Weinstein e noi

Tutte le scelte che facciamo influenzano gli altri. Ogni nostra azione o pensiero espresso contribuisce a modificare l’ambiente nel quale viviamo, noi e gli altri. Per questo è sempre una sciocchezza dire (o indirizzare) un “non sono cazzi miei” (o “tuoi”).

Un produttore che estorce prestazioni sessuali in cambio di favori non è soltanto responsabile del suo singolo comportamento, ma contribuisce a creare un ambiente nel quale questo comportamento è accettato (o, come si sente dire in questi giorni, “capita a tutte”, “è sempre stato così”, etc). Immaginate quale diverso genere di reazione si avrebbe se l’accusa fosse di rapimento: nessuno suggerirebbe che “è un comportamento vecchio come il mondo” (quando, nei fatti, lo è: ne è piena la mitologia). E, proprio per questo, immaginate quanto più agevole (meno umiliante) sarebbe per la vittima denunciare tale comportamento.

Lo stesso vale per le vittime. Essere vittima di un’ingiustizia non rende i proprî comportamenti eticamente irrilevanti. L’essere una vittima non appiattisce ogni reazione. Ci sono vittime che si comportano in centinaia di modi diversi, e annullare questa differenza, suggerire che tutti (tutte) sono uguali, è un’ulteriore ingiustizia. Le accuse a Harvey Weinstein raccontano un’ampissima gamma di comportamenti deplorevoli, dallo stupro alle molestie, dall’estorsione a sfondo sessuale alla omertosa compravendita delle stesse, dalle minacce di rovinare una carriera al tentativo di estorcere omertà. Raccontano anche un’ampissima gamma di reazioni delle vittime: chi si arrende al ricatto, chi non lo fa, chi soggiace alle minacce, chi si chiude in bagno; a fatto avvenuto c’è chi va immediatamente dalla polizia, chi decide di denunciare dopo vent’anni, verosimilmente ci sono tante altre persone che non trovano il coraggio di denunciare.

SilenceQuesto, ovviamente, non rende la persona meno vittima: quale che sia la reazione di una vittima di un’ingiustizia, quella persona ha diritto – e noi abbiamo il dovere di darlo – al conforto che, giustamente, proviamo per le vittime. E, altrettanto ovviamente, non cancella le circostanze – come lo stupro – nelle quali la vittima non ha alcuno spazio d’azione. Alcune non hanno avuto la possibilità di chiudersi in bagno. Ma la totale privazione dello spazio d’azione non può essere determinata, ipso facto, dallo squilibrio di potere fra le due persone coinvolte.

L’idea che quando esiste una qualunque forma di squilibrio di potere non possa esserci consenso è un’idea assurda. È un’idea che riduce l’umanità a una colonia batterica: assume il peggio da ogni persona e la tratta con sufficienza: «chiunque farebbe lo stesso». Non è vero. Ci sono tante persone – io ne conosco diverse, e sono certo anche voi – che si sono trovate in una situazione simile e hanno sbattuto la porta in faccia al potente di turno e, allo stesso tempo, all’occasione che era stata loro ventilata.

Possiamo dire che una persona che rifiuta tale ricatto e lo denuncia contribuisce a creare un mondo libero da questo sistema di vessazioni più di una persona che vi acquiesce? Certo che lo possiamo dire. Possiamo dire che le persone che hanno deciso di denunciare Weinstein sono più coraggiose e generose di quelle che non l’hanno fatto? Sì. Non tutti i comportamenti sono uguali.

È chiaro: fronteggiare un sopruso, fronteggiare il male, non è una cosa facile. Ma dare per scontato che sia impossibile, che non esiste comportamento virtuoso, che di fronte alle ingiustizie siamo tutti uguali, è la cosa più conservatrice che c’è. E, se ci pensate, è lo stesso cinismo fatalista dell’antitetico e altrettanto in voga: «se vai nella stanza del produttore è colpa tua».

Parliamo di utero in affitto

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Pensavo di essere favorevole all’utero in affitto: gli unici argomenti contro alla pratica che avevo ascoltato erano quelli che riguardavano lo “sfruttamento”. Sostantivo equivoco e che intende due cose: l’idea che una persona povera possa decidere di avere un “reddito da maternità”, e questa decisione sia influenzata da una costrizione economica. E quella che si preoccupa che, in alcuni Paesi con sistemi giuridici più labili, una donna sia fisicamente costretta a fare la madre seriale in affitto. Sono due preoccupazioni diversissime: la prima si risolve logicamente, la seconda è un’obiezione non sostanziale.

Chi parla di “costrizione economica”, ho l’impressione, non ha idea di cosa sia la povertà, o se l’è dimenticato. La povertà costringe a fare qualunque cosa, spesso cose peggiori di fare la madre in affitto, ed è sensato che a decidere quali siano le cose migliori o peggiori sia la donna stessa (e non lo Stato, per lei). Riconoscerete, è un discorso simile al medesimo argomento sulla prostituzione. Se pensate che il ricorso al reddito da maternità sia sgradevole e un effetto della povertà, fate bene a combattere contro la povertà, ma finché quella c’è, togliere un’opzione a una donna che domanda di poterne usufruire (denunciandone, in contumacia, lo sfruttamento) è non soltanto illogico, ma anche sessista.

Chi, invece, si preoccupa che in alcuni Paesi lo sfruttamento sarebbe reale, basato su costrizioni fisiche, ha buone ragioni per preoccuparsi, ma la soluzione sarebbe semplice: limitare la legalità della pratica ai Paesi nei quali si hanno sufficienti garanzie che ciò non succeda. Sia a livello giudiziario che esecutivo: potrebbe voler dire escludere Paesi anche importanti, come l’India, ma questa non è un’obiezione di principio. È una preoccupazione pratica che ha una soluzione.

SurrogaInvece, approfondendo la questione con il mio amico Pietrino Cadoni, mi sono reso conto di essere impreparato a rispondere ai suoi dubbî sulla questione, spostando la mia valutazione dal «qual è il problema?» al «forse il problema c’è». I suoi dubbî sono riconducibili a tre filoni.

1) Certo che ci deve essere la libertà di affittare il proprio utero. Ma non è un uso subottimale di risorse? È enormemente laborioso farlo: espianto, fecondazione in vitro, reimpianto, etc. Costa tempo, dolore e denaro: tantissimo. Non è uno spreco, forse?

