Lunedì degli aneddoti – XXXIX – Una frusta dà, di uva, aceto

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Galileo costruì il suo primo telescopio nel 1609, e cominciò a guardare lassù. Nel frattempo aveva uno scambio epistolare, da Venezia Padova e Firenze a Praga, con un altro grande astronomo del tempo, Keplero. Galileo fece una scoperta importante, e decise di comunicarla alla comunità scientifica del tempo, fra cui Keplero. Con un anagramma. Un giocherellone? Anche, però non solo:  Leonardo metteva degli errori nei suoi progetti – il copyright non esisteva – così da non farsi rubare l’idea, allo stesso modo l’anagramma era uno stratagemma per non rivelare nulla, ma poter dire successivamente: «visto? l’avevo scoperto prima io»; del resto quante frasi latine di senso compiuto e astronomico possono prodursi con la stessa successione di lettere? Galileo scrisse:

smaismrmilmepoetaleumibunenugttauiras

Keplero cercò di convincere Galileo a farsi rivelare la soluzione, ma senza esito. Così decise di scervellarsi per risolvere l’anagramma, e venne fuori con questa soluzione:

Salve umbistineum geminatum Martia proles

Soluzione in un latino un po’ barbaro, come Keplero stesso ammise, e che mancava di una lettera dell’anagramma galileiano, ma che aveva un preciso senso descrittivo: benvenuti, pugnaci gemelli, figli di Marte. Keplero, convintosi in precedenza che Marte avesse due lune, pensò: le ha trovate! Marte ha due lune, come pensavo, e lui le ha osservate. Naturalmente la soluzione dell’anagramma di Galileo era tutt’altra:

Altissimum planetam tergeminum observavi

Ho osservato il pianeta più alto triforme. Al tempo, l’ultimo pianeta conosciuto (l’altissimum) era Saturno, e Galileo aveva visto attraverso il proprio telescopio – che nel frattempo aveva perfezionato – i famosi (ora) anelli di Saturno. Le tre forme a cui si riferiva Galileo erano un’approssimativa descrizione degli anelli, che in prospettiva gli erano sembrati altri due corpi orbitanti attorno a Saturno (“ho osservato essere non una stella sola, ma tre insieme”). Fu solo nel 1877, più di duecento anni dopo, che si scoprì che anche Keplero aveva ragione (sbagliando): Marte ha due lune.

Poco tempo dopo, Galileo fece un’altra scoperta e – indovinate un po’ –  inviò un altro anagramma che Keplero lesse:

Haec immatura a me iam frustra leguntur oy

Questa volta, a parte il sofferente “oy” finale, la frase aveva un senso compiuto, più o meno: ho raccolto queste cose invano e prematuramente. La frase nascosta dietro a questo lamento era:

Cynthiae figuras aemulatur mater amorum

La madre dell’Amore emula le figure di Cinzia. Cinzia è la Luna, e Galileo aveva scoperto che la madre dell’amore – Venere – ne emulava i movimenti, e cioè che anche Venere ha delle fasi, come quelle lunari: intera, a metà, un quarto, etc. Il che suggeriva che Venere girasse intorno al Sole, con le enormi conseguenze in direzione dell’eliocentrismo che questa conclusione implicava.

Solamente che, anche questa volta, Keplero si era cimentato nella decodifica dell’anagramma prima che fosse resa pubblica la vera soluzione. Ed era riuscito a tirare fuori, fra le altre, una frase di senso compiuto:

Macula rufa in Iove est gyratur mathem ecc.

Giove ha una macchia rossa che rotea seguendo principî matematici. Ora, indovinare per caso – o per successione matematica – che Marte ha due lune è una coincidenza, ma non così gigantesca. Quante lune può avere Marte? Zero, una, due, cinque, dieci. Dice due, e ti va bene.

Perché sì, Giove ha una macchia rossa, e sì, essa non sarebbe stata individuata con precisione fino a duecento anni più tardi. Che dire? Una frusta dà, di uva, aceto.

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Die jew

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Ho sentito il racconto – storia vera – di un ebreo americano che era in Italia per qualche mese e non aveva amici al di fuori della sua università americana. Così aveva deciso di rispondere a un annuncio in cui si ricercava un allenatore di football americano, anche se lui di football non ne capiva nulla, per fare un po’ di conoscenza con dei ragazzi indigeni.

