Sul carro del perdente

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Poco più di un anno fa scrissi un post molto eloquente, era intitolato Contro il PD. Parlavo della componente che, per semplicità, definiremo dalemiana/bersaniana/cuperliana (sì, certo, ci sono differenze). All’indomani delle ultime politiche dicevo:

una cosa è chiara: se il PD avesse preso il 41% (cioè il 7,76% in più rispetto alle ultime politiche), avrebbero detto che quella gigantesca vittoria era merito della svolta socialdemocratica e anti-liberista del PD. Invece hanno preso il 25.42% (cioè il 7,76% in meno rispetto alle ultime politiche), e cosa dicono? Esattamente lo stesso.

In sostanza l’infalsificabilità della propria opinione, la convinzione che qualunque dato di realtà conferma la propria teoria (è la definizione di furore ideologico, se ci pensate). Nel post citato ci sono molti altri esempî di vicende in cui un giorno ci si bullava dell’efficacia di una porcheria e il giorno successivo si negava recisamente che qualcuno avrebbe mai potuto farne una. Questo atteggiamento non è andato via: è rimasto, fortissimo, in molte discussioni (ultimi due esempî capitati), specie quelle che toccano punti cardine dell’ortodossia.

Però, oggi che Renzi ha preso proprio il 41% che un anno fa preconizzavo per paradosso, mi rendo conto che molte delle persone che condividevano quella battaglia, che rilevavano gli stessi problemi, lo facevano – in fondo – solo per partigianeria. Tanti che, in passato, criticavano la mentalità autoreferenziale e complottista interpretano precisamente così le azioni dei proprî avversarî. Solo nelle ultime 24 ore ci sono stati due esempî che mi hanno colpito.

Stefano Fassina ha dato un’intervista in cui riconosce, parzialmente, che su Renzi si era sbagliato. È un’intervista dignitosa, di una persona che in passato ha detto cose indegne. Umile, di una che in passato ha detto grandiosità. E che noi abbiamo criticato per questo. Accusare Fassina di essere “salito sul carro del vincitore” è la negazione di tutto ciò che gli abbiamo criticato in questi anni, e qualifica le critiche che gli venivano fatte come partigiane, anziché di contenuto. Accogliere negativamente il cambio d’idea altrui, cercarne lo sporco, è una delle peggiori abitudini italiane. Sulla questione Fassina/intervista ho detto tutto ciò che penso in questo thread (se non lo vedete, chiedete l’amicizia, è una persona simpatica).

L’altra vicenda è quella di Boschi che torna in Italia con i bambini congolesi finalmente adottati e si fa fotografare mentre uno di questi bambini le intreccia i capelli. Naturalmente non c’è nulla di male, è certo che Boschi fosse consapevole dell’effetto della foto ma non c’è modo – né ragione – di pensare che senza macchine fotografiche si sarebbe comportata in maniera differente. Non è una foto finta. Ma è, comunque, una scelta politica. Ed è una scelta politica efficace, perciò vincente. Al proposito, Chiara Geloni ha ricordato un’intervista in cui Massimo D’Alema raccontava una scelta opposta. Geloni stessa merita due righe, perché è la persona che più incarna la dinamica di cui parlo in questo post: come carnefice – è la più partigiana fra tutte, quella che presenta al parossismo, e rivendica, i peggiori difetti del PD; ma anche come vittima: proprio perché nelle logiche da conventicola è “nemica”,  è anche destinataria di insulti indegni e pettegolezzi spregevoli.

D’Alema racconta, a una festa dell’Unità, che in un episodio molto simile a quello di Boschi ha fatto una scelta diversa. Ha deciso di far andare via le bambine prima di lui, di non permettere la pubblicazione di una foto del genere. Ha avuto questo pudore, e ne fa un punto d’orgoglio. È una cosa molto dignitosa, certamente politicamente inefficace, ma credo che ci si riconoscerebbero molti lettori di questo blog, io sicuramente. Anche in questo caso, però, invece di risposte misurate come «è una cosa molto bella, ma in politica bisogna essere bravi a pubblicizzare i proprî successi» ho letto critiche del tutto partigiane. Enrico Sola, uno molto bravo (come sono bravi Guido e Addolorato della conversazione FB, sto volutamente cercando i migliori, evitando gli interventi dei più ottusi e sguaiati) ha scritto “Dire ‘una volta ho fatto una cosa bellissima ma non me la sono tirata’ è tirarsela”.

Intanto non è vero, o non è quello il punto. La scelta di D’Alema, e la decisione di raccontarla a una festa dell’Unità (video che non conosceva praticamente nessuno, fino a ieri), in risposta a una specifica domanda di una giornalista, anni dopo l’episodio e due anni prima della vicenda Boschi, è una chiara scelta politica. Vuol dire decidere che quelle fotografie non sono una buona ragione per essere votati, vuol dire rinunciare alla demagogia perché non la si ritiene pertinente al ruolo politico come lo si concepisce: in una parola, ritenere che prendere voti grazie a ciò – in questo senso di mancata attinenza, leggete il post linkato prima di urlare – sia una forma di prostituzione. Può benissimo essere che queste cose siano necessarie ad avere successo, specie se gli avversarî ne usano di peggiori; ma non riconoscerne la dignità pre-politica perché viene da un avversario, perché nel grande dibattito sul partito “vuoto” o “pieno” fa perdere punti, è solamente ottuso o disonesto.

Il punto non è essere partigiani, lo siamo tutti (e io sono sempre contento quando la gente litiga alla luce del sole), ma esserlo a dispetto della realtà. Dimostrare che qualunque cosa succeda sarà filtrata, e archiviata nel proprio orizzonte etico, a seconda dell’origine ideologica o della convenienza politica. Mi sento solo, oggi.

 

In difesa dell’astensione

per Il Post

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Io non sono un grande astensionista, ho votato quasi sempre, e voterò anche a queste elezioni; però ho sempre trovato fastidioso l’atteggiamento assiomatico con il quale, a ogni elezione, c’è chi fa proclami – spesso aggressivi, quasi insultanti – contro le persone che decidono di astenersi. Colpisce la mancanza di argomenti di chi sostiene la necessità di votare sempre: chi argomenta qualcosa di diverso non riceve una risposta alle proprie posizioni, ma la reiterazione dell’assioma iniziale (e così mi aspetto che le obiezioni a questo post conterranno argomenti a cui viene risposto già nel testo: scommettiamo?), segno che “bisogna votare sempre” è solamente una massima insegnataci da bambini.

