Guevara chi?

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Ieri Benigni ha citato Pazienza che citava Che Guevara. Che la citazione fosse di Che Guevara, Benigni non lo sapeva, o forse se l’era scordato. E forse anche noi ci siamo un po’ scordati di Che Guevara, nelle camerette di tanti di noi fino a qualche anno fa. Tanto che ci si chiede, per scherzo, «Che Guevara chi?». C’è un posto, però, dove Che Guevara è sempre di moda. Ancora più di quanto non lo sia stato qui, tanto da intitolargli vie, figli e negozî. Questo posto è la Palestina, dove lo chiamano Givara (lo pronunciano così), e dove scattai questa foto, all’alimentari Guevara. C’è una cosa che non bisogna dire, però, in Palestina: che Givara era ateo, quella cosa lì non la possono credere.

È forse un peccato che gli adolescenti di sinistrasinistra abbiano perso questo tipo di icone in favore di altre più postmoderne, conservatrici e anti-illuministe. Che Guevara era un vero marxista: progressista, internazionalista e guerrafondaio.

Voglio pubblicare un libro

Uhm, forse questa cosa dovevo scriverla la settimana scorsa, quando un sacco di gente nuova è capitata sul mio blog, ma – e lo dico senza alcun compiacimento – il marketing non è il mio forte.

Dunque, io ho scritto questo libro, quando ero in Palestina. È un racconto dei miei giorni là. Chi mi ha seguito, al tempo, ne conosce buona parte. Poi l’ho aggiustato per bene, ci ho aggiunto delle cose, l’ho rivisto: secondo me è venuto bene, c’è molto del mio meglio.

Ora, l’ho quasi finito e lo vorrei pubblicare. Però non so come si fa. Allora io, intanto, metto qua un bell’estratto di venti pagine che secondo me riassume bene tutto il libro, perché c’è tutto: i bambini, la politica, la quotidianeità, e il conflitto arabo-israeliano. Anche io, un po’.

Se passa uno che fa l’editore, gli dà un’occhiata. Tutti gli altri, se hanno voglia, gli danno una letta e mi scrivono critiche e consigli: tanto il giorno che lo pubblico, voglio metterlo disponibile anche qui, gratis.
C’era anche un giornalista importante che era capitato sul mio blog al tempo della Guerra a Gaza manifestando apprezzamento, al quale avevo chiesto di farmi la prefazione, e che forse mi ha detto di sì.

Il libro lo trovate qui:
DISTANTI SALUTI, duecento racconti dalla Palestina

Viva Israele

Oggi Ahmadinejad è andato all’ONU e ha definito Israele come paese “razzista”.

La gran parte dei delegati si è immediatamente alzata, e ha lasciato l’aula fra applausi scroscianti. Altri sono entrati in sala vestiti da pagliacci. È stata una scena quasi commovente, e qualunque umiliazione che quel cane maschilista e omofobo subisca, fa sentire meglio, come quella – ormai celebre – della generale risata degli studenti della Columbia University quando affermò che «in Iran non esistono omosessuali».

Basterebbe pensare alla condizione delle donne in Iran, sarebbe sufficiente uno qualsiasi dei racconti di come vive la sua vita da fondamentalista religioso, per far schierare qualunque persona per bene, di riflesso – anche senza pensarci – dalla parte opposta.
Ed è ancora più facile schierarsi dalla parte opposta quando la parte opposta è Israele, vittima indomita degli urlacci atomici e delle promesse di distruzione da parte di quel signore lì.

Però non dimentichiamoci una cosa: Israele è un paese razzista. Probabilmente – certamente – è meno razzista di tanti altri stati del mondo che ricevono un centesimo – anzi non ne ricevono – delle critiche rivolte a Israele; ma questo non toglie che molte cose, alcuni provvedimenti, alcune leggi, alcune abitudini, vigenti in Israele siano definibili, e non possano sfuggire a nessuna delle tante accezioni con cui usiamo la parola “razzista”.
Perché un ebreo russo ha il diritto di andare a vivere in Israele e un induista no? Questo è o non è un fondamento razziale? Perché nei quartieri arabi non vengono rifatte le strade, non si può ricevere la posta, non arriva il certificato elettorale, e in quelli ebrei sì? Per una ragione specifica, che fonda queste e tante altre piccole discriminazioni che potrei elencare: perché gli uni sono arabi, gli altri ebrei.
Perché, come ebbi a dire con una definizione che raccolse una qualche fortuna, Israele – com’è ora – non è lo Stato degli ebrei, ma lo Stato per gli ebrei.

