Tutte le scelte che facciamo influenzano gli altri. Ogni nostra azione o pensiero espresso contribuisce a modificare l’ambiente nel quale viviamo, noi e gli altri. Per questo è sempre una sciocchezza dire (o indirizzare) un “non sono cazzi miei” (o “tuoi”).
Un produttore che estorce prestazioni sessuali in cambio di favori non è soltanto responsabile del suo singolo comportamento, ma contribuisce a creare un ambiente nel quale questo comportamento è accettato (o, come si sente dire in questi giorni, “capita a tutte”, “è sempre stato così”, etc). Immaginate quale diverso genere di reazione si avrebbe se l’accusa fosse di rapimento: nessuno suggerirebbe che “è un comportamento vecchio come il mondo” (quando, nei fatti, lo è: ne è piena la mitologia). E, proprio per questo, immaginate quanto più agevole (meno umiliante) sarebbe per la vittima denunciare tale comportamento.
Lo stesso vale per le vittime. Essere vittima di un’ingiustizia non rende i proprî comportamenti eticamente irrilevanti. L’essere una vittima non appiattisce ogni reazione. Ci sono vittime che si comportano in centinaia di modi diversi, e annullare questa differenza, suggerire che tutti (tutte) sono uguali, è un’ulteriore ingiustizia. Le accuse a Harvey Weinstein raccontano un’ampissima gamma di comportamenti deplorevoli, dallo stupro alle molestie, dall’estorsione a sfondo sessuale alla omertosa compravendita delle stesse, dalle minacce di rovinare una carriera al tentativo di estorcere omertà. Raccontano anche un’ampissima gamma di reazioni delle vittime: chi si arrende al ricatto, chi non lo fa, chi soggiace alle minacce, chi si chiude in bagno; a fatto avvenuto c’è chi va immediatamente dalla polizia, chi decide di denunciare dopo vent’anni, verosimilmente ci sono tante altre persone che non trovano il coraggio di denunciare.
Questo, ovviamente, non rende la persona meno vittima: quale che sia la reazione di una vittima di un’ingiustizia, quella persona ha diritto – e noi abbiamo il dovere di darlo – al conforto che, giustamente, proviamo per le vittime. E, altrettanto ovviamente, non cancella le circostanze – come lo stupro – nelle quali la vittima non ha alcuno spazio d’azione. Alcune non hanno avuto la possibilità di chiudersi in bagno. Ma la totale privazione dello spazio d’azione non può essere determinata, ipso facto, dallo squilibrio di potere fra le due persone coinvolte.
L’idea che quando esiste una qualunque forma di squilibrio di potere non possa esserci consenso è un’idea assurda. È un’idea che riduce l’umanità a una colonia batterica: assume il peggio da ogni persona e la tratta con sufficienza: «chiunque farebbe lo stesso». Non è vero. Ci sono tante persone – io ne conosco diverse, e sono certo anche voi – che si sono trovate in una situazione simile e hanno sbattuto la porta in faccia al potente di turno e, allo stesso tempo, all’occasione che era stata loro ventilata.
Possiamo dire che una persona che rifiuta tale ricatto e lo denuncia contribuisce a creare un mondo libero da questo sistema di vessazioni più di una persona che vi acquiesce? Certo che lo possiamo dire. Possiamo dire che le persone che hanno deciso di denunciare Weinstein sono più coraggiose e generose di quelle che non l’hanno fatto? Sì. Non tutti i comportamenti sono uguali.
È chiaro: fronteggiare un sopruso, fronteggiare il male, non è una cosa facile. Ma dare per scontato che sia impossibile, che non esiste comportamento virtuoso, che di fronte alle ingiustizie siamo tutti uguali, è la cosa più conservatrice che c’è. E, se ci pensate, è lo stesso cinismo fatalista dell’antitetico e altrettanto in voga: «se vai nella stanza del produttore è colpa tua».