Certamente ci sono persone che si astengono per ragioni irrazionali, come preservare la propria coscienza: votare è uno strumento, non ci si “sporca” a votare un partito che non veicoli precisamente le nostre idee. Ma anche le ragioni di chi sostiene che bisogni votare sempre appaiono altrettanto irrazionali.

Chi vota senza sapere
Non c’è dubbio che astenendosi si delega agli altri elettori. Questa, in alcuni casi, è una scelta sensata: per persone che non seguono la politica, non conoscono gli schieramenti e i programmi, i candidati e le idee in campo, quella dell’astensione è semplicemente una scelta di onestà. Possiamo decidere che sbaglino a non sapere cosa succede nel loro Paese, ma dal momento che le cose stanno così perché dovrebbero esprimere un voto – che vale quanto quello delle persone più consapevoli e informate – su un argomento di cui non hanno alcuna competenza? Fa ridere, poi, che a criticare gli astensionisti siano spesso le stesse persone che si lamentano dell’ignoranza degli elettori di altri partiti (se l’unica cosa che sai dire è “i politici rubano tutti” forse è meglio non votare, no?).

Chi vota per convenienza
Ci sono poi due grandi categorie di persone che votano con una certa consapevolezza: chi vota per convenienza e chi vota per ideologia, e infinite commistioni delle due cose. I primi votano un partito perché pensano che le istanze portate avanti siano più convenienti per loro: meno tasse, più difesa di una certa categoria, più diritti a questa o quella minoranza. Il colmo è che votare non è un’operazione conveniente (è un paradosso abbastanza noto): qualunque sia lo sforzo profuso, in termini di convenienza non ne vale la pena. Non parlo di fare campagna elettorale o allestire banchetti, ma anche il solo prendere la macchina o perdere mezzora del proprio tempo ha meno efficacia, “costa di più”, dell’importanza che ha il proprio minuscolo voto su diverse decine di milioni nell’avanzare questa o quella politica.

Chi vota per ideologia
Ideologia, qui, non ha alcun senso spregiativo. Tutti abbiamo le nostre idee e pensiamo che siano le migliori (altrimenti ne avremmo delle altre). Tuttavia, anche chi vota per ideologia dovrebbe tenere presente l’irrilevanza che l’operazione ha a livello macroscopico: verosimilmente, nel corso della nostra vita, il nostro voto non deciderà mai, neppure una volta, un’elezione. In realtà uno dei motivi per i quali io vado a votare è, candidamente, narcisista: mi piace seguire le elezioni, mi piacerebbe vedere dei dibattiti (fatti davvero), mi piace il giorno delle elezioni, mi piace andare nel seggio e sorridere allo scrutatore, mi piace la suspense delle ore successive, mi piace seguire i risultati, mi piace sentirmi importante.

Ma se tutti facessero così
L’argomento “se tutti facessero così” è, come sappiamo, logicamente instabile (se tutti facessero il medico, moriremmo di fame: è immorale fare il medico?): le scelte che facciamo sono ragionate e articolate sui dati di realtà, se cambiano questi dati, cambiano anche le scelte. È chiaro che se tanti facessero così, le cose cambierebbero: al diminuire dei votanti aumenta l’importanza del proprio voto. In realtà, poi, pochi fanno così: l’Italia è un delle democrazia con l’affluenza elettorale più alta (in alcuni posti è metà della nostra), e non diremmo che questo ci renda un Paese più civile.

Votare è un messaggio positivo
Nella storia italiana le elezioni dove l’affluenza è salita sono state quelle dove la campagna elettorale è stata peggiore, dove c’è stato più scontro e si è alimentata la paura dell’avversario. Del resto è chiaro che più ci si sente in emergenza, in pericolo, più si è portati a votare: non è un caso che, nelle grandi democrazie occidentali – dove si vive relativamente bene, le istituzioni sono forti, e un cambio di maggioranza non è una questione di vita o di morte – l’affluenza sia costantemente calata negli ultimi quarant’anni. L’argomento per il voto come necessità è quindi opinabile, l’importanza che ciascuno di noi dà al proprio singolo voto è una questione culturale, che ci è stata insegnata e che abbiamo recepito senza domandarcene il perché. Magari pensiamo che una società che insegna questa bugia sia una società migliore, ma certamente non corrisponde alla realtà.

Il meno peggio
Anche trascurando le considerazioni precedenti e volendo assumere l’importanza del proprio voto rispetto ai grandi numeri, l’argomento di chi sostiene la necessità del voto sempre e comunque è tortuoso. L’argomento è molto simile a quello sul voto utile: bisogna votare il meno peggio, perché c’è sempre una scelta migliore fra due opzioni e quello che conta è l’influenza che il proprio voto ha. Questa considerazione sottovaluta proprio la nulla influenza sulla politica che si ha votando così. Non c’è dubbio che chi vota per, letteralmente, “partito preso” non influenzerà mai le decisioni del partito in questione: se lo voto qualunque cosa faccia, un partito potrà spostarsi trascurando completamente le mie idee (quelle che motivavano il mio voto).

Il quadro politico è uno spazio geometrico nel quale votiamo il partito che ci è meno lontano. Un grado di compromesso è necessario e ragionevole. Tuttavia, in una situazione nel quale il partito meno lontano è molto più vicino agli altri partiti che alle nostre posizioni, votarlo è illogico: ciò che rende quel partito migliore degli altri ci interessa molto meno di quello che lo rende diverso da noi (e più simile agli altri partiti). Se io penso 2 e i partiti che posso votare esprimono 7, 8 e 9, non ha senso votare 7, perché con il mio voto esprimerò la volontà del 7. Astenersi significa manifestare la necessità che quel partito si sposti verso il 2 o che un altro partito (anche uno nuovo) ne raccolga le istanze.

È una banale questione di teoria dei giochi, se c’è un ente che vincola una ricompensa alla soddisfazione di un requisito e uno che garantisce la ricompensa indipendentemente, l’attore in questione seguirà i requisiti – vincolanti – del primo per ottenere due ricompense anziché una. Del resto tutti noi, anche i più ultrà del voto a tutti i costi, abbiamo una soglia di accettabilità oltre la quale ci asterremmo: se tutti i partiti sostenessero la schiavitù per i neri, ne voteremmo comunque uno sulla base di quanto taglia l’Irap?

