Sassate

Sono giorni di tensione al campo, quello che è successo è che per la giornata mondiale dei profughi l’UNHCR ha organizzato una festa nella città di Ioannina, che dista una dozzina di chilometri dal campo. Il problema di tenerla in città anziché nel campo stesso – che era l’idea migliore e quella che avevamo ripetutamente suggerito loro – era che non c’è spazio per tutti. Quindi ci sarebbe stato bisogno di una selezione dei 100 profughi che potevano andare, e soprattutto degli 800 che non potevano.

È stato un disastro. Quando sono arrivati i pullman, tutti hanno cominciato ad azzuffarsi per salire. Poi le cose sono peggiorate: le tensioni sono cominciate a marcare linee etniche. I palestinesi che erano sul pullman hanno cominciato a impedire l’ingresso a curdi e yazidi (che sono curdi loro stessi), i curdi hanno risposto con grida che presto sono diventate spintoni. Alla fine è cominciata una sassaiola, cosa che non era mai successa nel campo, fra le due fazioni, dove qualcuno poteva davvero farsi male (per la cronaca, io ho preso una sassata su una gamba, ma nulla di grave).

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Un miglior uso dei sassi fatto da un bimbo nella propria tenda

L’UNHCR è sembrata completamente inerme. L’esercito greco non ha fatto nulla. Gli unici che cercavano di bloccare ciò che stava succedendo erano i poveri volontarî, anche perché erano quelli che davvero conoscevano le persone coinvolte. Il problema fra curdi e palestinesi viene da lontano, è una divisione etnica e politica che le persone portano dai loro Paesi d’origine: fra le altre cose, ha a che fare con la storia recente dell’Iraq. I curdi sono stati oggetto dei peggior massacri di Saddam Hussein che invece ha sempre sostenuto i palestinesi regalando denaro alle famiglie di ogni terrorista suicida e lanciando missili su Israele: quando ero in Palestina, ho più volte visto case nella quale era appesa la foto di Saddam.

Alla fine moltissimi erano arrabbiati, giustamente, con UNHCR. Moltissimi erano arrabbiati, giustamente, con l’esercito greco. In pochi, però, erano arrabbiati o sconfortati dal comportamento dei profughi stessi. Noto un processo di infantilizzazione che non condivido da parte di noi volontarî: vista la situazione nella quale sono i profughi – una situazione effettivamente orribile – molte persone, nella più perfetta buona fede, tendono a detrarre di responsabilità le loro azioni. Ma la cosa più altruista che si possa fare è dare a ciascuno le proprie responsabilità, e non scusare gli altri per cose che non accetteremmo da noi stessi.

Quelli che ancora non lo sono

Oggi è la giornata mondiale dei profughi. A me, ovviamente, viene da pensare a quelli che non lo sono ancora – e chissà per quanto non lo saranno – come il migliaio di persone che vive a Katsika. Poi penso a quelli che non lo saranno mai.

E in questa attesa estenuante c’è chi prova ad andarsene con i mezzi che ha: chi se lo può permettere compra un passaporto falso; gli altri vanno alla frontiera, magari attraverso le montagne, e sperano. Ci riescono in pochi, pochissimi, ma qualcuno ci riesce. Alla prima volta che vieni beccato ti rimandano in Grecia, alla seconda ti rispediscono in Turchia o in Siria.

Gamal (ho cambiato il nome, perché non si sa mai) ci ha provato. Ha 52 anni, faceva il giardiniere in Siria, a Homs, dove curava due ettari di terreno. Sua moglie è in Germania, e lui ha provato a raggiungerla. La polizia albanese l’ha beccato, ed è tornato a Katsika. Ora non può più provarci.

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Era un giardiniere e lo è tutt’ora, ha trovato il modo di fare un piccolo giardino attorno alla sua tenda

Da quel giorno è decisamente più triste, la sua tenda è più vuota e saluta meno spesso. Non è un’impressione sciocca o retorica, è precisamente quello che è successo. Credo che l’unica cosa che lo tenga occupato, ora, siano le sue piante. La sua tenda resta una delle più belle.

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Questa foto è di qualche settimana fa, prima del suo tentativo, ora è tutto fiorito, anche i due semicerchi esterni

Ci sono tante ingiustizie nel mondo, ed è sciocco dire che “noi” siamo responsabili di tutte queste. In questo caso, però, la ragione di questa situazione è molto semplice: l’opinione pubblica europea è contraria all’immigrazione, e per questo tutti i governi europei hanno cercato di mettere un filtro, di chiudere le frontiere. Quell’opinione pubblica siamo (anche) noi.

Il funerale

Qual è la cosa più eclatante che possa succedere mentre lavori in un campo profughi? Probabilmente che muoia qualcuno, a pochi metri da dove stai lavorando. Questa, penso, sarebbe stata la risposta che avrei dato se me l’avessero chiesto prima di partire. Invece poi succede e ti rendi conto che non è propriamente così: che il giorno dopo si va avanti, e quello dopo ancora, ed è tutto quasi come se non fosse successo nulla.

Una donna di una certa età è morta per un infarto, nel campo. Non voglio aggiungere altri particolari su di lei o sulla sua morte, perché questo non è un post lacrimevole. L’unica cosa che voglio dire è che, in questa situazione, le grandi organizzazioni non ci hanno assistito, e soltanto grazie alle donazioni di singoli volontarî siamo riusciti ad affittare un pullman per fare sì che chi voleva partecipare al funerale potesse farlo.

