Siria-Iraq 5-4

All’interno del campo c’è un disprezzo e un razzismo che è difficile immaginare dal di fuori, ma che chiunque abbia lavorato nella cooperazione, in quasi ogni parte del mondo, conosce bene. Non se ne parla, perché non fa fare bella figura alle persone che si cerca di aiutare. Ovviamente mi sono posto spesso la stessa questione, e ho sempre pensato che fosse meglio raccontare la verità.

Qui, con le ovvie lodevoli eccezioni, ogni comunità disprezza e cerca di tenersi alla larga dall’altra: i siriani ce l’hanno con i palestinesi siriani che ricambiano, gli iracheni ce l’hanno con gli yazidi e viceversa, i curdi parlano male di tutti gli altri che parlano male di loro, eccetera. Ma il più significativo sezionamento è quello più grande, fra Siria e Iraq. A chiunque sia nel campo per 24 ore capita di sentire un commento di siriani che incolpano gli iracheni della guerra o viceversa, e questo tipo di segregazione arriva anche ai bambini, istruiti così dai genitori.

Insomma, tutte le volte che un bambino siriano si presenta al campo di calcio (che, come avevo scritto, è l’unica struttura più vicina agli iracheni) viene immediatamente respinto dagli iracheni. Quando ci sono io o altri volontarî, ovviamente, interveniamo. Gli iracheni, che in qualche modo mi sentono come “loro” (fondamentalmente perché vado lì a giocare), si sentono addirittura traditi dal fatto che io acconsenta a far giocare i loro “nemici”. Quando i bimbi iracheni si arrendono all’idea di condividere lo stesso campo con un siriano allora vogliono averlo nella squadra avversaria, quindi si verifica questa brutta scena nella quale gli iracheni mostrano tutto il loro disprezzo cercando di evitare di finire assieme al siriano di turno. Non è un caso, quindi, che di siriani che giocano al campo non ce ne siano molti.

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Gli “schemi” su calcio d’angolo

Negli ultimi tempi, però, eravamo riusciti a integrare qualche bambino siriano senza generare troppe polemiche, e questo aveva portato altri bambini siriani ad avventurarsi in territorio nemico. Solo che è sorto un nuovo problema: da quando i siriani sono diventati una quantità significativa la richiesta è diventata «facciamo Iraq contro Siria!». Per qualche giorno siamo riusciti a tenere a bada questo nuovo livello di competitività. Ci sono stati un paio di giorni nei quali io non sono potuto andare al campo perché avevo troppo lavoro al negozio, quindi non so bene come siano andate le cose, ma più o meno la gestione sarà stata la stessa.

Fatto sta che ieri sia i siriani che gli iracheni erano talmente fermi nel voler fare Siria-Iraq che si sono rifiutati di giocare diversamente. Uno di loro, maestro nell’arte del contrattare, mi ha garantito che sarebbe stata una partita di calcio “e non una guerra”.  Io, che non avevo pensato a quella prospettiva, ho pensato: «beh, dài, è già un progresso», e dopo un quarto d’ora di tira e molla ho acconsentito.

Sono finito a giocare con l’Iraq perché avevano giocatori in meno, e c’era un “grande” nella Siria. Qui non hanno ancora capito quanto sono scarso a giocare a pallone, quindi finisco spesso per sembrare più bravo di quel che sono. Così, da imparziale che dovevo essere, sono finito per essere il capitano dell’Iraq e, dopo qualche minuto di gioco, uno sfegatato sostenitore. I siriani sembravano nettamente più forti, se non altro per questioni di età. Invece ho aperto le marcature, poi siamo andati sul 3-0. L’accordo era di arrivare a 5.

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Qui un mio tentativo di dribbling, credo riuscito, su uno degli “intrusi”

Beh, ora mi tocca raccontare di una disfatta. Avevamo messo la regola che fossero accettati i cambi, perché appena dopo l’inizio della partita è cominciato ad arrivare gioventù da tutto il campo profughi a sostenere l’una o l’altra parte e a chiedere di giocare. Mentre nel “mio” Iraq i cambi erano alla pari, i ragazzi siriani che arrivavano avevano tutti intorno ai vent’anni. Via via, ogni tredicenne veniva sostituito da un ventenne. Abbiamo cercato di resistere stoicamente, facendo un catenaccio degno di Trapattoni e buttandola in avanti a ogni pallone recuperato. Ma non è bastato. Ci hanno raggiunto sul 3-3, poi su un lancione siamo tornati in vantaggio, ma la Siria è riuscita a ribaltare e vincere 5 a 4. Che umiliazione!