Quindi
Certo: le circostanze in cui i partiti sono così lontani da noi da rendere le loro differenze insignificanti sono rare. Nella maggior parte dei casi c’è un meno peggio che vale la pena votare. Ma questa è una considerazione personale e politica, non strutturale. Perciò se vi imbarcate nel lodevole impegno di cercare di convincere qualcuno a votare, evitate di dire la sciocchezza che “bisogna votare sempre” o che “astenersi è sempre una scelta idiota”.

Qualche dubbio di un garantista su Cancellieri-Ligresti

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Sulla questione Cancellieri-Ligresti si scontrano due visioni: quella secondo la quale la giustizia viene prima dell’equità e quella secondo la quale l’equità viene prima della giustizia. I primi dicono che, per Cancellieri, fare la cosa giusta in un caso – di suoi amici, o di suoi nemici – è meglio che non farla in alcun caso. I secondi riconoscono un valore maggiore all’equità: se qualcuno non può avere il trattamento giusto, non lo dovrebbe avere nessuno.

È una discussione vista tante volte, come ad esempio nel caso delle pensioni di reversibilità per i parlamentari gay (ce l’hanno i parlamentari, non quelli gay: è giusto darla almeno ai parlamentari gay se i cittadini non ce l’hanno?), e sul principio generale non mi sembra ci siano dubbî: l’equità è un valore importante, ma viene dopo la giustizia. E un po’ di giustizia è meglio che nessuna giustizia.

[Sto naturalmente dando per scontato che si ritengano ingiuste le condizioni di carcerazione di Ligresti (e di molti altri detenuti), e che – come sembra, e non abbiamo ragione di dubitare – il Ministro non abbia fatto alcuna pressione che non gli compete: non fosse così, la discussione sarebbe completamente un’altra e credo che tutti sarebbero concordi]

Fra l’altro, il primo punto di vista è difeso da tutte le persone per bene che conosco e leggo; il secondo punto di vista, a quello che ho avuto modo di vedere, non ha dei grandi avvocati: gli argomenti vanno dall’inarticolato allo squisitamente fascista. Leggere cose come queste, con tutto l’armamentario dei “curiosamente” e dei più elementari non sequitur inquisitorî, fa schifo.

Eppure, sul caso specifico, a me rimangono delle perplessità che mi fa piacere confrontare con le opinioni di chi stimo e la pensa diversamente da me.

Una cosa molto importante nel valutare le azioni che si fanno sono le conseguenze che quelle stesse azioni hanno nel mondo: cosa insegnano, e quali limiti di accettabilità costruiscono per gli altri. Così forse sembrerà una cosa vaga, ma è invece il modo con il quale viene costruita una società. È il motivo per il quale ora buttiamo le carte per terra molto meno rispetto a vent’anni fa, e se lo facciamo abbiamo la percezione che sia una cosa sbagliata (magari lo facciamo ancora, ma se c’è qualcuno davanti, aspettiamo che abbia girato l’angolo).

Cosa insegna la telefonata di Ligresti a tutte le persone coinvolte? Ai funzionarî incaricati, ai capi della polizia, alle persone che lo vengono a sapere, agli amici e ai parenti di queste persone a cui questa storia è stata raccontata, agli amici degli amici, etc. Insegna che di fronte a un difetto del sistema, di fronte a un’ingiustizia di cui si è vittima, si cerca la via di fuga, si cerca di aggirare il sistema perché il sistema non funziona. E, intendiamoci, è vero: il sistema non funziona. Ma continuando a trovare il modo per aggirarlo, ne contribuiamo al rinforzamento.

E questo è un principio che – mi dispiace dirlo – in Italia è difficilissimo da comunicare. In tantissime circostanze mi è capitato di vedere persone, anche persone da cui non me lo sarei aspettato, anche persone fra quelle che più stimo, che considerano del tutto normale alzare il telefono per avere una via preferenziale: ripeto, non per avere qualcosa che non gli spetta, ma per ottenere ciò che i giusti canali dovrebbero garantirgli e che non riesce a ottenere attraverso i giusti canali. È una delle tante riproposizioni del fine che giustifica i mezzi.

L’Italia funziona così: per informazioni particolari. Spesso la raccomandazione non è nel truccare un concorso, ma nell’accesso al concorso stesso. C’è un bando, potrebbero accedere tutti, ma lo sanno solo gli amici di quelli che l’hanno esteso (e chi lo fa pensa: in fondo che c’è di male a segnalare a un amico che c’è un posto di lavoro?). E, in una piccola misura, lo facciamo tutti: è come è “costruito” il Paese a costringerci per andare avanti.

Nel mondo anglosassone questo è molto diverso. Non è che queste cose non succedano, ma quando qualcuno le fa, se ne vergogna (come il buttare la carta per terra), non lo racconta agli amici. E questo contribuisce a una migliore educazione delle persone che vengono dopo. Ovviamente non è una differenza genetica, è semplicemente che all’estero sono più abituati a un sistema che funziona, e quindi sono meno abituati a doverlo combattere con mezzi improprî. Ma il problema è che, nel comportarsi così, si instaura un circolo vizioso che ci fa diventare la causa dell’effetto di cui siamo vittime: essendo “costretti” (ma uno costretto non lo è mai) dal sistema a usare mezzî illegittimi, siamo la causa del rafforzamento di quel sistema.

Nel caso Cancellieri, il problema non è ovviamente nel fatto che il Ministro si sia attivato una volta che è venuta a conoscenza della situazione (non è a questa obiezione che si deve rispondere). Il problema sta nel modo in cui è venuta a conoscenza della situazione. Non è accettabile che un Ministro venga a sapere di un problema della giustizia perché chi ne è vittima le fa una telefonata, non è la giusta procedura (le procedure sono LA democrazia, in democrazia). È la stessa ragione per la quale una notizia avuta attraverso intercettazioni ottenute illegittimamente si brucia, anche se le informazioni ottenute sarebbe rilevanti per un’azione penale.

Vi racconto una cosa: durante le elezioni, un’amica che ha vissuto tanti anni all’estero, aveva bisogno di un documento per una candidatura. Per farlo, da residente all’estero, doveva rivolgersi alla sua ambasciata che poi si sarebbe rivolta al comune di residenza (etc, etc, etc). Come immaginate, come sempre con la burocrazia, una cosa molto semplice richiedeva infiniti passaggi, e infinito tempo.