Solamente che il suo italiano era poverissimo. Questa circostanza, però, gli tornava utile per filtrare attraverso una presunta incomprensione tutti gli episodî in cui avrebbe mostrato di non capire un’acca di football americano. Così va a questo allenamento, e siccome non ha idea di cosa si deve fare a un allenamento di football americano, dice ai ragazzi: «beh, fatemi vedere quello che sapete fare». Così questi ragazzoni iniziano a ingaggiarsi in mischie, placcaggi, e tutte le cose che v’immaginate. Solo che, mentre si adoperavano in queste manovre fra l’agonistico e il violento, continuavano a gridare «Dài, giù! Dài, giù! Dài, giù!». Che per noi è normale, ma ha precisamente la stessa pronuncia dell’inglese “die Jew”, muori ebreo.

Lui si è un po’ impaurito, pensava: «speriamo non sia quello che credo, speriamo non sia quello che credo». Le ha pensate tutte: che in Italia l’antisemitismo sia così radicato che “muori ebreo” è un incitamento standard che si fa tra ragazzi, senza nessuna componente negativa; che fosse una frase inglese riportata in italiano senza sapere il vero significato (tipo il sedicente ristorante italiano “Madonna Maiala” a Fukoka, in Giappone); che fosse tutto uno scherzo fattogli dagli amici.

Vabbè, ha finito per non allenarli, ma almeno un suo amico gli ha spiegato che voleva dire “dài giù”.

(immaginatela raccontata in inglese, che non sapete fino alla fine che “dài giù” vuol dire “get down”)

Lunedì degli aneddoti – XXXVIII – La scommessa del Pascal indiano

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Uno degli argomenti teologici più sciocchi sull’importanza di credere in Dio è la famosa scommessa di Pascal. Il concetto è che siccome credere in Dio conviene, allora è giusto crederci. In realtà, come molti hanno notato, non è una dimostrazione dell’esistenza di Dio – sarebbe certamente bello che esista la fontana dell’eterna giovinezza, ma ciò non rende la sua esistenza più probabile – ma dell’opportunità di crederci anche qualora non ci fosse. In pratica, se si crede in Dio e Dio esiste si ottiene la salvezza, se non ci si crede non la si ottiene, e se non esiste non cambia nulla: perciò è meglio credere. È  un argomento ridicolo per tanti motivi: uno che non ho mai sentito dire, ma a cui penso sempre è «ma chi ti dice che Dio sia contento che tu credi nella sua esistenza?» Magari non vuole che gli si rompa.  Per quanto ne sappiamo, Dio – metti che esiste – potrebbe mandare in Paradiso quelli che non hanno creduto in lui, e all’Inferno quelli che ci hanno creduto.  E poi c’è l’obiezione più immediata: a quale dei settemila “Dio” che l’uomo ha inventato bisogna credere per essere salvati?

La risposta l’ho avuta qualche giorno fa in un racconto di un amico, che ha conosciuto il vero Pascal 2.0; era stato in India, in alcuni villaggi abbastanza sperduti del sud: posti che qualcuno definirebbe dimenticati dalla grazia di Dio (e, invece, vedrete!). Ad accompagnarlo era un tassista locale (il nome non se lo ricordava, quindi lo chiameremo “Antonio”), di quelli chiacchieroni e socievoli con cui dopo un po’ di viaggiare per un tragitto prestabilito avevano fatto amicizia, fra descrizioni turistiche e chiacchiere sulle rispettive famiglie. Come succede, alla fine si erano stati simpatici al punto che Antonio li aveva voluti portare a casa sua, a conoscere la propria di famiglia. Così, facendo una gradita deviazione sulla tabella di marcia, erano arrivati a questo villaggio nella provincia di Kottayam, nel sud ovest dell’India. Il villaggio era quasi fortificato, e la sera c’era una sorta di coprifuoco per le tigri: tutte le entrate dell’abitato venivano chiuse all’arrivare del buio. Mentre raccontava di questi particolari, bevevano latte di cocco che Antonio era andato a raccogliere direttamente alla fonte, arrampicandosi su di un albero davanti ai loro occhi. Poi erano entrati in casa e appesi alle pareti c’erano mille poster di cui erano tappezzati tutti i muri – non raffigurazioni, proprio poster: Cristo, Maometto, Budda, Krisnha, Vishna, Shiva, etc. Pareti ricoperte di tutte le divinità che all’apparentemente molto mistica famiglia di Antonio erano venute in mente.