Ci sono tante ragioni che possono spiegare questi fatti, ma si può spiegare tutto, questo non lo giustifica: la decennale ossessione israeliana, ovvero l’ebraizzazione d’Israele è o non è fondativamente, endemicamente, un concetto razzista? Oltre che un concetto infame.
Di solito sento rispondere: «eh, ma un ebreo in Palestina vivrebbe molto peggio di come vivono gli arabi-israeliani». Bene, e dunque? Il fatto che un ipotetico Stato palestinese sarebbe altrettanto, o più, razzista, sconta di qualcosa l’ingiustizia israeliana? Questo è tifo, non è pensare.

Capisco bene che Ahmadinejad, sia in malafede e strumentalizzi la potenza evocativa di quell’espressione. Capisco anche, come ho già detto, quanto infastidisca lo squilibrio argomentativo, l’incoerenza sincronica (che è il principio di non contraddizione, non il non cambiare idea) di tanti censori d’Israele e dell’Occidente.

Capisco ancora di più l’obiezione – che immagino – di tanti benintenzionati: “non conviene” dirlo.
Però io vorrei che la smettessimo, e magari cominciassimo a combattere le immense menzogne in malafede, non con delle piccole menzogne in buona fede (che poi dov’è che il mezzo diventa fine?), ma con la genuina, semplice – perfino noiosa – nonimplicante verità.

Un passo più in là

Liste nere – Diario della Palestina 188

Questa notizia, delle musiciste palestinesi che vanno a un concerto in memoria dell’olocausto e vengono minacciate di morte, ha tanto a vedere con una cosa che m’è successa e che non ho mai raccontato per pudore, e per la delusione che ne scaturì.

Ve la racconto ora, anche perché risponde a una parte del perché-non-ci-torni, domanda che mi sono sentito rivolgere tante e tante volte.

Si tratta dell’incontro con questi ragazzi qui. Gli shiministim, quel gruppo di ventenni, disposti ad accettare il carcere pur di non fare servizio nell’esercito israeliano, o – anche più commendevolmente – di non farlo nei territorî occupati. Avevo fatto notare altre volte come quest’ultimo caso fosse ancora più chiaro, perché chi non ha un pregiudizio contro l’esercito, ma lo fa su un’istanza di giustizia concreta è ancor più – a mio avviso – rimarchevole.

L’ho sempre considerati quella parte sana della società israeliana, quella che viveva del giusto spirito – così latitante nella società in genere – che chiede a sé stessi di comportarsi bene al di là degli altri: non importa se i palestinesi non fanno cosa è giusto, noi vogliamo farlo, mi sembrava che dicessero.

Se guardate il loro programma, quello che pensano, non c’è piattaforma che potesse essere più vicina a ciò cui ambisce un palestinese desideroso di pace. Così ero andato a quella manifestazione per prendere un po’ di contatti e cercare di organizzare un incontro con i miei bambini. Specie questa ragazza, di cui ricordo il sorriso e i mille «grazie» che mi dette in cambio della proposta, come fosse un regalo che le facevo, grazie grazie, continuava a ringraziarmi.

La mia idea fosse che questi ragazzi potessero venire da noi, oddio non proprio da noi per ragioni di permessi, ma insomma che ci si incontrasse e chiedessero tutto quello che volevano, per far loro vedere la faccia che aveva quell’altra faccia d’Israele. Sarebbe stato anche bello sentire le loro risposte, chissà cosa avrebbero detto quando Ahmed gli avesse chiesto « perché ci ammazzate tutti?», o Mohammed avesse affermato «io lo so che siete più intelligenti di noi, è per questo che ci fregate» come ebbe a dire una volta, o le bimbe, Lana, Ghaida, Reem: chissà cosa avrebbero detto, quanti di quei pregiudizî sarebbe stato possibile scardinare, anche solo con il confronto.

E invece non avevo fatto i conti con quegli stessi pregiudizî, non possiamo farlo, i genitori non lo permetterebbero mai: chiunque incontri un israeliano viene blacklisted. Lo stesso posto che avevo trovato per farlo, un locale chiamato Everest (già mi immaginavo di scrivere sul blog: gli israeliani e i palestinesi si possono incontrare senza fare la guerra, soltanto sull’Everest!), che era appena dopo il check point israeliano, e appena prima di quello palestinese, ma sulla via che porta a una colonia israeliana, Gush Etzion, che avrebbe permesso ai refusnik israeliani di dire al check point di essere andati lì (e non in territorio dell’Autorità Palestinese, dove è vietato andare).