Dopo essere stata per giorni e giorni a rincorrere tutti i cavilli, il funzionario, che aveva preso confidenza in tutti quegli scambi di mail e ore al telefono, si era lasciato a una domanda: «ma lei si candida con Grillo, vero?». Forse non avete colto, perciò vi traduco: non posso credere che una persona che non è sprovveduta (leggi: che non ha agganci; leggi: probabilmente grillino) si sottoponga a tutto questo ambaradan anziché fare una telefonata all’ambasciatore.

E lo stupore del, gentilissimo, funzionario era evidentemente empirico: anche dall’esperienza, non concepiva che qualcuno non volesse usare i proprî agganci, anche se li aveva. Perciò ne era evidentemente sprovvisto. E ribadisco: stiamo parlando di qualcosa che alla mia amica spettava, una cosa che in un Paese più civile avrebbe ottenuto in cinque minuti senza bisogno di alcun canale particolare.

Ed è, temo, questa la grande presa che il messaggio di Beppe Grillo ha su tante persone escluse da ogni circolo. Penso anche io che molti siano soltanto rancorosi per non essere riusciti a entrarci, in qualche circolo, e se ne facessero parte, ne approfitterebbero. Lo si legge dal riflesso condizionato che hanno nel pensare sempre male delle altre persone. Ma questo cosa importa? È anche per questo che bisogna essere diversi.

Eroina o filibustiera?

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La storia di Wendy Davis dimostra, una volta di più, la nostra disposizione all’indulgenza nei confronti dei metodi con cui si conducono le battaglie che ci stanno a cuore. Lo dimostra, in realtà, l’entusiasmo che ho letto, sia in Italia che in America per quello che ha fatto questa senatrice. La storia è questa: negli Stati Uniti, in anni recenti, si è molto diffuso l’ostruzionismo parlamentare. È il motivo per cui passare una qualche legge “sensibile” in Congresso (quello federale) è diventato praticamente impossibile. In Texas si votava una legge restrittiva nei confronti dell’aborto, e questa senatrice democratica ha fatto ostruzionismo nel modo più classico per gli Stati Uniti: fare degli interventi molto lunghi. Nel suo caso, ha parlato per 10 ore, aggirando le regole molto restrittive per impedire questo tipo di operazioni: non si può andare fuori tema, non ci si può interrompere, neanche per andare a fare pipì, non si può mangiare, non ci si può sedere né appoggiare. Dopo un’ulteriore questione sull’essere passata o meno la mezzanotte, la legge è decaduta proprio per l’opera di Davis.

L’ovvietà sarebbe pensare che Davis abbia fatto una scorrettezza: ha aggirato delle regole – sensate – per impedire che una minoranza blocchi, con stratagemmi e non col consenso, il volere della maggioranza. Ha approfittato di una questione tradizionale, in America, ma bizzarra, cioè l’assenza di un limite di tempo per il suo intervento; e di una cosa molto vicina a un cavillo: la scadenza della possibilità di passare la legge dopo la mezzanotte. Insomma, ha operato completamente in quella zona grigia occupata dalle cose ingiuste, eticamente ingiuste (almeno a livello procedurale: quello che al liberalismo, da Locke, sta più a cuore), ma non ancora illegali.

Non pensate? Provate a pensare alla stesso esempio, ma all’inverso: cioè di una cosa simile fatta per ostacolare una legge che ritenete giusta. Facciamo questo esempio qui: in Italia matura finalmente una maggioranza di persone che è favore del riconoscimento delle coppie omosessuali. C’è una maggioranza popolare che è chiaramente espressa in una maggioranza parlamentare. Si vota questa legge, che ha largamente i numeri per passare: solamente che Giovanardi o Paola Binetti, pronunciandosi solennemente dalla parte di Dio, organizzino un ostruzionismo deciso. Presentano centinaia di emendamenti, così che ci si metta giorni ad affrontare il testo finale, invitano in Senato un centinaio di persone che si mettono a gridare “Uomo e Donna! Uomo e Donna!”, così che il presidente del Senato debba far sgombrare l’aula, rinviando il dibattimento ai giorni successivi. Poi, grazie a uno stratagemma, riescono a presentare un emendamento che collega le unioni gay a un’altra questione accessoria, così che alcuni parlamentari siano costretti a votarlo. Alla fine, si scopre, scrivono un altro emendamento apparentemente inoffensivo, in modo che esso si contraddica, e che così la Corte Costituzionale lo bocci. La legge così non passa.

Cosa succederebbe? Che saremmo tutti furibondi. Alcuni parlerebbero di Colpo di Stato, altri chiederebbero l’arresto di Giovanardì. Più ragionevolmente, in molti lo considererebbero un lestofante, uno capace di tutto per far prevalere la propria idea su quella della maggioranza del Paese. Anzi, a dire il vero, c’è qualcuno che non la penserebbe così: il partito di Giovanardi. Anzi: a confermare la disinvoltura con la quale ci va bene che il fine giustifichi i mezzi – quando questo fine è in accordo con la nostra idea – il partito di Giovanardi lo difenderebbe, dicendo le cose che abbiamo sentito tante volte: le regole sono queste, abbiamo rispettato le leggi, è tutto dentro alle normali strategie parlamentari, eccetera, eccetera.

Ecco, se c’è una cosa che rende inutili i dibattiti, i confronti di vedute, che rende impossibile qualunque progresso generato da un’onesta e attenta discussione d’idee è questa. Questo pregiudizio positivo – questa dissonanza cognitiva – che si ha nei confronti di chi si considera della propria squadra, e delle strategie che vengono adottate per raggiungere le idee che condividiamo. Quelle idee che, così, si dimostrano immutabili e, perciò, stupide.

Contro il PD

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Voi non ci crederete, ma in queste ore la dirigenza del PD si sta – e ci sta – raccontando che la colpa di questa sconfitta è l’essere stati troppo liberali. Questo, però, non è un post su liberalismo, socialismo e socialdemocrazia. No, è un post sull’endemica incapacità di confronto con la realtà di quel partito.

LA REALTÀ CI DÀ TORTO
Negli ultimi 4-5 anni Bersani ha, legittimamente, allontanato il PD dal liberalismo. C’è stata una battaglia politica e ha vinto quella parte che voleva un partito più socialdemocratico. Più socialista, meno liberale. È una scelta legittima, e non è detto che sia sbagliata. Alle urne ha perso tre milioni e mezzo di voti, ma la storia è piena di idee sbagliate che hanno raccolto consenso. Hanno ragione loro e hanno torto quelli che non li hanno votati? Può essere.