Così, il mio amico, incuriositosi e oramai rassicurato dal loro grado di confidenza gli aveva domandato: «scusa, Antonio, ma – tu – di tutti questi,  per quale preghi?» E lui: «mah… io, per sicurezza, tutti quanti».

Grazie a Jai

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Lunedì degli aneddoti – XXXVII – Le svedesi

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Le svedesi

Il mito delle svedesi. Ho scoperto di recente perché fra la generazione dei nostri nonni c’era il mito delle svedesi, che erano – alternativamente o tutto insieme – alte, bionde, ridanciane, bendisposte al dialogo, aperte di vedute. Questa la versione raffinata, che probabilmente avrete sentito diverse volte, ma la traduzione – più ruvida e più italiana, anzi la facciamo romanaccia – era: bòne, e ce stanno. La non lusinghiera reputazione, però, era del tutto immeritata: non erano le svedesi a essere tutte puttane, ma erano gli italiani ad avere quell’idea, dura ancora oggi a morire, che la condizione naturale di una donna sia la renitenza alle avances maschili, da esprimere in ogni proprio atteggiamento ed espressione della persona.

È il concetto che c’è dietro al velo imposto alle donne nell’Islam, se non ti copri vuol dire che stai suggerendo al tuo interlocutore la tua presunta disponibilità. E andò così anche in Italia, negli Anni Cinquanta, quando cominciarono ad arrivare in Italia le svedesi. Venivano nella Penisola d’estate, al mare, a fare dei bei bagni e a passare la stagione. E quand’erano in spiaggia si mettevano in bikini, indumento che in Italia non si era mai visto: potete immaginare il malizioso stupore, fatto di pruderìe da quattro soldi, con cui persone che avevano vissuto soltanto accanto a ragazze cresciute a pane e cattolicesimo potevano interpretare quel simbolo – sono belle, e ci stanno. Di lì, per un bikini, la nomea: le-svedesi. E tutte le grandi storie, naturalmente raccontate al bar e mai consumate, di quanto le svedesi fossero per nulla ritrose.

Poi c’era la più bella fra tutte le svedesi, negli Anni Cinquanta, e anche lei venne in Italia. Per una ragione un poco diversa, però: lei era Ingrid Bergman, l’avrete capito. Aveva visto i film di Roberto Rossellini e se ne era innamorata. Magari si era innamorata anche di lui, chissà. Fatto sta che gli scrisse:

Caro Signor Rossellini,
Ho visto i suoi film Roma Città Aperta e Paisà, e li ho apprezzati davvero tanto. Se ha bisogno di un’attrice svedese, che parla inglese molto bene, che non ha dimenticato il suo tedesco, che non è propriamente comprensibile in francese, e che in italiano sa dire solamente “ti amo”, sono pronta a venire a fare un film con lei.

“Ti amo” glielo scrisse proprio così, in italiano, per fargli vedere che lo sapeva davvero. Naturalmente – che altro? – finì che si sposarono.

Grazie a Simone e Paolo

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Lunedì degli aneddoti – XXXVI – Hans

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Hans

Ha vissuto novant’anni della più bella e romanzesca esistenza che mi venga in mente. S’è guadagnato la sua voce su Wikipedia – e che volete di più, dalla vita? – finendo sulla lista nera dei nemici di Nixon durante gli anni della guerra in Vietnam, assieme a gente come Gregory Peck, Steve McQueen, e Jane Fonda. Lui, però, ha sempre preferito la compagnia della sua Herta.

Hans era nato in Germania, da una famiglia ebrea, nel settembre del 1920. Lì assistette alla salita al potere del Nazismo e fu uno dei pochi che riuscì a scappare nell’aprile del ’37, dopo che suo padre era passato per Dachau, e lasciando tutto in Germania, amici e averi. La sua prima tappa fu l’Inghilterra dove conobbe Herta, anche lei una rifugiata ebrea tedesca. A diciott’anni gestirono assieme una scuola estiva d’inglese, che diventò ben presto una sorta di orfanotrofio per bambini ebrei tedeschi mandati lì dai genitori prima che fosse troppo tardi. Insieme, a neanche 18 anni, si diedero il compito di portare via dalla Germania più bambini possibile.

Alla fine del ’39 Hans ricevette finalmente i visti per gli USA dove poté ricongiungersi con i membri più stretti della sua famiglia che, attraverso l’Olanda, il Trentino, la Palestina, la Svizzera, erano riusciti ad attraversare l’Atlantico. Da lì continuò a rimanere in contatto con Herta, scrivendosi delle lunghe e lentissime lettere. Negli Stati Uniti Hans finì il liceo frequentando una scuola notturna, mentre di giorno lavorava per coltivare il suo sogno di andare a studiare legge a Harvard.