Dopo la partita sono tornato quel volontario imparziale che ero, e sono andato a stringere la mano a tutti gli avversarî, congratulandomi per la loro vittoria, ma dentro di me sto ancora rodendomi per la sconfitta

I disegni dei bambini

Ero lì che lavoravo al negozio, cercando di non far entrare i bambini in un’area a loro interdetta perché ci sono degli strumenti scolastici che, più volte, sono spariti. In queste situazioni il tuo pensiero è molto concreto: “etla” (esci), “barra” (fuori), cerchi di ricordarti il nome di quelli che conosci, anche con un certo grado di severità. Alla fine è un gioco quotidiano: Martyna, una delle mie bambine preferite – ma lei non sa di esserlo – prova a entrare nel magazzino tutte le volte che la porta viene aperta, talvolta nascondendosi dietro a ciò che viene portato dentro, talvolta “corrompendo” qualche volontario con il suo sorriso, talvolta prendendo la rincorsa e o-la-va-o-la-spacca. Alla fine sono bambini, bambini come tutti gli altri.

Beh, dicevo, ero riuscito nel mio improbo compito di allontanare i bimbi dall’area scolastica, e l’occhio mi è capitato sui disegni che alcuni bambini avevano fatto a scuola. Ho cominciato, ingenuamente, a guardarli senza neanche ragionare su ciò che avrei potuto trovare, e mentre li scorrevo ho trovato immagini come queste (scusate la qualità delle foto, ma ho visto questi disegni e li ho fotografati):

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La propria casa bombardata non so se dall’esercito siriano o dall’Isis
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Il barcone con il quale, presumibilmente, sono arrivati in Grecia
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L’elicottero che li ha salvati dal naufragio, dopo chissà quanto tempo, in chissà quali condizioni

È difficile immaginare cosa hanno in testa queste creature, prima di vederlo su un foglio di carta. Alla fine sono bambini, purtroppo non come tutti gli altri.

Il negozio

In questi giorni abbiamo finalmente completato il magazzino e appena cominciato a distribuire vestiti nel “negozio”: il sistema sembra funzionare, e ogni giorno arrivano persone a prendere l’abbigliamento di cui hanno bisogno. Fra queste ci sono anche le cose che ho portato in macchina, e ogni volta che vedo un capo che viene dall’Italia sono un po’ stupidamente orgoglioso.

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Il “negozio”

Ho una strana sensazione mentre faccio questo lavoro: mi sento più a mio agio con le persone che mi trattano male. Naturalmente non è una sensazione che faccio trasparire, e che non orienta – per quanto ne sia consapevole – i miei comportamenti: anzi, cerco sempre di fare sì che chi è più gentile e meno arrabbiato riesca a ottenere le stesse cose di chi, inevitabilmente, riesce a ottenere quel che vuole prepotentemente.

Però non riesco a togliermi di dosso questa percezione, quella di un certo disagio nell’avere a che fare con le persone più gentili e più grate per il lavoro che facciamo: a sentire le loro storie – me ne hanno raccontate tante e tante ne racconterò – si ha una tale sensazione di inadeguatezza e impotenza che viene da sentirsi responsabili. Non come occidentali o come europei, ma come esseri umani. E a pensare: «ma come fai a essere così cortese?»

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Questa è la squadra di volontarî che lavora nel negozio: i volontarî sono la cosa che mi ha più stupito qui. Non soltanto, per il poco che le ho conosciute, sono tutte persone di qualità (e io sono uno severo), ma per il livello di impegno e coinvolgimento nelle sorti del campo: qui le giornate (tutte: dal lunedì alla domenica) cominciano alle nove e mezza e finiscono alle nove e mezza, i primi giorni non si faceva neppure una pausa fra la mattina e la sera, e tutti – me compreso – sono contenti di farlo. Si arriva alla sera e si ricomincia.