Ma una cosa è chiara: se il PD avesse preso il 41% (cioè il 7,76% in più rispetto alle ultime politiche), avrebbero detto che quella gigantesca vittoria era merito della svolta socialdemocratica e anti-liberista del PD. Invece hanno preso il 25.42% (cioè il 7,76% in meno rispetto alle ultime politiche), e cosa dicono? Esattamente lo stesso. Che la sconfitta è colpa del non essere stati abbastanza socialdemocratici, dell’alleanza con Monti, dell’austerity, eccetera. Verrebbe da dire Popper e l’infalsificabilità del marxismo, se non fosse troppo facile.

E QUINDI ABBIAMO RAGIONE
Eppure, spesso, questo meccanismo avviene in buona fede, da parte di persone che su molti temi hanno idee condivisibili e ben espresse (ho-molti-amici-dalemiani). Poi, però, ci sono quei due o tre argomenti sui quali il ragionamento da conventicola, gli spauracchi e le parole d’ordine, la fedeltà alla linea e i nemici giurati, superano in squadrismo e chiusura anche quelle dei grillini.

Funziona così: Mario un giorno si sveglia e dice ad Alberto che il liberismo ha i giorni contati, o che la figlia di Ichino è una raccomandata. Alberto ci pensa, lo metabolizza, e lo riferisce a Maria. Maria fa suo il pensiero e lo condivide con Giacomo. Giacomo, allora, incontra Mario e glielo dice. E Mario pensa «ah beh, se lo pensa anche Giacomo deve essere vero».

Questa claustrofobica autoreferenzialità è l’essenza di quella che, durante le primarie, chiamavo dissonanza cognitiva. Ma è molto di più, mi sono reso conto: è l’elevazione del confirmation bias a un livello di sistematica e patologica efficienza.

LE PRIMARIE
È stato durante le primarie che questa coazione mentale, il ragionamento da setta e il terrore dell’OPA ostile si è manifestata in tutta la sua potenza. E lo dice uno a cui Renzi non piaceva, ed era anzi abbastanza determinato a non votarlo.

Forse è stato proprio il non essere renziano a rendermi così sbalordito: i renziani davano per scontato che l’apparato fosse ostile, del resto era ciò che Renzi andava dicendo da tempo – faranno la lotta nel fango, faranno qualunque porcata per non farci vincere. Ma per me, spettatore scettico, è stato sconcertante realizzare che quella dirigenza fosse davvero disposta a qualunque porcata, e a negare d’averla fatta.

Le stesse persone per giorni, prima delle primarie, hanno deriso Renzi per essere riusciti a fregarlo, cambiando le regole a suo svantaggio. Poi, quando è venuta fuori la polemica sulle regole, hanno negato – quasi offesi – che quelle modifiche potessero svantaggiarlo (qui spiegazione delle 4 porcherie anti-Renzi: sia chiaro, avrebbe vinto ugualmente Bersani, che è un’aggravante). Se sostenitori di Renzi pubblicizzavano un sito, senza indicazioni di voto, per semplificare la procedura di registrazione era una patente violazione delle regole; se sostenitori di Bersani pubblicavano sui giornali inviti a votare Bersani, era una sciocchezzuola. Lo stesso Bersani ha detto la gigantesca bugia di essere stato lui a volere le primarie, dopo aver nicchiato per due anni mentre Renzi lo rincorreva apparizione su apparizione per cercare di stanarlo. Sempre lo stesso meccanismo del doppio standard.

Poi, beh, durante le elezioni Renzi è diventato utile alla ditta e allora c’è stato il contrordine compagni.

IL “VUOTO PNEUMATICO”
E pensare che il mio scetticismo su Renzi era stato nutrito anche da uno scambio di email con un amico bersaniano: mi aveva spiegato un po’ di cose, e molte delle sue critiche mi avevano convinto. Quello delle proposte di Renzi era un “vuoto pneumatico”.

Ora, io non so se qualcuno si è preso la briga di leggersi il programma economico del PD in questa campagna elettorale: non c’era un numero, una sola cosa concreta e quantificata. Cosa vuole fare il PD con la spesa pubblica? Aumentarla o abbassarla? Vuole tagliare l’Irap? Ma di quanto? Con quali soldi? E l’Irpef? “taglio del 3%, ma non subito” non è una risposta. Quando? E dove prendi i soldi? E l’Ires? Vuole dare più soldi all’istruzione e alla ricerca? E la sanità? Quanti soldi, e presi da dove? Alzando le tasse? Facendo delle dismissioni? Quante? E il debito pubblico lo vogliamo abbattere? Come e di quanto? L’unica cosa accompagnata da una cifra era l’elettoralistica abolizione dell’IMU sulla prima casa a chi paga meno di 500€.

Perfino il PDL aveva dei numeri, per quanto strampalati e irrealizzabili. Il PD, invece, niente. Né le dichiarazioni di Bersani (segretario) o Fassina (responsabile economico) chiarivano alcunché. Il programma del PD era un tale “vuoto pneumatico” che, nei varî articoli dei giornali che mettevano a confronto il peso economico dei programmi, i numeri del PD se li inventava il giornalista – oh, non so se è chiaro. I numeri se li inventava il giornalista!

Pensate ci sia stato qualcuno che, dal di dentro, abbia finalmente denunciato questo vuoto di contenuti, in questa era di dittatura-della-comunicazione? Ovviamente no.

REALISTI REALISTI, IDEOLOGICI IDEOLOGICI
Ora: perché il PD non ha elaborato uno straccio di piano sui 5 anni di legislatura? Non sono in grado di farlo? Non è così. È certamente una scelta comunicativa, la vaghezza dovrebbe aiutare a non scontentare nessuno. Ma c’è un altro fattore, estremamente importante, e centrale per il modello di politica che è attualmente alla guida del PD: è la prodigiosa e improbabile commistione di realpolitik e furore ideologico.

Perché non è solo la proverbiale questione delle “segrete stanze”, nelle quali si entra con idee diverse, si fa un accordo politico, e si esce fingendo di avere sempre avuto la stessa. Il problema è che a questa si associa, sempre sottotraccia, un filtro di lettura della realtà smaccatamente ideologico (oggi è la moda di Keynes, fra cinque anni sarà qualcos’altro) che produce la dissonanza cognitiva di cui sopra. Solo che questa linea ideologica che è presente in tutte le conversazioni, nelle discussioni private, nei discorsi a nuora-perché-suocera-intenda, in qualche dichiarazione strappata, non viene mai affermata con forza in pubblico: sarebbe un’offesa alla prudenza del realismo politico.