Il giorno successivo al 7 dicembre del 1941 – un data che vivrà nell’infamia – ascoltò per radio il famoso discorso del Presidente Roosvelt sull’attacco Giapponese a Pearl Harbor con cui gli Stati Uniti entravano in guerra. In quanto straniero Hans non aveva doveri di leva, ma sentiva di avere un intimo debito di riconoscenza verso il Paese che aveva salvato la vita a lui e a parte della sua famiglia: sulla scorta di questa spinta ideale decise di arruolarsi come volontario nei ranghi dell’Esercito Americano, l’esercito del suo nuovo Paese che finalmente aveva preso parte, e aveva preso la parte giusta. Per non sembrare un eroe, Hans racconta che in quella decisione incise anche il fatto che ciò gli avrebbe conferito, ipso facto, l’attesa cittadinanza americana.

Una volta nell’esercito fu assegnato a un battaglione che avrebbe svolto una funzione di intelligence in Marocco, e gli furono impartite lezioni di arabo per 10 ore al giorno, da dottorandi di linguistica che non sapevano nulla d’arabo ma riuscivano a tenersi una lezione avanti ai loro studenti. Dopo un anno di questa preparazione intensiva la missione non fu approvata, e l’aver imparato alla perfezione quella lingua non gli servì mai più: altri commilitoni ne fecero una carriera, diventando commercianti con il Medio Oriente, o insegnanti di arabo all’università. Con lo smantellamento della missione in Marocco la sua frustrazione per il mancato contributo alle buone sorti di un conflitto in cui davvero credeva, crebbe a dismisura. Temendo di essere assegnato a un’altra scuola per i suoi buoni voti, chiese il permesso di segnalarsi come volontario nelle squadre dei paracadutisti.

C’era un’altra ragione per la quale fare quella scelta: a qualche mese dallo sbarco in Normandia, l’Inghilterra era il luogo dove i paracadutisti americani venivano inviati. E in Inghilterra c’era Herta. La corrispondenza con la futura moglie era diventata sempre più fitta, e la voglia di rivedersi sempre più forte. Intanto Hans aveva scalato i gradi dell’esercito per una ragione semplice: era uno dei pochissimi, lui e gli altri profughi dalla Germania, a parlare un tedesco perfetto senza accento inglese. Ciò, probabilmente, gli valse la fortuna di non essere assegnato alle prime linee per lo sbarco del 7 giugno in Normandia.

I nuovi gradi conferitigli gli diedero il diritto a una Jeep nelle ore libere con cui poté andare da Herta, centinaia di lettere, e cinque anni dopo essersi visti l’ultima volta. Si incontrarono altre due volte prima di capire che le loro vite si appartenevano l’un l’altra. La terza volta fu presente il padre di lei, che approvò entusiasticamente il loro matrimonio. Cercarono di fare tutto nel più breve tempo possibile, perché sapevano che Hans poteva essere inviato in Francia senza preavviso ciascuno dei giorni che sarebbero seguiti.

Hans fece formale richiesta ai proprî superiori – come era dovere di qualunque membro dell’esercito volesse contrarre un matrimonio – e ricevette, dal Comando del Generale Eisenhower, una risposta non proprio gradita: il permesso era concesso, ma era soggetto a un’attesa di 90 giorni. Questo era il tipico ordine, quasi procedurale, che veniva dato ai militari che chiedevano di sposarsi durante le missioni in terra estera: succedeva fin troppo spesso che delle reclute uscissero una sera con una ballerina di un paese straniero, e volessero sposarla l’indomani. Il paradosso era però che una regola istituita per i soldati che volevano sposare una ragazza conosciuta la sera prima si applicava anche a Hans, che conosceva Herta da cinque anni. C’era poco da fare: questo è l’esercito. Poco tempo dopo Hans fu assegnato a un reggimento d’intelligence della 82° Airborne Division. E sebbene nessuna delle lettere con “indicazioni sensibili” le fosse stata recapitata, Herta vide gli aerei militari passare sopra la propria testa, in direzione del mare, e capì che il suo non-ancora-marito stava volando oltre la Manica.