Anche quel posto, l’Everest, era blacklisted: la ragione è immediata, ed era quella che me lo aveva fatto scegliere – ci passano gli israeliani. Le conseguenze che mi avevano raccontato, specie per le ragazzine, erano terribili. In genere, mi diceva Ahlam, la famiglia avrebbe ricevuto il marchio di quell’onta. Le bimbe probabilmente non avrebbero trovato marito,da grandi. Né le figlie dei fratelli. Come sempre tutto il peggio va sulle spalle delle donne (anche se, considerazione ingenua: un marito che non ti sposa perché un membro della tua famiglia ha incontrato un “nemico”, è meglio perderlo che mai trovarlo).

Rinchiusi la coda fra le gambe, rassegnato all’idea che non si potesse fare veramente nulla per muovere tutto un passo più in là.

Ma manco provinciali?

In questo momento la notizia d’apertura della home della CNN è il barcone di libici diretto in Italia, che è affondato poco dopo la partenza, causando la morte di almeno 200 persone:

cnn

Su Repubblica.it è la quarta notizia, su Corriere.it la quinta, su lastampa.it addirittura la settima. Non metto lo screen perché, in tutti e tre i casi, è talmente in basso che non ci arriva l’alt+stamp.

Dopo il matrimonio la festa

Dopo il matrimonio la festa – Diario della Palestina 187

Di materiale arretrato ne ho tanto, questo è proprio molto arretrato: devo pubblicarlo da questo matrimonio qui, a cui è – appunto – seguita la festa!

Tutto in stile molto palestinese.

La cosa che avevo notato subito erano i tantissimi baci e abbracci fra zii/fratelli della sposa e sposo, quasi fosse chiaro il passaggio del testimone. Una cosa così ostentata che pare difficile immaginare che fosse “naturale”.

Come vedete l’addobbo, estremamente kitsch, dove andranno a sedere gli sposi:

1-addobbo

L’arrivo dei neo-sposi!

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Quando vengono alzati in aria per festeggiare, lui viene preso in spalla da tutti, mentre lei – altrimenti sarebbe scandalo – viene alzata appoggiata su di una sedia, nessuno deve toccarla!

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Lui porge lo spumante (è un matrimonio cristiano!) a lei, e lei porge lo spumante a lui, con le braccia incrociate:

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E il taglio della torta avviene con una sorta di sciabola, lui guida, lei ha la mano su quella di lui:

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Alla fine, c’è il ballo dei due sposi, portano dei barattoloni dal quale esce ghiaccio secco, cosicché si formi questa sorta di nebbia. Questo abbraccio è il momento più equivoco. Durante tutta la festa gli sposi non si toccano, soltanto per mano, un bacio non sia mai.

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Alla fine della festa c’è la processione delle candele, tutte le ragazzine, le bambine, le donne non sposate, prendono in mano una candela e si mettono in fila, come a una processione, e portano queste candele alla sposa:

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E tutti applaudono:

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Imprecazioni

Imprecazioni – Diario della Palestina 186

Sì, c’era quella barzelletta del paradiso (cristiano) alla cui entrata si sentiva dire «per Dio», «per la Madonna», «per San Questo», «per San Quello», cosicché Pietro – molto arrabbiato – si precipitava poi al cancello per chiedere: « chi è che impreca in questo modo?!?», e si sentiva rispondere: «macché impreca e impreca, sono il postino!».

Che c’entrerà con la Palestina? Che ho sempre pensato che ci fosse quella storia del nominare in vano, che valesse – se per Dio, doveva valere anche per madri, figli, spiriti santi, madonne, madri delle madonne, figli delle madonne, spiriti santi delle madonne – e invece ho capito che se “oddio” è al limite tollerato, e “Madonna mia” accettato di buon grado, tutti gli altri sono approvati a pieno suffragio.

E come l’ho scoperto? Perché le oramai celebri Suore Figlie di Sant’Anna, quando inciampano, o si trovano a proferire qualche interiezione, concludono la frase con Sant’Anna. Sbatti su uno spigolo? «Oh, Sant’Anna!», che immagino – essendo le Figlie di Sant’Anna – vale come per noi «ommamma», però se lo fanno loro, liberi tutti!

Innamorarsi… e rovinarle la vita

Innamorarsi… e rovinarle la vita – Diario della Palestina 185

Dan Rabà è un italo-israeliano che legge il mio blog, ogni tanto commenta o critica qualcuno dei miei post, e spesso lo fa in privato. Tiene un blog, Israele Diversa, che tenta – appunto – di offrire una prospettiva non convenzionale di quello Stato tanto discusso.