Quanto deve contare la volontà di una coppia di avere (metà) dei proprî geni? Nei fatti, con tutti i bambini senza genitori che ci sono, non dovrebbe essere fortissimamente incentivata l’adozione piuttosto che un processo simile? E se la risposta è che il processo di adozione è troppo difficile, magari la risposta è renderlo più facile (ovviamente parto dal presupposto che anche gli omosessuali debbano avere questo diritto). Trovo completamente sensato essere prudenti nel dare dei figli a delle famiglie, ma non dimentichiamoci che la cosa che succede alla larghissima parte dei bambini è di nascere e crescere in una famiglia scelta a caso. Forse dovrebbero, semplicemente, essere (molto) alleggerite le procedure per l’adozione?

2) Certamente i bravi genitori lo sono a prescindere dall’orientamento sessuale e tutta la letteratura scientifica lo indica. Ma nei primi mesi di vita il bambino non sta meglio con la madre che l’ha avuto in grembo? Stiamo creando una situazione obiettivamente peggiore. Ripeto, libertà assoluta, ma stiamo facendo danno al bambino; e non per rispettare la volontà della madre, ma per tornaconto economico e per il desiderio di prole di una coppia. Questa magari è una fesseria, ma proprio non so rispondere.

Questo (la prima parte) è un tema sul quale, semplicemente, non sono qualificato a rispondere. Ci sono sicuramente psicologi o sociologi dell’infanzia che hanno delle risposte più precise, e che invito a intervenire. Attenzione, però: non si tratta dell’obiezione, sciocca, secondo cui a un bambino servono madre e padre, ma del fatto che nei primi mesi di vita avere la madre (o una madre) possa essere un vantaggio. Come ho detto, non so quanto ciò sia vero (tenderei a dire di sì), ma se ciò è vero, bisognerebbe incentivare moltissimo l’adozione (anche coi metodi scritti qui sopra). La seconda parte, invece, mi preoccupa meno. Una cosa che però voglio rilevare è che questa sarebbe un’obiezione anche alla fecondazione eterologa e, al contrario, non lo sarebbe alla donazione di un seme maschile a una coppia di lesbiche.

Se si può pagare l’uovo, si può pagare il seme, l’espianto, l’impianto, l’uso dell’utero, allora dobbiamo logicamente rendere oggetto di compravendita il prodotto finale. Cioè il bambino. Magari è un modo per farne nascere di più, tipo pacchetto all inclusive. Ma a quel punto dei bambini che abbiamo già, pronti, che ne facciamo? Li vendiamo?

Penso sia un buon argomento, con il solo caveat che alla domanda “ma se io sono d’accordo con questo, devo necessariamente essere d’accordo con quest’altro” si risponde logicamente con “allora sono d’accordo con entrambi”, altrimenti è una slippery slope. In quale momento l’acquisto di un essere umano diventa schiavitù? Finisce per essere una questione bioetica: quando ha coscienza? Quando ha cognizione del dolore? Quando è partorito? Ciascuna di queste riposte complica enormemente la possibilità di fare una legislazione coerente.

Insomma, non credo che queste siano opinioni conclusive, ma credo siano ottimi elementi di riflessione su un tema sul quale – sarà probabilmente evidente – avevo ragionato meno che su altri, spero che non siano utili solo a me.

La condivisione, l’amicizia vera

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Lunghissima e tediosissima premessa
Questo è probabilmente il post di questo blog fruibile da meno lettori. Se cominciate a leggerlo ci sono molte possibilità che finiate a dire: ma che cosa sto leggendo? Si parla di etica, di amicizia, di famiglia. Se ne parla, però, in un modo in cui probabilmente non avete mai parlato dell’amicizia, delle persone alle quali si vogliono bene. Oppure in un modo che pensate eccessivo: eccessivamente emotivo, eccessivamente razionale, eccessivamente fiducioso. È una cosa che ho scritto per me, per metterla assieme per iscritto e rileggerla, e avrei preferito farla leggere a poche persone; poi mi sono sentito un egoista e un vigliacco ad avere questo pensiero (ho molta paura di rimanere deluso) e perciò mi sono imposto di pubblicarla qui.

Inoltre questo post parte da alcune premesse, ovviamente opinabili, senza le quali il post perde completamente di senso ed è quindi inutile leggerlo. Le premesse sono di due ordini, di metodo e di contenuto. Quelle di metodo (che possiamo definire utilitariste e illuministe) sono:

  • I) Il nostro obiettivo (quello dell’etica) è garantire il maggior benessere delle persone, o diminuirne le sofferenze.
  • II) L’unico strumento efficace di conoscenza del mondo che abbiamo è la ragione: dove per ragione intendo il metodo scientifico, lo scetticismo, il rigore. Non che la razionalità sia un metodo al 100% efficace, tutt’altro, è che è l’unico che ha una qualche efficacia.
  • III) Per questo qualunque proposizione, argomento o obiezione deve essere vagliato secondo le regole elementari della logica: fallacie logiche come “se sostieni la cosa x, che porta a y, allora finirai a sostenere z” (piano inclinato), “dato che non possiamo sapere x, allora y è vero” (argumentum ad ignorantiam), “x è sbagliato perché è x”(petitio principii), o qualunque tipo di non sequitur, non sono ammesse. Per contestare un argomento bisogna contestarne le premesse o il ragionamento.
  • IV) Condividere una decisione con più persone ha statisticamente più possibilità di produrre una soluzione migliore rispetto a produrla da soli. Ciò non vuol dire che tutte le volte sia vero, ma che sono più le volte in cui avere altri pareri migliora l’accuratezza di una decisione, rispetto alle volte in cui la danneggia.

Quelle di contenuto:

  • A) Essere veramente amici di una persona vuol dire tenere alla sua felicità o infelicità quanto alla propria. In pratica, alla domanda: «meglio che io venga torturato per un giorno, o l’amico venga torturato per due giorni», la risposta è necessariamente la prima (a parità di tipo di tortura, capacità di sopportare il dolore, etc.).
  • B) È possibile fidarsi delle persone. È possibile fidarsi al punto da fidarsene quanto ci si fida di sé stessi. Una fiducia che investe anche il futuro: mi fido che quella persona non diventerà cattiva.
  • C) Non aspiriamo a un sistema perfetto. Aspiriamo a un sistema migliore di quello che usiamo ora. Non aspiriamo a un sistema senza errori, ma a un sistema che porta a meno errori di quello che usiamo ora.