Non solo il danno, ma la beffa: durante i primi mesi di combattimenti nella parte di Francia appena liberata, la vicenda del mancato matrimonio era valsa a Hans le beffe di tutti i commilitoni. Potete immaginare: uno sciagurato che aveva incontrato la propria fidanzata cinque anni prima e non aveva avuto il permesso di sposarla perché la conosceva da troppo poco tempo. Era proprio il tipo di faccenda – di regolamenti pensati per delle situazioni e applicati con zelo ad altre che non lo richiederebbero – per cui era noto l’esercito, e che destavano l’ilarità dei graduati. Pane per le lingue malevole, Hans era diventato “quello che Eisenhower non vuole far sposare”. Tuttavia questa particolare notorietà non si rivelò di pieno detrimento: le tanto divertenti vicissitudini di questo ufficiale un po’ impacciato arrivarono in alto, molto in alto.

Un giorno di dicembre, Hans fu chiamato a relazionare il Comandante del Personale di Divisione. Seguì questo dialogo – immaginatelo col tono militaresco con cui lo racconta Hans: «Tenente, è ancora dell’idea di sposarsi?» «Sì, signore» «Il periodo di 90 giorni di attesa è terminato?» «Sì, signore» «Bene, c’è un pilota del comando trasporto truppe che vuole sposarsi anch’egli e ha terminato il suo periodo di attesa. Darò ordine di emettere un permesso temporaneo per l’Inghilterra e autorizzerò l’uso di un aeroplano militare a questo proposito. Il vostro compito è quello di sposarvi nel più breve tempo possibile, trascorrere qualche giorno con le vostre spose e riportare i vostri culi, e l’aeroplano, in questo preciso luogo. Decollate!» «Sì, signore. Grazie Signore».

Due giorni dopo Hans e Herta si sposarono civilmente e partirono per una breve luna di miele alla volta di Torquay, in Cornovaglia, unico posto dove il freddo del dicembre inglese potesse essere un po’ mitigato dal mare. Lì affittarono una minuscola stanza con bagno in una casa cantoniera: era piccolissima, ma era libera ed economica. Una sera poi – crepi l’avarizia – decisero di permettersi una cena, e il ballo che ne seguiva, nell’albergo più lussuoso della città: l’Imperial Hotel. Tornarono a Londra per una seconda cerimonia, quella con rito ebraico, che fu celebrata da un cappellano – cattolico – dell’Esercito Americano: era il suo dovere, e lo svolse con cura e partecipazione.

Credo che Hans sia una delle pochissime persone a essere stato sposato, nel proprio rito, da un ministro di un altro culto, e ad avere, oltre alle tante traversie, superato un veto al proprio sposalizio imposto da un futuro Presidente degli Stati Uniti: sarà per questo che quel matrimonio è durato 56 anni.

Alla fine il nostro eroe non fu impiegato in alcuna azione di copertura, ma fece diversi interrogatorî ad alti gradi delle SS o dell’esercito. In uno di questi contrattò la resa di un battaglione di diverse migliaia di tedeschi e, quale segno di capitolazione, il generale della Wehrmacht gli consegnò la pistola d’ordinanza, arma che Hans ha sempre conservato. Alla fine della guerra partecipò alla ricostruzione in Germania – ma quando gli fu offerta indietro la nazionalità tedesca, toltagli anni prima, rifiutò – poi tornò in America per continuare i suoi studî. Lui, quando racconta queste cose, specifica che il resto della sua vita fu molto più noioso.

Negli Stati Uniti si affermò come avvocato e, nel loro primo viaggio in Inghilterra, Herta e Hans tornarono a Torquay. Questa volta soggiornarono all’Imperial Hotel e replicarono il ballo di quella sera di diciassette anni prima, in una delle scene più romantiche ch’io riesca a immaginare.

Hans è morto ieri, accanto a Herta, un anno e mezzo dopo aver festeggiato la vittoria di Barack Obama nella sua, grande, America. Era il fratello di mia nonna. Questo è il mio piccolo pensiero per lui.