Perciò la presenza pubblica del PD si traduce in una costante vigliaccheria, e menzogna, rispetto alle idee piene che i dirigenti di quel partito covano. Da questo derivano le dichiarazioni di Fassina in stile Arafat, che in italiano dice una cosa e in inglese – al Financial Times o al Wall Street Journal – dice esattamente l’opposta. Da qui deriva la Taquiyya su Europa e Germania, odiata nelle sezioni del PD quasi quanto nel PDL. E deriva la mancanza del coraggio politico di fare di testa propria: se Bersani pensava di essere in grado di risanare i conti, e di farlo meglio del Governo tecnico, perché non ha detto “no” a Napolitano, andando subito a nuove elezioni?

LA CASTRAZIONE PERMANENTE
La risposta che Bersani dà è che il PD è stato “responsabile”, ed è vero, verissimo – al tempo l’ho molto apprezzato. Però riconoscere che essere “responsabili” vuol dire non portare al governo la propria linea politica, significa che il proprio orizzonte ideologico sarebbe, invece, irresponsabile. Che affermare in pubblico idee come queste (è un documento di una riunione degli economisti del PD, o d’area, che ha postato un’amica su Fb) o quelle che si sentono dire a tutti i bersaniani interpellati al bar, porterebbe l’Italia nel disastro.

Nei fatti, questa dirigenza del PD è più realista di sé stessa. Ed è proprio questo che matura un permanente sentimento di castrazione, quello che è precisamente all’origine dell’incapacità d’analisi della realtà che descrivevo all’inizio: abbiamo fatto un partito più-socialista-ma-non-abbastanza, abbiamo perso, e quindi dobbiamo essere più socialisti. Ah, se fossimo stati socialisti quanto volevamo davvero, lì si che avremmo vinto.

E, infine, questo meccanismo ha un risultato ultimo abbastanza evidente, e che tutti abbiamo imparato a riconoscere nel PD, la più totale impossibilità di autocritica: perché se non abbiamo mai fatto, per davvero, quello che volevamo fare, come possiamo metterne in dubbio la bontà?

I numeri delle primarie: un fallimento?

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Molti in queste ore stanno celebrando il successo di affluenza alle primarie, che però – a guardare i numeri – non sembra essere tale.

Per farlo basta confrontare il risultato di queste primarie, di tutto il centrosinistra, con le ultime primarie, quelle del 2009 esclusivamente per la segreteria del PD. L’affluenza è stata praticamente identica, alla decina di migliaia.

Primarie PD 2009: 3.102.709
Primarie csx 2012: 3.107.568

A queste primarie c’erano due candidati esterni al PD, Bruno Tabacci che ha preso 44.030 voti, e Nichi Vendola che ha preso 485.158 voti. È certamente probabile, anche se non quantificabile, che alcuni elettori del PD abbiamo votato Vendola nonostante questi appartenga a un altro partito, ma è altrettanto probabile che alcuni elettori che non appartengono alla coalizione del centrosinistra (Fed Sin, IdV, etc) abbiano votato per Vendola (o Tabacci, probabilmente più dall’Udc) – oltre che Bersani, Renzi o Puppato –, animati dalla voglia di partecipare. Al netto di questi voti, si ha:

Primarie PD 2009: 3.102.709
Primarie csx 2012: 2.578.380

Inoltre va ricordato, in particolare a coloro che spiegano che un’alta partecipazione è particolarmente significativa in “questo periodo”, che questo periodo è un periodo particolarmente positivo per il PD, che è stabilmente primo partito in tutti i sondaggi, e che viene accreditato del suffragio più alto degli ultimi 4 anni, intorno al 30%, superato solamente dal PD di Veltroni di quasi 5 anni fa. È vero che sono soltanto dei sondaggi, ma sono gli unici numeri che abbiamo, confermati da qualunque osservatore politico che dà il PD in netta ripresa. Anche qui c’è un riferimento abbastanza attendibile: le elezioni europee del 2009 che si tennero quattro mesi prima delle primarie del PD, nelle quali il PD riscosse il 26%. Se si volesse aggiungere alle consultazioni precedenti del PD questo margine del 4% di potenziali elettori, ovvero un 15,38% sul proprio elettorato, si avrebbe questo risultato, con più di un milione di elettori in più:

Primarie PD 2009: 3.579.906
Primarie csx 2012: 2.578.380

Se si volesse addirittura raggiungere il paradosso, quello che voleva Renzi votato da elettori (o infiltrati) di centrodestra, si avrebbe uno scenario ancor più desolante:

Primarie PD 2009: 3.579.906
Primarie csx 2012: 1.474.590

Naturalmente quest’ultimo passaggio sarebbe ingeneroso, oltre che inaccurato, perché è certamente vero che molti elettori di Renzi sono effettivamente elettori del PD. Ma è un pensiero che dovrebbe sfiorare coloro che descrivevano Renzi come un oggetto avulso al Partito Democratico: perché, se le cose stessero così, queste primarie avrebbero segnato una drammatica diserzione del 60% dei proprî elettori.

In conclusione, è certamente vero che fare questo genere di stime è sempre difficile, come è vero che nel farle si finisce inevitabilmente per tagliare i numeri – come si dice – con l’accetta. È inoltre vero che un dato di partecipazione nell’ordine dei milioni è sempre un risultato positivo, quali che siano le aspettative e i precedenti. C’è però da riscontrare un fatto, che sia da addebitare alle regole farraginose e ostacolanti o all’incapacità di Renzi di coinvolgere elettori al di fuori del proprio perimetro ideologico, e cioè che i numeri della partecipazione non sono stati il successo di cui tutti parlano.

Non si azzardi a votarmi

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Se avete la sfortuna di seguire la politica italiana, ed ancora più sfortuna nel seguire le vicende intorno al PD, saprete che il grande dibattito di questi giorni è quello sulle primarie, e quindi su Matteo Renzi. Le stupidaggini di cui Renzi viene accusato finiscono per renderlo gradevole, forse pure votabile, anche a chi ha un’estrazione politica e un orizzonte ideale diverso. La prima di queste stupidaggini era che Renzi fosse “di destra”. Uno dirà: per il ruolo un po’ ambiguo, ed elettorale, dei suoi riferimenti alla religione? Per alcune uscite poco coraggiose sull’immigrazione? Per qualche ammiccamento al populismo grillino? Per l’ambizione spietata che traspare più di qualunque messaggio?