Ultima cosa: questo post continuerà a essere editato, per cercare di renderlo più accurato, più preciso, più esauriente. Se qualcuno fa delle obiezioni che fanno cadere un mio punto, quel punto sarà rimosso, e così via.

LA CONDIVISIONE
Alcuni ricorderanno il post che avevo scritto a proposito della famiglia: dicevo che trovavo vacillante il concetto dell’affetto scontato, basato sull’accidente e non sul merito. Dicevo che è insensato dare completa fiducia e affetto indipendentemente dalla stima e dai comportamenti. Non contestavo l’esistenza di una istituzione, la famiglia, in cui si cerca di fare il bene di tutti, e non si privilegia il proprio a scapito di quello degli altri. Ora mi trovo a domandarmi: ma perché questo concetto non dovrebbe applicarsi anche agli amici? È naturale che si voglia che la persona della propria vita (marito/moglie/coniuge/compagno) sia la persona con la quale più si vuole condividere, ma perché non bisognerebbe condividere anche con le persone alle quali più si vuole bene?

Per amici, intendo veri amici, una stretta minoranza di persone, ognuno ne ha un diverso numero (qualcuno non ne ha alcuna). Sto quindi parlando di persone elette, che abbiamo scelto al nostro fianco per le loro qualità. Questo porta all’esclusione immediata di qualunque persona che si ritiene una (o più) di queste tre cose:

  • 1) Disonesta. Cioè una persona di cui non ci si fida al 100%, che ci potrebbe mentire o ingannare per trarne vantaggio.
  • 2) Stupida. Cioè incapace di sviluppare un ragionamento E (importante) incapace di rendersi conto di questi limiti.
  • 3) Cattiva. Cioè desiderosa di privilegiare il proprio bene su quello degli altri coinvolti, quindi non disposta a sacrificarsi.

*Aggiunta del 06/10: Il punto 2) (la stupidità), messa assieme alla premessa di metodo IV (condividere decisioni, fa prendere decisioni migliori) necessitano di maggiore chiarezza. Prendere decisioni assieme è meglio perché, assumendo l’intelligenza di tutti, ciascuno saprà riconoscere la propria ignoranza (in principio, o mostratagli durante la discussione). Se io non capisco nulla di meccanica, delego la decisione a chi ne sa. Allo stesso modo, non è necessario essere tutti intelligenti allo stesso modo, l’importante è che una persona sappia riconoscere i proprî limiti quando le vengono mostrati.*

*modificato il 06/10: Per condivisione intendo una cosa molto radicale: che il processo decisionale di qualunque scelta individuale sia potenzialmente (potenzialmente, è importante) condiviso con tutte queste persone; e che i costi e i benefici di queste scelte siano condivisi da tutte. In altre parole: le decisioni si prendono collettivamente e le risorse coinvolte in queste decisioni (tempo, denaro, fatica, vantaggi, svantaggi) sono quelle di tutti a prescindere da chi sia il più diretto interessato da queste decisione. Il punto è proprio questo: ciascuno è ugualmente interessato dalle cose che capitano a tutti gli altri. In pratica quello che si fa, normalmente, in una famiglia. Ciò vuol dire che se una (o più) persone deve prendere una decisione importante, tutte le persone vengono coinvolte e hanno voce in capitolo, e tutte le persone condividono i costi e i benefici della decisione adottata.

Importante: la condivisione è un metodo di decisione e distribuzione delle risorse. Non è una ricetta con un contenuto su cosa è meglio fare in determinate situazioni: è una valutazione su quale è il miglior processo decisionale di quelle situazioni, e sul fatto che le risorse di tutti sono messe in comune. In questo metodo si cerca la migliore spartizione di tempo, delle risorse, e delle competenze delle persone coinvolte. Ciò vuol dire che su alcuni temi la migliore spartizione potrebbe essere benissimo “ciascuno per sé”, come facciamo oggi: non è che ogni volta che compro uno yogurt devo telefonare alla mia famiglia per accertarmi dell’acquisto, se è la marca più buona, se la spesa vale la pena, se è meglio che lo faccia qualcun altro, etc. In quei casi, semplicemente, si considera che il tempo impiegato a discutere/condividere una cosa simile non vale il risparmio di qualità/tempo/denaro.*

Nei fatti, il sistema che adottiamo ora è un sottoinsieme della condivisione: è una specifica forma di ripartizione in cui abbiamo deciso, in maniera del tutto casuale (e solo per convenzione, perché siamo stati educati così), che il modo migliore per garantire la felicità a tutti e su tutti i temi è “ciascuno per sé” per i single, e “condivisione solo con moglie/marito/(figli)” per chi ha una famiglia. Ma che questa ripartizione, scelta in maniera completamente casuale, sia la migliore in assoluto sarebbe un caso enorme: del resto, anche il solo fatto di disporre quando si ha più necessità, e mettere a disposizione quando se ne ha meno, tempo o denaro da/per altre persone dà un inevitabile vantaggio (in una settimana molto piena è utile che un’altra persona mi sgravi di una faccenda, anche molto personale, perché quel tempo, in quel periodo, “vale” di più per me). Il metodo “ciascuno per sé” è un metodo prudente, ma se ci si fida delle tre premesse di cui sopra, è sicuramente più inefficace.

Questo metodo ha a che fare con le scelte interne (come organizziamo la nostra vita? A chi, fra noi, spetta questo compito? Facciamo un viaggio?), ma anche e soprattutto con le scelte etiche da fare verso l’esterno: fare la raccolta differenziata? Accettare un lavoro in una società di scommesse? Trasferirsi in un altro continente per lavoro? Se si ha a che fare con persone oneste, intelligenti e buone non c’è ragione per la quale ciascuna decisione della nostra vita non dovrebbe essere condivisa.

ESEMPÎ
Si rompono le tubature in casa di Carla: questo non è un problema suo, ma è un problema di tutti. Non sarà lei a dover chiamare l’idraulico e occuparsene: o magari sì, perché è più facile organizzativamente. Ma è altrettanto possibile che se ne occupi Barbara, perché ha più tempo in quel periodo, o Daniele, perché la mattina in cui verrà l’idraulico passa vicino a casa di Carla. Magari il guadagno in termini di tempo è poco, ma non c’è ragione per la quale dovrebbe “spettare” al proprietario delle tubature.