Ieri, a commento del mio angosciato post sulle donne palestinesi mi ha raccontato qualcosina della sua vita. Siccome l’amarezza delle sue considerazioni mi sembra un’ottima chiosa a quello che ho scritto, ho deciso – ovviamente con il suo permesso – di farlo leggere anche a voi:


Quando sono arrivato in Israele sono andato in Kibbutz, dove ho vissuto 12 anni, a Sasa al confine col Libano.
Ho lavorato in stalla insieme ad arabi cristiani, drusi e circhessi. Ha me piacciono le donne orientali, nere, con gli occhi seducenti…
Le donne circhesse sono bellissime, le donne druse non le ho potute vedere, quando sono andato a mangiare dal mio amico, le donne e i bambini li ha chiusi in cucina, ho visto solo la moglie quando ci ha portato da mangiare, ma tutta coperta.
Le donne arabe cristiane lavoravano anche in Kibbutz, nell’ostello, lo Zimmer del Kibbutz.

Insomma io avevo il terrore di innamorarmi di una donna araba, per la vita impossibile che avrei avuto io e i rischi che avrebbero avuto le eventuali donne.
Prima di tutto, come saprai, non esistono arabi che vivono in Kibbutz, non avrei potuto portare una ragazza araba in Kibbutz.

Ma la ragazza araba avrebbe disonorato la famiglia e nel peggiore dei casi si sarebbe fatta uccidere da uno dei fratelli. Ho avuto una vita sentimentale aperta e ricca, mia madre era femminista e molte delle mie ragazze pure.

Solo in Israele ho avuto paura di guardare una donna, ho avuto paura di guardare una donna araba.
Avrei potuto innamorarmi …e rovinarle la vita.

Prima le donne

Prima le donne – Diario della Palestina 184

C’è una cosa rabbiosa che mi porto dentro da un po’, e che non scrivo. Metà è perché voglio renderla il meno possibile uno sfogo e ci provo ora, e metà è perché ho paura della voracità con cui potrebbe essere recepita e strumentalizzata da chi riveste i soprusi israeliani con la solita, verissima ma insufficiente, affermazione che Israele sia il meno peggio.

Io mi porterò dietro, dalla Palestina, la convinzione feroce che l’emergenza – lì – sia la condizione delle donne, molto più che l’occupazione e il Muro. Di più, anche, delle piccole angherie quotidiane che lo Stato d’Israele impone agli arabi e ai palestinesi, soltanto come farabutto incentivo ad andarsene: in questi mesi ne ho elencate varie, che non hanno nulla, nulla, a che vedere con la sicurezza.

Ma sì, molto di più: perché l’espropriazione della propria persona imposta alle donne in Palestina (e ancora peggio negli altri paesi arabi), la deliberata rimozione d’ogni libertà individuale, la sostanziale verità – da nessuno negata – che il corpo di ogni donna è posseduto dagli uomini della propria famiglia e poi dal marito, l’indecente senso di colpa instillato in ogni bambina e poi ragazza solo per essere nata femmina, è veramente quanto di più atroce ci sia, in Palestina.

Così, ogni volta che sentirò qualcuno usare una parola per lamentare (giustamente) le ore che un uomo palestinese deve aspettare in fila a un check point, ne chiederò almeno cinque volte tante, di parole, per lamentare che una donna palestinese abbia un impedimento alla propria libertà tanto più efferato, e tanto più vicino: come si può protestare perché lui non può muoversi fino a Gerusalemme, senza protestare perché lei non può muovere un passo più in là della porta di casa?

Così, ogni volta che sentirò qualcuno usare una parola per lamentare (giustamente) l’espropriazione e la demolizione delle case dei palestinesi, ne chiedero almeno cinque volte tante, di parole, per lamentare l’impossibilità per una donna palestinese di averne una, di casa, e poterci andare a vivere da sola, pena l’uccisione da parte del padre o di un fratello.

Così, ogni volta che sentirò qualcuno usare una parola per lamentare (giustamente) l’impossibilità di un profugo palestinese di tornare a vivere nel luogo che più gli piace con le persone che ama, ne chiederò almeno cinque volte tante, di parole, per lamentare che una donna palestinese non possa decidere di amare e sposare chi vuole, perché lei non si appartiere – appartiene ai maschi della famiglia.

Così, ogni volta.

Roma

Non c’è dubbio, è la città più bella del mondo: detto da un fiorentino.