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Lunedì degli aneddoti – XXXV – L’originalità del bene

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Mi ero ripromesso di scrivere un aneddoto sulla storia fra Arendt e Heidegger: la scoprii nell’estate del 2003 da un articolo di Repubblica che rubai a un amico, due paginone al 38 e al 39 che – ingiallite – ancora conservo. Poi cercai il libro che racchiudeva tutte le lettere fra Hannah e Martin, e che poi persi. Lo ritrovai quando una mia vecchia fidanzata me lo portò, con sé, in casa. L’uomo che Hannah sposò, Heinrich Blücher, rimase sempre l’emblema dell’amore pigro e rispettoso, di quel tipo di affetto – che potremmo definire calore – non invasivo e poco ingombrante. Martin invece, l’amore assoluto, dirompente, invasivo e irrispettoso. Mi ero ripromesso di scrivere di loro, uno di questi lunedì; poi, qualche mese fa, ho letto in giro un aneddoto che non conoscevo, e allora non potevo non metterci quello. Avevo pensato di riscriverlo, ma non farei meglio di così:

L’originalità del bene

Hannah Arendt e Martin Heidegger, nei primi anni venti, avevano una relazione segreta. Hannah era ebrea, perciò, quando furono promulgate le leggi razziali, sposò un uomo di convenienza ed emigrò negli Stati Uniti. E, volente o nolente, dovette rompere con Martin, che era iscritto al partito nazionalsocialista, nonostante non ne condividesse le idee. Era il 1933 quando si videro per l’ultima volta. Negli anni successivi non ebbero più notizie l’uno dell’altra, se non deboli echi delle rispettive fame. Hannah divenne sempre più famosa come conferenziera e Martin fu nominato rettore dell’università di Friburgo, e una volta finita la guerra cadde in disgrazia, come tutti coloro che avevano rivestito una qualche carica sotto il nazionalsocialismo. Quando, ormai negli anni cinquanta, Martin venne a sapere che Hannah avrebbe tenuto una conferenza nella sua città, decise di assistervi per rivedere, senza essere visto, quel suo amore, forse mai dimenticato, forse no. Alla conferenza Martin sedette in un angolo – io me l’immagino un po’ rannicchiato, infagottato in un impermeabile. Curioso e probabilmente spaurito, convinto della sua invisibilità. Non si vedevano da vent’anni. Hannah entrò, si guardò attorno e cominciò il suo discorso. E disse: “Signori, signore, caro Martin, benvenuti”.

da qui, via lui

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Lunedì degli aneddoti – XXXIV – Batigol

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Batigol – La differenza che passa fra un campione e un vero fuoriclasse

Questa è la ragione per la quale, quest’anno, la Roma vincerà lo scudetto nonostante Francesco Totti. Ed è il motivo per il quale le partite si vincono con i piedi, ma gli scudetti si vincono con la testa. È anche il motivo per cui mi sono laureato con questa maglia e non altre.

Francesco Totti esordì in prima squadra con la maglia giallorossa in un Brescia-Roma del 1993. Otto anni dopo non aveva ancora vinto lo scudetto, né aveva mai rischiato di vincerlo: il miglior piazzamento era stato un quarto posto, lontano 5 punti dall’Udinese sul podio, e 15 dalla Juventus scudettata – l’anno dopo arrivò a 4 punti dalla terzultima, rischiando la retrocessione.

Gabriel Omar Batistuta esordì con la maglia giallorossa nel settembre del 2000. Otto mesi dopo la Roma aveva vinto lo scudetto. Gliel’aveva fatto vincere lui, e così tre mesi dopo la Supercoppa. La ragione per la quale Batistuta avrebbe fatto vincere lo scudetto alla Roma si capì, ancora una volta in un Brescia-Roma, in quell’autunno del 2000. La Roma veniva dalla sconfitta contro una diretta concorrente, l’Inter: la prima défaillance dopo una serie di vittorie. Tipica occasione in cui la Roma delle annate precedenti era sprofondata: diversi successi, tanta euforia, poi una batosta e il crollo emotivo.

E invece, a Brescia, la Roma aveva reagito ed era passata in vantaggio: gol di Vincent Candela. Di lì a poco, però, era calata l’oscurità: il Brescia aveva pareggiato, Bisoli. Poi si era addirittura portato in vantaggio, del tutto immeritatamente, con un gol su rigore del vecchio Dario Hubner. Come nel peggiore degli incubi, andando prima in vantaggio e poi venendo rimontati, ecco che si profilava un’altra sconfitta, e la fine dei sogni di gloria, per la squadra capitolina. Poi che succede? Sale in cattedra il fuoriclasse, quel Gabriel Omar Batistuta. Una palla gli rimbalza in area, lui la butta dentro e segna il 2-2. Ma non è questo il punto. Niente di strano, per lui, fin qui.