Antonio deve decidere se accettare un’offerta di lavoro all’estero. Anziché parlarne con la moglie e scambiare un parere con qualche amico, ma sempre con il dato assunto che quella è una decisione da prendere esclusivamente per il proprio bene, perché la decisione di Antonio non viene condivisa? Se Antonio partirà per l’Australia questo avrà conseguenze sul benessere di tutti, non solo la moglie, ma anche tutti coloro che popolano la sua vita. Magari la madre di Andrea è ammalata e c’è bisogno che qualcuno la accudisca, perché questo è responsabilità esclusiva di Andrea? Perché non dovrebbe farsene carico anche Antonio?

Silvia non ha un buon titolo di studio, e il massimo a cui può aspirare è fare un lavoro che non le piace; Matteo guadagna ben più di ciò che gli serve a sostentarsi. Se fossero una coppia, la cosa si risolverebbe con una spartizione dei compiti. Ma che senso ha che questo avvenga solo se c’è quel rapporto di coppia? Perché non dovrebbe avvenire esattamente lo stesso, magari Silvia può aiutare Matteo quando gli si rompe la macchina, gli innaffia i fiori, magari dove può lo aiuta nel fare il suo lavoro, o a gestire le mille incombenze che ognuno di noi ha nella propria vita.

Maria e Carlo devono decidere a quale scuola elementare mandare il proprio figlio Giuseppe. Perché non dovrebbero partecipare, proprio alla decisione, tutte le persone veramente loro amiche? Visto che tutti hanno interesse a fare il bene di Giuseppe, la decisione dovrebbe essere presa assieme. Anzi: anche la decisione di fare un figlio dovrebbe essere condivisa, proprio perché il benessere di questa persona, e quella di tutte le persone che tengono alla coppia, sarà stravolto (in senso positivo o negativo) dalla nascita di un bambino.

Per ragioni etiche, Francesca prende la risoluzione di non comprare più prodotti di una determinata marca (o di non frequentare più una persona che si comporta male con il prossimo). Se Francesca non è colta da un raptus ma prende la sua decisione per motivi razionali, perché questi motivi non dovrebbero essere condivisi anche dalle altre persone che le sono amiche? Quindi, dopo una discussione, non è sua la decisione di smettere di comprare quella marca o di vedere quella persona. Dovrebbe essere di tutti. Al tempo stesso, le altre persone, se hanno trovato persuasivi gli argomenti di Francesca, dovrebbero comportarsi di conseguenza.

In tutti e cinque questi esempî l’unica ragione per la quale tutte queste scelte non dovrebbero essere condivise è che non si reputa davvero amico la persona con la quale ci si proporrebbe di condividere quella cosa. Se nessuna delle tre le condizioni prima enunciate (disonestà, stupidità, cattiveria) si verifica, non esiste ragione per non condividere anche queste scelte. Se esiste una di queste condizioni, come si può chiamare davvero amica quella persona?

OBIEZIONI E RISPOSTE
– Ciascuno conosce meglio le proprie esigenze rispetto a chiunque altro!

Questo è vero, e infatti è sensato che il parere della persona che in prima persona dovrà trasferirsi in Australia (ad esempio) sarà il primo da tenere in considerazione, ma il fatto che anche altre persone partecipino alla valutazione di questi dati può essere solamente un vantaggio.

– Ma per fare questa operazione ci vuole moltissimo tempo!
Dipende. Sicuramente andare in profondità su cose banalissime è una perdita di tempo, e non vale il vantaggio di fare la scelta migliore (ho preso il treno alle 15.23 anziché alle 16.23, e quello delle 16,23 ci metteva 10 minuti meno), ma su decisioni estremamente importanti non c’è – virtualmente – alcun limite di tempo che valga la perdita di precisione della risposta. Se bisogna prendere decisioni che incidono significativamente sul benessere di un figlio, anche il suo stesso concepimento, non c’è – sempre virtualmente – un tempo che non vale la pena perdere per garantirgli (e garantire a noi) più benessere. Fra questi due estremi ci sono moltissime vie di mezzo, e il fatto che su alcune decisioni non valga la pena perdere tempo, non vuol dire che su alcune altre non sia importantissimo.

– E se alla fine non si è d’accordo?
Innanzitutto, se si parte da premesse simili (quelle sopra, evitare la sofferenza di tutti, etc.), e si è intelligenti – nel senso che si riconosce l’intelligenza altrui quando, e sui temi in cui, sia superiore alla propria – con tempo infinito si raggiunge inevitabilmente la stessa conclusione. Naturalmente non abbiamo tempo infinito e ci saranno temi sui quali, come detto sopra, si pensa che il beneficio di chiarire una questione non valga il tempo speso a chiarirla. Ma questo non esclude che si condividano gli altri temi, e si condividano (nel modo più ragionevole e condiviso) anche le conseguenze di queste divergenze condivise.

– E allora perché non lo facciamo tutti?
Non lo facciamo tutti perché sono poche le persone di cui siamo certi che non siano disonesti, stupidi o cattivi (come definite sopra). Venuto meno uno di questi requisiti, la condivisione è inapplicabile. *aggiunta del 6/10: Molti di noi, che hanno un buon rapporto con il/la proprio/propria compagna già usano questo metodo con lei/lui: la ragione per la quale questo trattamento non si estende alle altre persone di cui ci si fida, gli amici, non c’è. In realtà il motivo per cui adottiamo il criterio “ognuno per sé” è che non ci fidiamo al 100% degli altri, perché se avessimo la garanzia che gli altri tengono al nostro benessere quanto ci teniamo noi, affidare loro le decisioni non avrebbe alcun costo, e bisogna sempre ricordarsi che qui stiamo cercando un sistema più efficace di “ognuno per sé” non un sistema infallibile.*

– E se una persona è meno capace?
La società in cui viviamo premia – o dichiara di premiare – la meritocrazia perché avere ponti che non cadono (architetti migliori) e pizze più buone (pizzaioli migliori) conviene a tutti, anche ai meno bravi. Ma non c’è ragione per punire chi non è capace, sempre che questo premio/punizione non dia incentivi o disincentivi. È possibile che alcune persone abbiano più incarichi di altri? Certo. Se a una persona scoccia meno degli altri fare la spesa, farà più volte la spesa. Se una persona sa aggiustare le macchine aggiusterà le macchine di tutti, in accordo con gli altri impegni e le altre incombenze. Sono tutte cose che si possono decidere con una discussione, per cercare di gestire meglio gli sforzi di tutti. Può essere anche che alcune persone puntino ad avere una vita più agiata di altri (vuoi una casa più grande? Vuoi fare vacanze più lunghe?), e conseguentemente facciano più sforzi su altri campi. Il concetto chiaro è che non c’è alcuna ragione che non sia disonestà, stupidità o cattiveria (come definite sopra) per prendere queste decisioni da soli e non assieme agli altri che si considerano amici.

