi che altrove considereremmo liberticide, secondo i due principi elencati sopra: 1) la coesione etnica è necessaria per la coesione nazionale: un turco è un turco e basta: 2) l’Islam deve essere controllato e arginato, altrimenti prende possesso dello Stato e lo trasforma nuovamente in una teocrazia. Due esempî particolarmente simbolici, avvenuti nel corso degli anni ’90: la prima parlamentare curda, Leyla Zana, fu incarcerata per dieci anni per aver pronunciato in parlamento, in curdo, la frase «giuro in nome della fratellanza fra il popolo turco e il popolo curdo». Erdogan, l’attuale primo ministro, è stato in carcere per aver recitato una poesia a sfondo religioso. Di più: quando fu eletto doveva ancora scontare diversi mesi della propria pena, così che il mandato fu inizialmente affidato ad Abdullah Gul (il primo primo ministro apertamente mussulmano, oltre che attuale presidente turco).

L’Unione Europea ha sempre obiettato a questo tipo di provvedimenti (Zana è stata anche premiata dalla Commissione come dissidente), spingendo per una maggiore apertura della Repubblica. Ciò ha determinato la curiosa circostanza che, in Turchia, il centrodestra di Erdogan e i partiti curdi (di estrema sinistra, ma particolari: a favore della guerra in Iraq, per esempio) sono i maggiori sostenitori dell’Europa, in quanto potenziali beneficiarî delle aperture richieste, mentre il CHP – di centro o centro-sinistra – è il meno favorevole all’integrazione. Queste posizioni si sono parzialmente evolute negli ultimissimi anni per ragioni di politica estera, ma il nocciolo delle ragioni rimane il medesimo.

Il partito di Erdogan, l’AKP, è l’erede diretto dei partiti pro-religiosi che nei decenni precedenti furono messi fuorilegge dall’esercito. Per la prima volta, nel corso degli anni 2000, un partito è riuscito a contrapporsi al potere militare, smarcandosi dal timore di fare riforme troppo incisive per la paura di un possibile colpo di Stato. Questo è stato possibile per due ragioni: la pressione internazionale in questo senso, e un gigantesco consenso guadagnato dall’AKP, anche grazie a qualcosa di simile al boom economico italiano degli anni 60:  complici una serie di liberalizzazioni, l’economia turca ha fatto un enorme balzo in avanti negli ultimi dieci anni, crescendo a tassi che sfidano quelli dei cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa). Alcuni analisti dicono addirittura che l’economia turca sia la più in salute al mondo (altri sostengono sia una grande bolla illusoria, vedi il primo commento a questo post).

Erdogan, all’inizio più prudente, ha cominciato così a proporre riforme sempre maggiori, accompagnato da un consenso sempre crescente (alle ultime elezioni l’AKP ha preso il 50%, ed è stato considerato un risultato deludente), fino ad arrivare a proporre – e fare approvare attraverso referendum popolare – la modifica della costituzione repubblicana. Tuttavia, nel guadagnare sempre più potere – anziché dismetterle – ha cominciato a utilizzare le stesse istituzioni di repressione del dissenso che aveva criticato, non soltanto smantellando il potere dell’esercito e facendo arrestare quella stessa leadership che lo aveva incarcerato 15 anni prima, ma attaccando anche la libertà d’espressione di quella parte di Turchia che non lo sostiene, con arresti e processi per giornalisti e dissidenti.

Queste, io credo, sono le – riassuntissime, violentate dalla sintesi – premesse necessarie a capire le proteste di questi giorni. Domani provo a buttare giù qualche pensiero più personale su ciò che esse vogliano dire, perché siano esplose, e quali siano i possibili sviluppi. Eccolo qui: LINK.