E stiamo parlando di volontari che non hanno un ritorno economico da tutto questo lavoro, anzi, ciascuno è qui a proprie spese, consumando i proprî giorni di vacanza, e pagando per il proprio alloggio e per la propria cena. A questo proposito: visto che, come avevo raccontato, i soldi delle offerte hanno ecceduto ogni aspettativa e le mie necessità di sussistenza qui, ho cominciato a usarli per le necessità del campo. In questi giorni è stato per l’acquisto di tubi e arnesi per riparare i bagni.

 

Gli yazidi

Nel campo ci sono persone che vengono dalla Siria, dall’Iraq e dall’Afghanistan. Le etnie nelle quali si identificano sono però le più disparate: arabi, palestinesi (che sarebbero arabi, ma qui sono un gruppo distinto), curdi, yazidi.

Gli arabi siriani sono i più influenti qui: un po’ perché parlano l’arabo, che è l’inglese del Medio Oriente, un po’ perché sono di più. Principalmente perché sono più ricchi. Così hanno le tende migliori, quelle più vicine ai punti di distribuzione di ogni cosa, e sono riusciti a costruirsi un ambiente relativamente abitabile.

All’altro capo dello spettro – e del campo – ci sono gli yazidi, lontani da tutto, sprovvisti di ogni comodità, molti dei quali parlano soltanto un dialetto curdo. C’è solo una cosa che è più vicina alle tende in fondo, e cioè agli yazidi, rispetto a quelle davanti: il campo dove organizzo i giochi tutti i pomeriggi.

È un fatto al quale tengo molto, proprio per questa forma di isolamento interno che vivono le comunità più povere. Così, io che pensavo di rafforzare il mio carentissimo arabo mi sto ritrovando a imparare qualche parola di curdo: per ora so contare fino a dieci, dire quando è fallo, “fuori”, “basta”, “piano”, “ai più piccoli” (si vede qual è la mia fonte di nozioni, eh?).

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Lui è Mahir, è uno yazidi iracheno ed è una delle persone con le quali ho più legato qui. Il primo paio di giorni era un ragazzo come gli altri che vuole stare con i grandi e farsi i fatti proprî, poi ha capito che può darmi una mano con i bambini e si è trasformato in una risorsa, umana – è il caso di dirlo – molto preziosa. Certo, senza parlare una lingua in comune è dura: ma è riuscito comunque a raccontarmi un po’ della sua comunità. Mi ha detto che nel campo di Katsika ci sono 249 yazidi che vengono da Sinjar, o Shingal come la chiamano loro.

Sono tutte persone che sono scappate sulle montagne all’arrivo dell’Isis e, più fortunate di altre, sono riuscite a scampare al massacro. Quando parlavo con lui di questo è arrivato anche un signore più anziano che, sempre a poco più che gesti e con le pochissime parole in arabo che condividiamo, mi ha raccontato di come l’intervento sia stato tardivo, di quanti bambini siano semplicemente morti di sete, di come gli elicotteri che lanciavano viveri siano stati pochi e in ritardo.

Ripensavo a quando l’estate scorsa sentivo le notizie dell’assedio di Sinjar, degli yazidi fuggiti nelle montagne, e di come mai mi sarei aspettato di incontrarne uno di persona, tanto meno di giocare tutti i giorni assieme a quei bambini. È una banalità, ma è vero, le notizie che si leggono superano quell’endemico velo di distacco psicologico e assumono un altro potere evocativo se, in qualche modo, incrociano la tua storia vissuta.

Pochissimo a tanti o poco a pochi?

Mi sono trovato a dare dei materassi per bambini. Oddio, materassi è un concetto molto pretenzioso per dei pezzi di gommapiuma tagliati alla bell’è meglio. È, comunque, il meglio che possono avere ora, e in molti, specie nella parte povera del campo – sì, c’è una parte povera e meno “influente”, lo racconterò presto – non hanno neanche questo.