Quello è, però, il momento in cui Batistuta insegna alla Roma come si vince uno scudetto. Marco Delvecchio, il compagno di reparto, fa per abbracciare Bati, i compagni si dirigono verso di lui per festeggiare il gol: tutto sommato un pareggio fuori casa va bene, la Roma viene da una sconfitta, e pareggiare in casa del miglior Brescia della storia – quello di Baggio, che arrivò settimo – è un risultato più che degno. Poi per come s’era messa la partita! Accontentiamoci del 2-2.

L’unico che non ragiona così è Batigol: non festeggia, non va a cogliere l’esultanza di nessun compagno. Si dirige verso la rete che ha appena trafitto, raccoglie il pallone da dentro la porta e punta verso il centrocampo. Quando Delvecchio gli si para davanti per un abbraccio e la consueta esultanza, Batigol si divincola. Raggiunge il cerchio del centrocampo, fa cadere il pallone sulla linea di metà campo, e con la suola dello scarpino la aggiusta sul disco di gesso da cui il Brescia batterà il nuovo calcio d’avvio.

Indovinate un po’ chi mancava nella Maggica quel giorno? Proprio lui, il campione, Francesco Totti. La settimana successiva la Roma incontrò la Reggina e poté facilmente riconquistare la vetta della classifica, per non lasciarla più e avviarsi a vincere l’unico – per ora – scudetto della ventennale storia calcistica der Pupone in giallorosso.

Ma il match più importante era stato vinto sette giorni prima, dal carattere di un vero fuoriclasse. Già, perché quella partita cruciale era poi finita 2-4. Con tre gol di Gabriel Omar Batistuta.

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Lunedì degli aneddoti – XXXIII –Ponte Ponente

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

Ponte Ponente

Dove sta il Ponte di Londra? Sembra una domanda come il cavallo bianco di Napoleone, eppure la questione è molto ma molto più complessa.  La filastrocca sul London Bridge is falling down, il Ponte di Londra sta cadendo, è conosciuta un po’ in tutto il mondo. Anche in Italia la conoscono tutti, almeno il motivetto. Sembra una canzoncina basata sull’assurdo, e difatti lo è: ma ci fu una volta in cui il Ponte di Londra stava davvero cadendo. Era il 1962 e per quanto fatto di pietre robuste – Stone so strong will last so long, come si conclude la filastrocca – il ponte sembrava non reggere più all’aumentato flusso di corrente del Tamigi.

Il governo cittadino decise allora di demolire il ponte e di costruirne uno nuovo, ma visto il rilievo architettonico e artistico un membro dell’ente di governo della City of London, Ivan Luckin, ebbe un’idea del tutto particolare: perché non metterlo all’asta? Chi poteva essere interessato ad acquistare un intero ponte? Effettivamente all’inizio il vecchio London Bridge sembrava destinato ad andare invenduto, ma poi arrivò il magnate americano Robert McCulloch e un’asta vera e propria non ci fu neppure: offrì due milioni e mezzo di dollari, il doppio della base d’asta, e si aggiudicò così il ponte. McCulloch stava costruendo la sua città, Lake Havasu city, al confine fra la California e l’Arizona, e aveva bisogno di un ponte per collegare le due braccia della città divise da un canale del lago, oltre che di un’attrazione turistica. Con l’acquisto del London Bridge convogliò in una, le due esigenze.

Così fu dato mandato di smontare pezzo per pezzo il ponte sul Tamigi – ogni pietra fu numerata – e di imbarcarlo con destinazione Long Beach, California. Il ponte, smontato, fece il giro di mezzo globo, attraversando lo Stretto di Panama, prima che tutti i pezzi fossero fatti sbarcare in California, e poi da lì portati via terra fino a Lake Havasu city. Ci vollero tre anni e altri 7 milioni di dollari per completare tutte le operazioni, ma alla fine McCulloch ebbe il suo ponte: perfettamente ricostruito nella forma originaria, sotto alla quale per tanti anni era scorso il Tamigi, soltanto che 8500 chilometri più a ponente. È tutt’ora lì, con tanto di Union Jack sui piloni.

Perciò, ecco, se vi chiedono dove sia il London Bridge, ora sapete cosa rispondere: in Arizona.

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Lunedì degli aneddoti – XXXII – Anima pura

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

Anima pura

Mi raccontarono una volta che, alla consegna del premio Nobel per la letteratura, chiesero a Quasimodo «è sorpreso di aver ricevuto questo premio?» E lui rispose «No». Però non ho trovato riscontri, ho anche rivisto la cerimonia di premiazione, ma nessun riferimento. Peccato, perché il personaggio si prestava.

