Liste nere – Diario della Palestina 188
Questa notizia, delle musiciste palestinesi che vanno a un concerto in memoria dell’olocausto e vengono minacciate di morte, ha tanto a vedere con una cosa che m’è successa e che non ho mai raccontato per pudore, e per la delusione che ne scaturì.
Ve la racconto ora, anche perché risponde a una parte del perché-non-ci-torni, domanda che mi sono sentito rivolgere tante e tante volte.
Si tratta dell’incontro con questi ragazzi qui. Gli shiministim, quel gruppo di ventenni, disposti ad accettare il carcere pur di non fare servizio nell’esercito israeliano, o – anche più commendevolmente – di non farlo nei territorî occupati. Avevo fatto notare altre volte come quest’ultimo caso fosse ancora più chiaro, perché chi non ha un pregiudizio contro l’esercito, ma lo fa su un’istanza di giustizia concreta è ancor più – a mio avviso – rimarchevole.
L’ho sempre considerati quella parte sana della società israeliana, quella che viveva del giusto spirito – così latitante nella società in genere – che chiede a sé stessi di comportarsi bene al di là degli altri: non importa se i palestinesi non fanno cosa è giusto, noi vogliamo farlo, mi sembrava che dicessero.
Se guardate il loro programma, quello che pensano, non c’è piattaforma che potesse essere più vicina a ciò cui ambisce un palestinese desideroso di pace. Così ero andato a quella manifestazione per prendere un po’ di contatti e cercare di organizzare un incontro con i miei bambini. Specie questa ragazza, di cui ricordo il sorriso e i mille «grazie» che mi dette in cambio della proposta, come fosse un regalo che le facevo, grazie grazie, continuava a ringraziarmi.
La mia idea fosse che questi ragazzi potessero venire da noi, oddio non proprio da noi per ragioni di permessi, ma insomma che ci si incontrasse e chiedessero tutto quello che volevano, per far loro vedere la faccia che aveva quell’altra faccia d’Israele. Sarebbe stato anche bello sentire le loro risposte, chissà cosa avrebbero detto quando Ahmed gli avesse chiesto « perché ci ammazzate tutti?», o Mohammed avesse affermato «io lo so che siete più intelligenti di noi, è per questo che ci fregate» come ebbe a dire una volta, o le bimbe, Lana, Ghaida, Reem: chissà cosa avrebbero detto, quanti di quei pregiudizî sarebbe stato possibile scardinare, anche solo con il confronto.
E invece non avevo fatto i conti con quegli stessi pregiudizî, non possiamo farlo, i genitori non lo permetterebbero mai: chiunque incontri un israeliano viene blacklisted. Lo stesso posto che avevo trovato per farlo, un locale chiamato Everest (già mi immaginavo di scrivere sul blog: gli israeliani e i palestinesi si possono incontrare senza fare la guerra, soltanto sull’Everest!), che era appena dopo il check point israeliano, e appena prima di quello palestinese, ma sulla via che porta a una colonia israeliana, Gush Etzion, che avrebbe permesso ai refusnik israeliani di dire al check point di essere andati lì (e non in territorio dell’Autorità Palestinese, dove è vietato andare).
Anche quel posto, l’Everest, era blacklisted: la ragione è immediata, ed era quella che me lo aveva fatto scegliere – ci passano gli israeliani. Le conseguenze che mi avevano raccontato, specie per le ragazzine, erano terribili. In genere, mi diceva Ahlam, la famiglia avrebbe ricevuto il marchio di quell’onta. Le bimbe probabilmente non avrebbero trovato marito,da grandi. Né le figlie dei fratelli. Come sempre tutto il peggio va sulle spalle delle donne (anche se, considerazione ingenua: un marito che non ti sposa perché un membro della tua famiglia ha incontrato un “nemico”, è meglio perderlo che mai trovarlo).
Rinchiusi la coda fra le gambe, rassegnato all’idea che non si potesse fare veramente nulla per muovere tutto un passo più in là.