– Ma quindi non è soltanto una cosa intragruppo, c’è anche una responsabilità verso gli altri, quelli che non fanno la condivisione?
Certo. Le scelte etiche che ciascuno fa sono basate su valutazioni e opinioni argomentate: quel negoziante non fa lo scontrino, io non ci vado; quella signora è in difficoltà, è giusto aiutarla. Quella persona si comporta male, non è giusto frequentarla. I casi della vita sono molto più complessi, ma alla base di ciascuna di queste decisioni c’è un ragionamento che non ha motivi di non essere condiviso. Perché dovrei escludere da una decisione una persona che considero onesta, intelligente e buona? Non potrebbe che aiutarmi a prendere la decisione migliore.

– E se una persona è più pigra o ha altri difetti?
Può essere che ci siano persone che non sono disposte ad avere lo stesso grado di impegno etico: andare a servire alla mensa dei poveri mi fa fatica, ad esempio. Rispetto a questo, ci si rapporta come tutte le altre cose: qualunque difetto che ha una persona deve essere valutato. Quella persona potrebbe migliorare? Sopperire a questo difetto, provvedendo per quella persona, disincentiverebbe la persona dall’impegnarsi? Ciascuna di queste domande deve essere analizzata, caso per caso, per prendere la decisione su come comportarsi, su quanta parte di pigrizia accettare. Ma questa è solo la mia opinione. Magari ne discutiamo e scopriamo che sbaglio e che bisogna avere un approccio diverso alla pigrizia. È una questione di metodo, non di contenuto. Qualunque di queste questioni è, necessariamente, inclusa nella premessa di metodo. Cioè che non c’è ragione per la quale questa decisione, come tutte le altre, non dovrebbe essere discussa e condivisa con le altre persone che consideriamo amiche.

– E se sbagliamo nel prendere le decisioni con questo metodo?
Sbagliamo e sbaglieremo sempre. Il metodo che adottiamo ora, cioè quello che abbiamo ereditato a caso dalla società nella quale siamo cresciuti, cioè “è meglio non condividere niente, se non i membri del proprio sangue” ha statisticamente più possibilità di essere sbagliato, proprio perché non è ragionato, ma è casuale. Ma sentire più pareri – e metterli nel processo decisionale – di persone alle quali si vuole bene, e che si considerano amiche, non può che essere positivo. Quindi, sì, certo che sbaglieremo, come sbaglieremmo con qualunque tipo di processo decisionale. Ma, condividendo le nostre decisioni con tutte le persone di cui ci fidiamo e che stimiamo, sbaglieremo di meno che prendendo tutte le decisioni di testa propria.

– Guarda che lo facciamo già!
Davvero pensi che in tutte le decisioni che prendi stai soppesando il tuo interesse e quello delle persone alle quali vuoi bene allo stesso modo? Consideri qualunque decisione che ti riguardi una decisione da gestire consensualmente con le persone alle quali vuoi bene? Se un tuo amico vuole andare in vacanza in Colombia, ti consulta prima di organizzare il viaggio? E se vuole cambiare lavoro? Domandati: se pensi a tutte le persone che sono tue amiche, ti senti coinvolto e responsabile per ogni cosa per la quale quelle persone si sentono coinvolte e responsabili? Lo fai già? Secondo me no. Se sì, ti voglio conoscere.

Le Iene e l’Addetto al Tormento

Evidentemente ci deve essere una buona parte di pubblico che pensa davvero che insistere a molestare una persona che ha già risposto «no, grazie, non voglio rilasciare interviste» serva qualche proposito giornalistico.

Mi piacerebbe dire che non guardo i servizî delle Iene, neppure sui temi che mi interessano, perché hanno un approccio sensazionalista e allarmista (oltre che antiscientifico) a ciò che trattano, vedi Stamina. In realtà non li guardo, neanche quando potrebbero lontanamente interessarmi, perché mi fa stare male vedere l’Addetto al Tormento™. Io vedo questo tizio, paladino di non si sa che verità, insistere, e insistere, e insistere (e chissà quanta altra insistenza è tagliata nel montaggio) con quello che hanno stabilito essere il cattivo di turno: provando a seguirlo in casa, in ascensore, in ufficio. Spintonandolo, mettendo il piede dentro la porta, dicendo frasi a effetto con il solo intento di farlo arrabbiare.

Venendo meno al mio proposito, ho visto questo servizio delle Iene su una bega di paese che avevo seguito passivamente perché ne parlavano i miei amici di internet e per gusto pettegolo. Qui, ora, andrebbe tutto il caveat su quanto a me Guia Soncini stia antipatica, che c’ho litigato dieci volte, eccetera. Che palle, non parlo di lei. Ora guardate quello che succede, e ditemi se non fa schifo.

C’è un momento, particolarmente indicativo, nel quale Soncini sta chiamando la polizia per cercare di farsi soccorrere e liberarsi dell’Addetto al Tormento e questi, come se avesse qualche rilevanza, aggiunge: «ma no, diglielo all’ispettore che siamo le Iene. Ispettore – grida sperando di farsi sentire – siamo le Iene!». In che modo il fatto di essere le Iene dovrebbe scagionare l’Addetto al Tormento? È chiaro che, in quella frase, l’Addetto al Tormento sta rivendicando una funzione civica.

Ma questa funzione civica è completamente assente. Nel momento in cui un intervistato dice «no, grazie, non voglio rispondere», la funzione informativa del giornalista si completa. Non vuole commentare, non c’è niente da aggiungere: un cronista riporta il fatto che non vuole commentare. Ciò che fa l’intervistatore insistendo ulteriormente è cercare una reazione, appellarsi al popolo, dipingere in maniera infame – e con nuovo stupore a ogni risposta, «ma perché non vuoi rispondere?» – una legittima scelta di chi sta subendo quella domanda. Ma se quello che vuole fare l’intervistatore è chiaro – spettacolo e non giornalismo, prendere qualche bel pugno così da poterlo mettere nel servizio – quello che si aspetta chi vede quel servizio non è chiaro. Non puoi trarre alcuna nuova informazione sul tema, perché godi nel vedere questo surplus di pena – rispetto a quella che, eventualmente, gli comminerà un giudice – con il proprio tormento?