No, per l’economia. Ora, come ho già scritto:

L’inevitabile assunto logico di questa posizione è che essere pienamente “di sinistra” equivale, precisamente, a essere marxisti tout court, al socialismo reale. Non a una socialdemocrazia, non al welfare, ma all’economia sovietica.

Naturalmente è un’accusa sciocca, che ha come unico riferimento culturale la Guerra Fredda, e che si può facilmente rivoltare all’accusatore che, inevitabilmente, avrà come ricetta economica quella di tanti partiti di destra, e tutti i partiti di estrema destra, al mondo. Non è così che si impostano le discussioni di idee.

La nuova  accusa – giuro, è un’accusa! – è quella di venire votato da elettori eterodossi rispetto al proprio partito. Delusi del Pdl, berlusconiani timidi, finiani stufi, e così via. La considerazione che, per un candidato, questa sia la migliore qualità non è soltanto ovvia, ma imprescindibile in un panorama politico come quello italiano dove, da vent’anni, i voti ai partiti rimangono gli stessi, e a determinare chi vince le elezioni sono alleanze e coalizioni.

C’è però una questione interessante in questa follia, che non ho visto sottolineare in giro, ed è come essa sia la naturale prosecuzione dell’atteggiamento che molti, a sinistra, hanno avuto verso gli elettori di centrodestra in questi anni: la sistematica delegittimazione dell’opinione altrui. Berlusconi vinceva per le televisioni, con le quali aveva indottrinato l’elettorato (e poco importa se Berlusconi ha sempre perso quando aveva la Rai, e sempre vinto quando ce l’aveva la sinistra). È la sostanziale incapacità di concepire che qualcuno possa avere, in buona fede, un’idea diversa dalla propria: se non è d’accordo con me, significa che ha subito il lavaggio del cervello. O è uno stupido, o è un mascalzone.

E, quindi, «noi quei voti lì non li vogliamo». Forse il giorno che questa gente uscirà dalla trincea, un’elezione la vinceremo davvero. Nel frattempo, buona fortuna.

Liberalismo, socialismo ed essere di sinistra

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La distinzione fra destra e sinistra ha, tutt’ora, un senso. È vero che alcuni hanno la tendenza a considerare «di sinistra» ciò che apprezzano, e squalificare come «di destra» ciò che non condividono; è altrettanto vero, però, che la tassonomia su cui questa distinzione si appoggia – progressisti e conservatori – ha significato e lo avrà sempre. Esisterà sempre un progressismo e un conservatorismo, e non è un caso che la legittimità di questa distinzione sia contestata solamente da conservatori (veraci o postmoderni che siano), dimostrandone la subalternità ideologica.

Poi si parla di economia e c’è la caciara. Una caciara che è direttamente figlia della Guerra Fredda: l’Unione Sovietica è la sinistra, gli USA sono la destra, quindi il socialismo è la sinistra, il liberalismo è la destra. Altri rispondono cercando di ribaltare questo assunto, «il liberismo è di sinistra»: sono sciocchezze. Socialismo e liberalismo sono le due grandi ideologie progressiste degli ultimi due secoli, e infatti si combinano, in forme diverse, in ogni democrazia occidentale: dagli Stati Uniti, più liberali, alla Svezia, più socialista. È sbagliato dire che uno dei due sia di sinistra a scapito dell’altro: ogni simile argomento ha il proprio contraltare.

La verità è che per ogni esempio di liberalismo “di destra” c’è un esempio di socialismo “di destra”, e viceversa. Il liberalismo economico senza quello civile o politico è chiaramente una politica conservatrice, come lo sono le politiche di stampo socialista di tutti i partiti di estrema destra del mondo. Non si può pensare che l’unica idea pienamente di sinistra sia, alternativamente, il marxismo più puro o l’anarco-capitalismo, ma è precisamente questo il discutibile sottinteso di chi sostiene che il liberalismo o il socialismo siano tout court “di destra”.

Quelli che chiedono al governo Monti di fare politiche “di sinistra” dovrebbero avere il coraggio di dire “socialiste”. Che, comunque, non è una parolaccia.

È il caso di Macao? Non so, forse sì, parliamone.

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Utilitarismo è una parola molto bella. Vuol dire commisurare i lati positivi e i lati negativi, le conseguenze. E se due conseguenze opposte sono entrambe positive, o entrambe negative, bisogna cercare di pesarle – per quanto possibile –, e valutarne gli esiti complessivi. Utilitarismo, perciò, vuol dire che nessuna cosa è senza se e senza ma. Che anche una cosa buona, tipo la pace, può essere negativa in alcune circostanze. E che anche una cosa cattiva, come violare la legge, può essere buona in altre circostanze.

Il rispetto della legge è una cosa positiva, ha un effetto positivo su tutta la società. Però non è un valore assoluto, non è indipendente dalle circostanze. Queste valutazioni le facciamo in molte occasioni, magari non rendendocene conto: ci sarebbero esempî serî, che hanno a che fare con l’immigrazione, con gli aborti clandestini, con i Paesi dove l’omosessualità è illegale; ma è importante rendersi conto che questi ragionamenti li facciamo anche noi, nella vita di tutti i giorni, quando passiamo col rosso per portare una persona in ospedale, o se scavalchiamo una recinzione di un giardino privato per recuperare il pallone finito di là.

Anche la proprietà privata è una cosa, se non positiva, necessaria. E il motivo è che è utile al bene collettivo, quantomeno fino a quando i beni collettivi saranno una tragedia. Per questo occupare un edificio posseduto da qualcuno è una cosa doppiamente negativa: si viola la legge, incoraggiando così il mancato rispetto della stessa, e si viola il diritto di una persona, la proprietaria. Però la considerazione non può finire qui. Esiste un contraltare? E quanto è dannosa, per quell’individuo e quella società, questa violazione? Mi pare abbastanza ovvio che un palazzo lasciato abbandonato per quindici anni rechi molto poco giovamento al suo proprietario. Non a caso esiste l’usucapione, che è il modo che ha la legge di provare a mettere una pezza su questi equivoci, non potendo riuscirci fino in fondo.