Quando, all’università scoprii che – neppure lui! – si poteva considerare a tutti gli effetti un ermetico, ci rimasi male: che Montale e Ungaretti non lo fossero l’avevo imparato al liceo, ma su Quasimodo un’altra mia certezza fu erosa.
Quasimodo era stato introdotto al mondo letterario Fiorentino, quello di Montale appunto, da Elio Vittorini che era diventato suo cognato quando questi aveva sposato sua sorella, Rosa Quasimodo. Fu una specie di fuitina, a 19 anni, e i due si rifugiarono proprio a casa di Salvatore a Udine.

Su Vittorini c’è un’altra cosa divertente: come molti scrittori del tempo era affascinato dalla letteratura americana, e come tutti aveva letto i classici e i romanzi contemporanei. In più aveva lavorato come traduttore, per qualche anno, prima della guerra. Soltanto che non era il tempo di Youtube, e Vittorini non sapeva parlare ingese, non aveva mai sentito l’effettiva pronuncia, sapeva leggere le parole, ma non capiva quando qualcuno le avesse pronunciate: se ne rese conto quando ospitò lo scrittore statunitense William Saroyan con cui non riusciva a comunicare. Superato il primo imbarazzo decisero per il metodo più artigianale di comunicazione: scriversi tutto su dei foglietti, così che l’inglese – scritto – tornasse a essere quello compreso da Vittorini.

Quasimodo aveva un altro amico: Lupo. Un impresario separato dalla moglie da un sacco di anni, e che – per questo divorzio – non vedeva la propria figlia da tanti anni. Forse per ripagarsi di questo senso di colpa, però, ne parlava sempre, chiamandola “la mia bambina”. Ed era così affezionato a lei, o a questo suo ricordo, che aveva la brutta abitudine – per dire una cosa importante – di giurare su propria figlia, «lo giuro sulla mia bambina».
Un giorno Quasimodo gli regalò un libro di poesie, e sulla prima pagina scrisse così: “A Lupo, anima pura, perché non giuri più sulla sua bambina”.

Francesco De Gregori, che era anche lui amico di questo Lupo, ci scrisse una canzone.
Si chiama “A Lupo”, e non parla di grida.

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Lunedì degli aneddoti – XXXI – L’Amabile Audrey

Quando mi capita di leggere un aneddoto carino, da qualche parte, me lo appunto per non dimenticarlo: così ora ho un piccolo mazzo di aneddoti che ogni tanto racconto. Pensavo di farci un libro, un giorno, ma forse è più carino pubblicarne uno, ogni tanto, sul blog. Questo ‘ogni tanto’ sarà ogni lunedì.

L’Amabile Audrey

Fontana è un nome abbastanza comune, e non c’è nessun personaggio di un tale spessore da monopolizzarlo. Chessò, a chiamarsi Colombo tutti ricordano Cristoforo, o sl limite il tenente. Se invece ti chiami Fontana, come mi chiamo, le associazioni sono le più varie: mi chiamavano Jimmy, quando giocavo a pallone, come un cantante, e come due portieri di Serie A – anche io feci il portiere prima di finire centropanchinaro destro. Però quelle che senti dire di più sono sempre le sorelle Fontana. Stiliste, quelle che fanno i vestiti ai ricchi.

Ci fu una volta, però, in cui non fecero un vestito a una persona ricca, ma a una tassativamente povera. In realtà quel vestito doveva andare a Audrey Hepburn, quella Audrey che con il suo profilo aggraziato ancora tormenta l’immaginario femminile. Doveva sposarsi con un Lord, come succede nelle favole, Lord Hanson. Pochi giorni prima delle nozze, però – e questo succede meno nelle favole – il matrimonio fu rinviato e poi annullato: non se ne fece nulla.

Il vestito da sposa, però, era già stato commissionato alle sorelle Fontana, che ne avevano fatto una delle proprie opere. Così Audrey chiese loro una cosa semplice – datelo a un’altra ragazza che sta per sposarsi, con due condizioni: che fosse la più bella e povera ragazza italiana. La scelta cadde – nomen omen – su Amabile Altobella, una ragazza di Latina che era in procinto di sposarsi con un contadino di nome Adelino Solda.

Il motivo per cui Audrey Hepburn non volle sposare Lord Hanson è che questi l’avrebbe costretta a fare soltanto la moglie e lasciare la sua carriera, Amabile – invece – trovò in quel vestito e in quel matrimonio il proprio compimento. Non saprei dire chi delle due sia stata più felice. Chissà.

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