Sei al sicuro

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Vienna

La cosa più commovente di questa volantino appeso alla stazione di Vienna non è il titolo, “benvenuto/i”, in grande; né la solidale laboriosità che traspare dall’elenco, quasi burocratico, delle necessità alle quali l’amministrazione può rispondere. Non è né quel “per favore, non esitate a fare domande”; né la traduzione, fra parentesi, in simple English di una parola (“interprete”) che potrebbe risultare difficile. Non è l’umano “stiamo facendo del nostro meglio”.

È la postilla finale, prima della firma. “You are safe”. Siete al sicuro. Sei al sicuro.

Lo è perché vuol dire «fidatevi di noi», che è il messaggio più bello che si può dire a un nuovo arrivato (perché c’è da fidarsi di noi, no?). Ma lo è ancora di più perché, rispettosamente, sottointende un’altra parola, “now” (siete al sicuro, ora), che è il riconoscimento dell’identità e della storia che queste persone si portano dietro. È il riconoscimento, prima ancora che siano tenuti a provarlo (come del resto la convenzione di Ginevra richiede), che a quell’identità e quella storia ci crediamo. Che sono effettivamente dei rifugiati, che scappano dalla morte, dalla distruzione, dalla sopraffazione, dalla tortura, e da ogni cosa non sicura del mondo. È il riconoscimento di ciò che, di questi tempi, tanti mascalzoni mettono in dubbio, questionando – con sciocchezza o ignoranza – la legittimità delle loro paure, del terrore da cui fuggono. Vuole dire: anche noi ci fidiamo di voi. Sappiamo da cosa fuggite, lo riconosciamo e vogliamo aiutarvi. Siete al sicuro, ora.

 

Perché ce l’avete così coi vegetariani?

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FiC42È un po’ di tempo che me lo chiedo, ma oggi vedendo la quantità di foto di pezzi di agnello postate assieme a invettive contro il vegetarianismo o dileggio per i vegetariani ho deciso di mettere la domanda qua fuori: perché ce l’avete così coi vegetariani?

Io non sono vegetariano. Penso ci siano delle buone ragioni per esserlo, e delle altre meno buone. Lo trovo un dibattito interessante, ne ho discusso, e ho spesso cambiato idea. Continuo a mangiare carne principalmente perché mi piace, consapevole che è un comportamento più menefreghista.

Però c’è una cosa che non mi sognerei di fare: insultare o dileggiare quelli che – in un dibattito etico complesso – fanno la scelta più difficile, mossi da altruismo. Perché è evidente che essere vegetariani è, banalmente, più difficile che essere carnivori. Per me, almeno, sarebbe difficile: perché la carne mi piace.

Eppure quando l’argomento diventa il vegetarianismo c’è un sacco di gente che gli si scaglia contro irrazionalmente e con una veemenza vista in pochi altri temi. La cosa strana è che non mangiare carne è una scelta che, strutturalmente, non può fare male al prossimo. Se hanno ragione i vegetariani, il mondo è migliore. Se hanno torto, il mondo è uguale.

Sembra quasi che ciò che fa davvero arrabbiare questi odiatori del vegetarianismo è il semplice mettere in dubbio che uno dei loro comportamenti – uno da cui si trae dell’effettivo piacere – possa essere sbagliato. Forse è questa la grande forza del conservatorismo: la disposizione umana a difendere ciò che si fa solo perché lo si fa.

What’s App e il sindacato dei bugiardi

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Leggo da mesi di reazioni terrorizzate, o scherzosamente terrorizzate, all’arrivo della terza spunta (ora diventata spunta blu) che su What’s App permette di vedere quando qualcuno ha letto il proprio messaggio. Naturalmente c’è chi scherza e basta, ma c’è anche chi ci scherza credendoci, appellandosi a un principio che, nei fatti, è: «voglio poter mentire».

Invece di rivendicare il diritto a rispondere quando si vuole, si rivendica il diritto a ingannare il proprio interlocutore. La spiegazione “non ti potevo rispondere in quel momento” è una spiegazione perfettamente ammissibile, come lo è la spiegazione “non ti volevo rispondere in quel momento”. Se una persona è una scocciatura, è meglio dirglielo che nasconderglielo: anche nella prospettiva di insegnargli a non comportarsi così la prossima volta.

Leggete il linguaggio di questa, inutile, petizione che suggerisce che le “fidanzate gelose” o gli “amici insistenti” siano eventi atmosferici accadutici, e non precise scelte che abbiamo fatto. In realtà – è evidente – è proprio questa mentalità, quella che considera presentabile e non infamante rivendicare il diritto alla menzogna, a creare una società di fidanzate gelose.

Stavo per scrivere diversi verbosi periodi sul perché una società che dice la verità è migliore di una che concepisce le bugie come valuta corrente, invece mi limiterò a: è più semplice. Si vive meglio.

Perché sono molestie anche quelle che non sono molestie

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Quando è uscito il video dei commenti ricevuti da una ragazza che va in giro a New York mi sono ripromesso di non leggere nulla nulla nulla delle reazioni online. Era ovvio che la reazione sarebbe stata disarmante, e in un modo particolarmente avvilente: divisa per sesso. Era ovvio che sarebbe arrivato qualcuno a dire «magari lo ricevessi io quel trattamento», e che quel qualcuno sarebbe stato indiscutibilmente uomo. Per me, che non sopporto il settarismo di una parte del movimento femminista, e che professo sempre le battaglie contro sessismo e maschilismo come battaglie comuni è la cosa più deprimente che si possa leggere.

Il video, raccolto in 10 ore, segue il tema di altri video. Questo, francese, che prova a raccontare un mondo al contrario. O questo, fatto al Cairo, la città al mondo dove il problema del sexual harassment è più pervasivo, dove una ragazza riceve gli stessi comportamenti in 2 minuti continuativi, senza alcun montaggio o selezione. Un altro è questo, sempre in Egitto, in cui un uomo si veste da donna e registra le reazioni ricevute. Naturalmente c’è un’enorme differenza fra ciò che succede al Cairo e ciò che succede a New York, ma il fenomeno è lo stesso. Nel primo caso è semplicemente più accettato, quindi più diffuso, e il problema è proprio questo. Il problema è esattamente la percezione che un maschio che adotta un comportamento simile ha di sé stesso, e quale pensa che sia quello che la società avrà di lui.