C’è una fotografa del campo che segue le attività. In generale non pensavo di pubblicare troppe foto mie, ma visto che oggi la fotografa mi ha seguito quando andavo a consegnare una tornata di queste barre di gommapiuma, le metto qui. Prometto che nei prossimi giorni saranno di meno:

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Lena, questa bimba, ha insistito per portare uno dei materassi piccoli. Le ho consigliato di metterlo in spalla perché il sole era ben peggio del peso da portare
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Le persone acculturate riconosceranno i segni di erba e terra sui pantaloni tipici delle partite di pallone coi bambini

 

La cosa incredibile è che finora molte persone hanno dormito su delle pietre con delle lenzuola sopra, al massimo con qualche asse di legno a fare da rete. UNCHR ha promesso di rifare tutte le tende del campo, e noi speriamo che lo facciano presto. Nel frattempo si dà quel che si ha, e altri materassi arriveranno presto.

Non dovevo soltanto consegnare i materassi per bambini, ma anche assegnarli. E così mi sono trovato, dopo anni, nuovamente nel dilemma più difficile: dare poco, non abbastanza (ci sono famiglie che hanno sei o sette bambini piccoli), a più persone o dare il sufficiente a pochi, lasciando gli altri senza niente. Per la cronaca, ho deciso per la prima soluzione, di cui mi sono probabilmente già pentito.

L’arrivo

Questa è la prima foto che ho fatto appena arrivato al campo:IMG-20160417-WA0001

Gli imprevisti sono stati diversi già prima di arrivare. Una volta arrivati, tutti i volontarî si sono dovuti registrare all’esercito: è una misura scattata oggi – scelgo bene i momenti, eh? – perché la situazione negli ultimi giorni è diventata molto più tesa. Qualche giorno fa c’è stata una manifestazione dei profughi che hanno interrotto l’uscita dell’autostrada nei pressi del campo, la polizia li ha arrestati e ha incolpato le ong di averli istigati. Non c’ero, non posso sapere, ma già vedendo la situazione del campo ho i miei dubbî che ci sia bisogno di una qualche istigazione.

Il campo è una pietraia sulla quale sono appoggiate delle tende. Katsika è noto a tutti come il peggior campo profughi qui in Grecia, quello meno fornito, con meno infrastrutture e più problemi, quello nel quale nessun profugo vorrebbe finire. Più di una volta hanno portato pullman pieni di gente che si è rifiutata di scendere, creando un braccio di ferro che talvolta è durato per giorni. Insomma, di lavoro da fare ce n’è. Non solo quello, però.

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La partenza

Stamattina sono partito da Roma, con la macchina carica carica, più o meno come me.

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Anche il bagagliaio è tutto pieno

La maglietta è quella di Batistuta che indossavo alla mia laurea italiana. L’avevo prestata a un amico che cominciava una cosa importante, con l’impegno che l’avrei ripresa quando fossi stato io a cominciare qualcosa di davvero importante. Lui l’ha custodita con cura e oggi mi è sembrata l’occasione buona per rimetterla.

Da Parigi mi raggiungerà Louise, una vecchia amica che verrà a fare la volontaria fino a fine mese. A questo proposito in molti mi hanno chiesto se, nel corso delle prossime settimane, mi potrebbero raggiungere a Katsika per dare una mano. La risposta è ovviamente “sì”: chiunque abbia anche solo una settimana da dare, può venire e contribuire molto.  Il campo di Katsika manca di molte cose – è considerato fra i più sforniti e, purtroppo, poco accoglienti – e fra queste cose anche di persone che si mettano a disposizione.

In ogni caso da sabato pomeriggio, quando arriverò al campo, avrò le idee molto più chiare e potrò dare consigli più documentati a chi voglia imbarcarsi nella stessa avventura.

Viva!

Da quando ho scritto il post in cui raccontavo di stare per partire per Katsika sono successe molte cose belle, di quelle che dànno fiducia nell’umanità. Un sacco di gente mi ha scritto, inorgoglita, per esprimermi supporto, dando un significato a questa iniziativa che combacia esattamente con il mio. È un fatto che mi motiva ancora di più a fare le cose, e a raccontarvele.

Le donazioni hanno superato ogni attesa,  3557€, che saranno sufficienti a ripagarmi non solo il viaggio, ma anche molto tempo lì. Se ne avanzeranno, li userò per comprare quello di cui il campo ha bisogno.