Poi il pullman non era sufficiente, e abbiamo supplito con una carovana di automobili, fra cui la mia, quindi mi sono ritrovato a fare da autista a questo funerale, per certi versi strano, per certi versi normalissimo, nel cimitero di Ioannina. Il giorno prima del funerale c’era stata una manifestazione di alcuni profughi perché, nonostante le promesse, la municipalità non aveva garantito la sepoltura secondo gli standard mussulmani. Era più impreparazione che dolo, così ho scoperto, perché questo era il primo caso di un mussulmano che veniva sepolto a Ioannina. Mi è sembrato strano che non ci fosse un cimitero islamico, o un settore per mussulmani nell’ottava città della Grecia, eppure uno non ci pensa, ma una prima persona ci deve essere sempre, e questa lo era.

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Ovviamente la foto non l’ho fatta io, ma alcuni profughi che l’hanno poi messa sui social network

La morte è tutta uguale. Anche a un funerale mussulmano, allestito alla bell’e meglio, da un gruppo di profughi e volontarî in Grecia, all’interno di un cimitero ortodosso che non aveva mai ospitato un mussulmano. La gente è triste, qualcuno piange. Ognuno cerca il proprio modo per metabolizzare, o per esprimere vicinanza. Qualcuno vuole farsi notare. Poi il rito finisce, le mani si incrociano, alla ricerca di una catarsi collettiva che non può arrivare completamente, perché la morte fa paura. Poteva essere un funerale in qualsiasi paesino d’Italia.

La lezione su Palmira, nel campo

Mahmud ha 73 anni e un aspetto distinto: quando lo incontro scambiamo sempre qualche parola in italiano. Non ne ricorda molte, ma gli fa piacere fare pratica. Tanti anni fa ha studiato turismo a Perugia. Poi, per quasi quarant’anni, ha fatto la guida a Palmira, nel sito archeologico. Il figlio Hassan dice che «per lui quei sassi erano la vita, ci passava più tempo di quello che passava con i suoi figli». Ora è fuggito dalla Siria, nel frattempo lo Stato Islamico ha distrutto quei templi e il senso di vuoto che ha per essersene andato è raddoppiato.

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Mahmud è quello seduto sulla sedia

Qualche giorno fa abbiamo organizzato una lezione su Palmira per volontarî, che Mahmud ha tenuto. Con quello che potevamo, fotografie proiettate su uno schermo, ha ripercorso tutti gli itinerarî archeologici che faceva con gli ospiti del sito.

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Un po’ di pubblico. (le foto sono sempre di Lucas)

Imparare queste cose era interessante, ma era ancora più interessante vedere la passione di quest’uomo che ha passato così tanto tempo in un luogo – con un brutto cliché linguistico si direbbe che gli ha dato la vita – ed è stato poi costretto a dargli due addii, quando è scappato, e quando l’Isis l’ha distrutto. A un certo punto Mahmud si è quasi commosso, e io per lui.

Quando ha finito la lezione gli abbiamo fatto un grande applauso.

Sconforti in cucina

Nell’hangar che ospita alcune delle attività delle Ong c’è (c’era) una cucina, che preparava il pranzo per i volontarî e una cena supplementare per tutto il campo, visto che i pasti dell’esercito sono disprezzati da tutti. Nella cucina lavorava un’associazione, Khalsa aid, assieme ad alcuni volontarî indipendenti e soprattutto a molti bambini del campo, presi appositamente da tutte le diverse etnie. Per i bimbi era un posto ambitissimo, avere accesso al luogo dei grandi, e a quello dove lavorano i volontarî. Per questo si riusciva a creare quella mescolanza intercomunitaria che era la ragione d’essere della habibi kitchen stessa.

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L’insegna della cucina, chiunque sia stato in Medio Oriente non ha bisogno di sapere cosa vuol dire habibi, e lo saprà tradurre meglio di così, per gli altri è una specie di onnipresente “tesoro mio”

Poi è successo questo: i bambini che avevano accesso alla cucina, e talvolta anche gli adulti, hanno cominciato a rubare vestiti e altri oggetti dal magazzino. Era successo altre volte, e c’è poco che ci possiamo fare, se non tenere gli occhi aperti, vista l’ingiustizia che questi furti comportano per chi non li compie. Soltanto che questa volta uno dei bimbi che non rubava ha fatto una foto che immortalava uno di questi furti. Tutte le comunità del campo, e anche i rappresentanti di queste comunità, se la sono presa con il bambino: c’è una fotografia di un furto, e tutti si sono concentrati sulla fotografia e non sul furto. La cosa mi ha molto depresso.

Hanno chiamato il padre del bambino che, di fronte a tutti, gli ha tirato un ceffone: siamo intervenuti, ma era troppo tardi. Il bambino è scappato via, chissà dov’è andato e quando tornerà: mi sono immedesimato in lui – che lezione ha imparato da questa situazione? – e la cosa mi ha sconfortato. Che adulto sarei diventato se da bambino mi fosse successa una cosa simile? Più precisamente, che adulto sarei diventato se questo fosse stato il mio insegnamento quotidiano?

La sera stessa è arrivata la notizia: l’esercito ha deciso di chiudere la cucina. Per ragioni burocratiche e sanitarie, da un giorno all’altro la cucina è stata chiusa, fra l’altro alla vigilia del ramadan, con tutto ciò che questo comporta. Insomma, oggi non è un giorno di buone notizie.