Certamente a occupare quel palazzo di Milano ci saranno tante persone, ognuna con le proprie idee, molte delle quali vacue e inconsistenti, molte altre vetuste e inauspicabili. Ma questo cosa c’entra? L’utilità di un’azione non si valuta dalla coscienza e dalle idee di chi la compie. Questo lo fa la polizia del pensiero. Quando lavoravo al tendone dei senzatetto, capitava di consigliare a quelle persone di rivolgersi ad Action, un movimento politico che occupa illegalmente delle case. Era l’unica possibilità che avevano di vivere sotto un tetto, che i legittimi proprietarî non utilizzavano da anni e anni. Alcune volte non se ne accorgevano neanche, dell’occupazione! Certo, poi c’erano quelli che occupavano case popolari, scavalcando di fatto le persone che erano in fila prima di loro. Questa è prevaricazione, e nessuno può essere d’accordo. Però, appunto, questo dimostra che bisogna valutare caso per caso.

Ora, molti di voi diranno: ma se si comincia così, dove si va a finire? Lo decidiamo noi dove si va a finire. Perché, questo è importante, chiunque di noi mette un limite. Ogni persona retta considera la legalità come un bene, ma come un bene relativo. Immaginate che io possegga cinquanta case in una città e le tenga tutte vuote, senza usarle. E immaginate che ci siano diverse famiglie senza casa. Se questo non basta, immaginate che le persone senza casa siano cento, mille, diecimila, e che io possegga tutte le abitazioni della città. Se ancora non basta, immaginate che fuori ci sia un inverno freddo, dei lupi feroci, delle bande armate. Nessuno considererebbe più importante il mio diritto sulle case disabitate rispetto alla vita di quelle persone. Sto esagerando? Certo che sto esagerando, ma è per mostrare che c’è, per tutti, un punto oltre il quale l’occupazione è la scelta migliore, in base al giovamento che porta alla società. È il caso di Macao? Non so, forse sì, parliamone.

Quello che Beppe Grillo direbbe di Beppe Grullo

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per Il Post

“Ci sono due modi di non essere né di destra né di sinistra:
un modo di destra e uno di sinistra”
(Serge Quadruppani)

Siccome nessuno ha scritto un pezzo su Beppe Grillo e il Movimento 5 Stelle come lo scriverebbe Beppe Grillo stesso, allora ho deciso di scriverlo io. Ho provato a ricalcare il linguaggio di Grillo, stilemi, nomignoli, ipotesi cospirative, fallacie logiche e insinuazioni. Niente di quello che è qui scritto rispecchia, né nelle idee né nello stile, le opinioni di chi scrive.

È una parodia utile, credo, a mostrare come questo genere di qualunquismo paranoico sia deleterio e, in ultima analisi, inevitabilmente reazionario.

Mo’  vi mento 5 Stalle

È cominciata la caccia alle streghe. I poteri forti hanno deciso. Lo status quo va mantenuto, costi quel che costi. Politicanti e pennivendoli si sono messi a lavorare senza sosta per far prendere qualche voto al Mo’ vi mento. È lo specchietto per le allodole buono a riciclare il riciclabile, a conservare al potere la partitocrazia corrotta. La casta dei partiti ha mangiato la foglia, pronta ad aggiungere un posto alla ricca tavola dei rimborsi elettorali e delle nomine politiche. Tutto deve cambiare perché nulla cambi.

Lo sapevano già gli antichi romani, ripeti all’infinito una bugia e diventerà una verità. Il Movimento 5 Stalle fa paura, fa paura anche se raccoglie il letame sparso dagli altri partiti. Fa talmente paura che lo facciamo candidare in tutta Italia, gli facciamo noi la campagna elettorale, mobilitiamo tutti i nostri accoliti per votare quei quattro busoni eterodiretti dei grillini. O meglio, i grilletti: quelli che vengono sparati dal loro Grande Capo, Beppe Grullo, assieme alle sue cazzate sulla pelle dei cittadini. Sono i grilletti delle sue armi di distrazione di massa.

Sono tutti d’accordo per inchiodarsi alle loro poltrone, come politicanti ormai in carriera, assieme ai loro compari che gli hanno regalato titoli su tutti i giornali. Pensate che i giornalai abbiano parlato dell’enorme crescita dell’astensione? Della sconfitta del PDL? No, gli scribacchini come loro solito si sono prostituiti al miglior offerente, per nascondere sotto al tappeto quello che non gli conviene far sapere. Il Grande Capo fa la verginella, non ne sa niente. Lui è il campione dei cittadini informati. Però viene sorretto da tutti i poteri della prima e della seconda repubblica.

Per non scontentare nessuno, hanno reso omaggio a tutta la casta: sono più efficienti di Veltrusconi. Il primo sindaco l’hanno preso a Sarego, dove dominava la DC: ci vogliono far credere che tutta quella gente che votava per clientela ora sia improvvisamente rinsavita? A Parma, dove comandano le Coop e non si muove foglia che il PCI non voglia, il grilletto di turno prende un voto su cinque. Chissà quanti surgelati avrà dovuto comprare Puzzarotti. In Sicilia, la terra della Mafia (ma dove la crisi, ben sfruttata dal Mo’ vi mento, fa molto peggio), tutti i candidati non hanno aspettato un secondo per usare i celebri espedienti democristiani: Antonio Pesce detto Grillo, Giuseppe Culicchia detto Grillo. Sono diventati tutti grilli, o forse tutti grulli, là in città.

Qualche spirito libero, reo di aver criticato il Mo’ vi mento, è stato subito zittito dai media di regime. Con un riflesso pavloviano gli sgherri hanno difeso il loro padrone, riempiendosi la bocca di parole come “libertà”. Ma quale libertà? Quella di morire schiacciati da una pressa sul proprio posto di lavoro? Intanto, però, si stracciano le vesti e gridano al “terrorismo” per un banchiere colpito alle gambe da qualche squilibrato, guarda caso, il giorno prima delle elezioni. Pensano di essere riusciti a distogliere l’attenzione dall’unica vera rivoluzione, quella che li spazzerà via tutti.

Ci hanno ammaestrati ad andare dietro a un vecchio miliardario, che guida il suo partito come guida l’automobile (ma per quello non potrà essere condannato). Una balena che a forza di mangiare sulle nostre teste, ha più pancia di Trimalcione. Fagocita il nostro denaro da trent’anni, sempre professionalmente contro corrente, sempre sulla cresta dell’onda. Nel frattempo Casaleggio A$$ociati passa a ritirare il pizzo. Sono molto associati, sono associati a delinquere. È arrivato il momento di riscuotere la cambiale firmata col sangue dei sudditi. Loro non ce lo permetteranno, non gli conviene, ce lo permetteremo noi.

Faticosa analisi di un post di Beppe Grillo