Anche le persone che hanno risposto alla raccolta di oggetti e alimenti sono state molte, e riuscirò a riempire la macchina di cose che a Katsika sono necessarie. Raccoglierò tutto fra oggi e venerdì, fra Roma e Brindisi, e se qualcuno avesse ancora qualcosa da dare (dopo aver consultato la lista) mi contatti all’indirizzo email scritto qui accanto.

Una persona mi ha contattato parlandomi del suo progetto, concreto, di mandare dei furgoni di generi di prima necessità nel campo: ovviamente vi aggiornerò su come si sviluppa il progetto.

Grazie a tutti, viva!

Vado a lavorare in un campo profughi, Katsika

Chi segue da tempo questo blog ricorderà il mio Diario dalla Palestina, che era anche l’esperienza per la quale l’avevo aperto: distanti saluti, si chiama così per quello. Feci lì il volontario fra il 2008 e il 2009, lavorando con due gruppi di bambini provenienti dai tre campi profughi attorno a Betlemme, e raccontavo quotidianamente quello che mi succedeva (per chi volesse leggerlo, qui c’è un estratto di venti di quei racconti).

Successivamente ho fatto tante altre cose, alcune delle quali anche in qualche modo rilevanti, ma nel tempo mi sono sempre più reso conto che nessuna di queste mi rendeva soddisfatto del contributo che stavo dando. O almeno non quanto quell’esperienza in Palestina o le successive nell’Abruzzo post-terremoto e in Burkina Faso per combattere le mutilazioni genitali femminili.

Per questo ho deciso di tornare a fare l’unica cosa nella quale mi ero veramente sentito utile. La prossima settimana, il 15 aprile, partirò per Katsika, un campo profughi in Grecia dove arrivano persone in fuga dalla guerra. È in posti come questi che si vive l’emergenza quotidiana del gestire la vita d’ogni giorno di esseri umani che incontrano una nuova frontiera, dopo averne oltrepassate tante, a far loro da ostacolo. In questo momento a Katsika ci sono più di mille persone, ma molte ne vanno e molte ne vengono ogni settimana.

Katsika
Una foto, con il suo permesso, di Dimitris Zarkadas da Katsika: guardate anche le altre, sono belle

Quello che andrò a fare lì, assieme a Olvidados, l’Ong che lavora nel campo, è quello che si fa in una situazione d’emergenza come quella: tutto. Dal distribuire cibo e pannolini, al verificare le necessità in ogni tenda, qualunque cosa di cui ci sia bisogno. E c’è bisogno di molte cose, anche alle quali uno non penserebbe, ad esempio la possibilità di spostarsi indipendentemente: è fondamentale avere una macchina, tanto che chi non la porta l’affitta. Io andrò in macchina e ho pensato che sarebbe uno spreco andare con un veicolo mezzo vuoto: perciò se abitate fra Roma e Brindisi e volete inviare delle cose utili al campo (qui ho tradotto una lunga lista di ciò che serve a Katsika), contattatemi e vi farò da facchino d’eccezione.

Poi ci sono io. Se volete, c’è un modo per dare una mano a me nel realizzare questo progetto, ed è fare una donazione su questo conto [EDIT: grazie a tutti, chiudo la raccolta]. Al campo le giornate sono piene, si esce al mattino e si torna la sera, e questo sarebbe un modo per aiutarmi a ripagare le spese del viaggio, del traghetto, e della vita quotidiana lì. Non ho ancora definito una data di ritorno, perché dipenderà anche da quante delle spese riuscirò a coprire attraverso le donazioni: più riuscirò a raccogliere, più potrò rimanere a lavorare lì. È un’idea che ho da molto tempo, e non potendo permettermi di metterla in pratica da solo, ho deciso di chiedere a voi. Se volete un’idea per fare beneficienza, questo è un piccolo modo per farla, dando una mano attraverso le mie braccia.

Io riprenderò a fare quello che facevo dalla Palestina, e cioè scrivere un post ogni giorno o due, dove racconto le storie – in fondo raccontare storie è sempre stato quello che so fare meglio – delle persone che incontro, quelle che si trovano a vivere o passare per il campo, spesso aggiungendo delle foto. Spero sia un modo per restare vicino alle persone a me vicine, e anche alle altre.