Una delle obiezioni al video su New York è stata che nel video si riconoscono quasi solo neri o immigrati che fanno commenti o inviti alla ragazza che cammina: è un’obiezione benintenzionata, e si capisce la volontà di prevenire il razzismo. Però qualunque ragazza che abiti in una grande città europea (come Parigi o Londra), dove ci sono immigrati di diverse generazioni e “ghetti” dove si ricreano dinamiche delle società di origine, sa quanto il fenomeno sia enormemente più diffuso in queste comunità e quanto il proprio orizzonte d’attesa debba essere diverso se si va in giro in alcuni di quei quartieri. Il motivo è semplice: più ci si avvicina a una società patriarcale e maschilista, più questi comportamenti sono diffusi. Non è bello da riconoscere, ma è un concetto fondamentale per mostrare a chi adotta o difende questi comportamenti con un “magari lo facessero a me” sia precisamente collocato nel tempo, in una società in cui nessuno vuole vivere.

L'attore in questa foto è un uomo
L'attore in questa foto è un uomo

Intendiamoci bene: non c’è nulla di male nel proporre a qualcuno di fare sesso, anche a una persona sconosciuta. In un mondo ideale questa sarebbe una proposta che si può accettare o rifiutare con serenità, come il fruttivendolo che ti offre le pesche noce in offerta. Il problema è che noi uomini non abbiamo idea, davvero non-abbiamo-idea, di quale sia la condizione psicologica in cui questo tipo di atteggiamenti costringe una donna. Non abbiamo idea, come uomini, semplicemente perché la nostra vita non include precauzioni per non essere stuprati. Ovviamente prendiamo precauzioni, che prendono anche le donne, per non subire violenze, furti, ingiustizie: ma non c’è alcun comportamento che modifichiamo su base quotidiana per prevenire una violenza sessuale (la battuta cinica è: la precauzione che prendiamo è non finire in carcere!). Tutte le donne, tutte, modificano la propria vita per non essere stuprate, adottando una serie di comportamenti sconosciuti a noi uomini: scegliere sempre strade ben illuminate, tenere sempre in mano le chiavi come potenziale arma, non parcheggiare nel garage, controllare sempre che non ci sia qualcuno sul sedile posteriore della macchina, avere una voce maschile come segreteria telefonica, non lasciare la propria bevanda incustodita, non incrociare lo sguardo con uomini, etc.

È una parte di mondo che agli uomini è completamente sconosciuta semplicemente perché non ne hanno esperienza e perché spesso le donne stesse sono imbarazzate a parlarne. Ora la domanda fondamentale: cosa c’entrano questi comportamenti – un «ehi bella, facciamo due passi?» che non è neanche una molestia, o un’insistenza su «dài, dammi il tuo numero» che comprende un breve inseguimento dopo il primo no – con la violenza sessuale? In teoria niente. In una società perfetta, comportamenti simili – che spesso sono fatti per accreditarsi agli occhi del proprio gruppo di amici – sparirebbero con una risposta ben assestata della donna, che annullerebbe istantaneamente i due incentivi che li muovono. Chi fa di questi commenti li fa perché pensa di avere un “premio” dalla parte di società che lo guarda (chi fa l’apprezzamento più osceno è “fico”), e di riaffermazione del proprio potere psicologico sull’altro: “io ho il diritto di fissarti, e dovrai essere tu ad abbozzare”.

Stare
7 min molto divertenti di Mike Birbiglia sulla differenza fra chi fissa una bella ragazza e chi no

In pratica, invece, ogni apprezzamento per strada è una potenziale minaccia di stupro. Mi rendo conto di quanto questa frase sembri esagerata, perché è ovvio che 99 volte su 100 non lo è. Il problema è che ogni ragazza è educata a scongiurare quella piccola possibilità restante con la deferenza, con la subalternità. Ogni ragazza viene educata a non farsi notare, a tenere un profilo basso, a non rispondere mai – MAI – a un apprezzamento per strada, per la dinamica che potrebbe venire a crearsi: “sfidare” un maschio è la dinamica più rischiosa che ci sia, qualunque cosa un maschio generico possa concepire come sfidare. Viene educata a non essere “troppo” svestita, a non apparire “troppo” bella, a rendersi il più possibile anonima (non è un caso che, per mostrare il proprio punto, coloro che hanno girato il video hanno scelto una ragazza non troppo “appariscente”, né particolarmente bella, né particolarmente vestita/svestita, etc). Viene educata alla subalternità, alla prassi che quel tipo di apprezzamenti sono una red flag alla quale si può rispondere solo sottomettendosi a quella mentalità, se non si vuole rischiare. E intendiamoci: insegnare questo concetto a una ragazza non vuol dire sostenere che se indossa una minigonna e viene stuprata è colpa sua, vuol dire insegnarle che se va in giro in minigonna ci sono più possibilità che venga stuprata, e questo è tristemente vero. Nei fatti, il ragazzetto che pensa di riaffermare il proprio ruolo e potere su una ragazza fissandola o facendole un commentaccio ha ragione: sta precisamente ottenendo l’instaurarsi di quella dinamica, attraverso la minaccia della propria forza fisica.

Provare a convincere l’uomo medio che non bisogna accusare di malafede

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Ieri ho fatto un esperimento: ho provato a convincere una persona che non bisogna accusare il prossimo di malafede se non si hanno prove certe e definitive, oltre ogni ragionevole dubbio verrebbe da dire, del fatto che menta. Invece di lasciare perdere al primo atteggiamento complottista, ho insistito, insistito, insistito; quando il punto veniva spostato, provavo a riportarlo al centro; ho lasciato stare sciocchezze fattuali e ricostruzioni sballate per cercare di focalizzarmi solo sul vedere se riusciva a capire perché entrare nella testa altrui e deciderne la disonestà è sbagliato.

Chi legge questo blog sa che il metodo che uso io è semplice: se mi accusi di malafede, per me la conversazione è finita. Per tre ragioni: la prima è che se credi che io menta è del tutto inutile che tu abbia una conversazione con me; la seconda è che se accusi il tuo interlocutore di essere un bugiardo non c’è alcuna possibilità che lui possa scagionarsi: perché dovresti fidarti di quello che dice?; la terza è che chi pensa il male delle persone è, tendenzialmente ed empiricamente, più abituato al male: se credi, senza prove, che il tuo interlocutore abbia delle pessime intenzioni, spesso hai maggiore familiarità con quelle pessime intenzioni (delle volte uno viene accusato di cose a cui non avrebbe mai neanche pensato).

L’accusa di malafede ha molte forme, tutte sottointendono la classica delegittimazione del pensiero altrui “non credi veramente a quello che stai dicendo” che permette di non parlare del merito, e può essere racchiusa in quattro grandi categorie:

  1. – Stai mentendo
    Sei un bugiardo che afferma cose che sa non essere vere.
  2. – È retorica
    Anziché affermare il tuo punto con onestà, lo fai usando trucchetti per avere ragione. Non sei quindi interessato ad appurare la verità.
  3. – Lo dici perché ti pagano/ti conviene/vuoi mantenere il lavoro
    In realtà saresti d’accordo con me, ma non lo esprimi solamente perché hai paura di perdere il tuo ritorno (non guadagnare soldi, perdere il lavoro, etc).
  4. Questa persona (o cosa) ti sta antipatica/ne sei invidioso/è amica tua
    Non stai dicendo ciò che pensi davvero dato che la ragione che muove la tua opinione non è convinzione razionale ma un atteggiamento tribale.

E allora perché questa volta non ho usato il collaudato sistema di chiudere alla prima accusa di malafede? Perché in questi giorni di discussioni su Israele e Palestina ho visto quanto questo metodo sia diffuso, frotte di novelli Torquemada che pensano di sapere cosa c’è nella coscienza altrui, e ho voluto testare quanto fosse inscalfibile su una persona che non conosco, ma che in diverse interazioni su internet mi era sembrata abbastanza intelligente. L’esperimento non è andato benissimo, come vedrete, anche se qualcosina credo sia passata, nonostante la conclusione da far cadere le braccia.

Riporto qui la discussione a beneficio di chi voglia leggerla: è roba lunga, si dicono un sacco di cose, ed è molto istruttiva su come ragiona una certa parte di mondo che chi bazzica questo blog difficilmente frequenta. Insomma, se non siete interessati al tema, evitate pure di leggera: c’è pure il rischio di deprimersi. Ho cambiato il nome della persona con cui dibattevo, su sua richiesta, in Paperino, e nominato Terzo Intelocutore uno che è intervenuto qualche volta nei primi commenti.

La discussione prendeva le mosse da quello che è probabilmente il post più indegno che ho mai letto sul mio conto, in cui una persona notoriamente rintronata mi accusava di aver mentito e di essere in malafede su più d’una cosa, al quale io avevo risposto con questo commento.

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L’impressione che mi ha dato è che, nel mondo in cui vive questa persona, è perfettamente inconcepibile che una persona sia completamente onesta e in buona fede in ogni occasione. Non ho ancora capito se ho sbagliato strategia, nell’essere così aperto nel raccontare i miei pensieri per filo e per segno, o se proprio non c’era speranza di convincerlo.

Una cosa piccola su Dzemaili (e noi)

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Nella partita fra Argentina e Svizzera è successo questo.

Il giocatore che fa quel doppio errore, quello che poteva portare la Svizzera ai quarti di finale dopo sessant’anni, si chiama Blerim Dzemaili. È un giocatore piuttosto bravo per il livello della Svizzera, però è costantemente un panchinaro – ha giocato 54 minuti su 390 – perché i due giocatori titolari nel suo ruolo, Behrami e Inler, sono un poco più bravi di lui. Tutti e tre sono svizzeri d’adozione (Dzemaili e Behrami sono proprio nati in ex Jugoslavia, Inler ha giocato con l’under 21 della Turchia), e tutti e tre giocano nel Napoli, dove è da un paio d’anni che a Dzemaili capita la stessa cosa, quella di essere un poco meno forte dei due titolari. Delle volte mi domando cosa pensi, di quegli altri due, che si ritrova a fargli da tappo sia nel club che in nazionale: saranno amici, di certo, ma se li sogna la notte che gli rubano anche gli amici, la fidanzata o il posto a sedere in autobus?

Nonostante, poi, Dzemaili sia un poco più tecnico e offensivo degli altri due – anzi, proprio per questo – e visto che quelle due posizioni al centro del campo sono occupate, gli è capitato più di una volta di essere il giocatore che entra in campo al posto del numero 10 per difendere un risultato, di essere il cambio con il quale l’allenatore dice alla squadra «va bene, ora ci difendiamo»: ed è una morte un po’ peggiore.

Nella partita con l’Argentina è successo precisamente questo: Dzemaili non ha giocato per 113 minuti. Poi l’allenatore ha deciso di togliere Mehmedi, un trequartista, e mettere lui, per difendere quello 0-0 che la Svizzera si era arresa a sperare: in teoria un poco più avanti di Behrami e Inler, in pratica a correre per tutto il campo, in qualità di giocatore con più energie di tutti. La heat map qui sopra, per chi è un po’ familiare, è assurda nell’essere così diffusa e maculata. In effetti vuol dire tre cose: prima di tutto che ha giocato molto poco, in un momento di gioco molto spezzettato (calci di punizione, calci d’angolo, mischioni, contropiedi), e che non ha avuto una vera posizione in campo nella frenesia di quegli ultimi minuti.

Solamente che a metà di quegli esatti dieci minuti giocati da Dzemaili segna l’Argentina e la ragion d’essere della sua entrata in campo va in fumo. Rimangono due minuti di gioco, più un po’ di recupero. Al terzo minuto di recupero, il 123° – un minuto che avrò visto giocare in tre partite in vita mia – c’è uno di quei cross con tutti in mezzo, anche il portiere, a cercare di buttarla dentro e Dzemaili fa quella cosa lì.

C’è questo momento, in cui Dzemaili ha già colpito di testa, da solo, e ha preso il palo. Non è un brutto colpo di testa, ma ci è proprio andato con il furore turbolento del “o la va o la spacca”. E invece né va né spacca, il pallone prende il palo ed è in quel momento che realizza – la direzione dello sguardo – che ha la possibilità di riprovarci, ma tutto l’impeto che ha messo nel primo colpo di testa l’ha portato a incespicare, sta già inciampando. Ed è così, con le gambe che si sono incrociate da sole, che colpisce la palla nel modo più goffo per un calciatore, di ginocchio, e la palla va fuori.

Ecco, io tutto questo l’ho scritto perché quell’espressione – o la va o la spacca – mi sta proprio antipatica, e mi sono reso conto che ogni volta che leggerò qualcuno scrivere sciocchezze come “mica possiamo stare sempre lì a ragionare su tutto quello che facciamo” penserò al povero Dzemaili, che non sapeva di avere una seconda possibilità, e non ne avrà una terza.