Spiegatemi la TAV

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Dunque: io della TAV non so nulla. Per dire meglio: conosco superficialmente le posizioni dei favorevoli e dei contrarî, ma non so quanto esse siano radicate in dati e ragionamenti logici. Vorrei invece saperne di più e meglio.

Mi sono reso conto che, ultimamente, mi ero formato un’opinione sostanzialmente su di un pregiudizio: e cioè che alcune (forse molte) delle persone che sostengono il fronte notav hanno atteggiamenti vergognosi, fra lo stronzo il leghista e il criminale. Questo, naturalmente, è male: non bisogna valutare le persone che portano un’idea, ma l’idea e basta. Del resto capita di essere d’accordo su iniziative (alcune cose che fa Action, ad esempio) di persone per altri versi poco condivisibili. Inoltre, probabilmente, se valutassi gli argomenti dei peggiori fra i pro-tav troverei stupidaggini anche lì.

Quindi, ecco, questo post serve a chiedere a chi un’idea ce l’ha di contribuire: con commenti, o anche rimandi a letture interessanti e documentate. Naturalmente sono benvenute sia opinioni favorevoli che opinioni contrarie. Il requisito è, per favore, che l’opinione sia ben argomentata, e logicamente consistente.

Penso sia una discussione che potrebbe interessare anche ad altre persone.

Johnny Cash, e la più grande storia d’amore del ventesimo secolo

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Oggi Johnny Cash compie ottant’anni.
Per 29 anni è stato vivo, per 42 è stato innamorato, e per 9 è stato morto. Che lui è stato uno dei migliori cantanti del ‘900 probabilmente lo sapete. Che quella con June Carter è la più bella storia d’amore degli ultimi 100 anni, forse no.
La raccontò Sarah Vowell una settimana dopo la morte di lui. Era un po’ che mi ripromettevo di farlo, e oggi è il giorno buono. L’ho tradotta qui sotto. Se iniziate a leggere non smettete più, dall’inferno al paradiso.

Il matrimonio di Johnny Cash e June Carter Cash è la più grande storia d’amore del ventesimo secolo.

La prima volta che Johnny vide June, lui era in gita scolastica a Nashville per l’ultimo anno del liceo, mentre lei era già sul palco del Grand Ole Opry che cantava assieme ai suoi celebri parenti musicisti, la famiglia Carter, ridendo e scherzando con Ernest Tubb.

Anni dopo, nel 1961, l’Opry fu dove s’incontrarono. Erano nel backstage e Johnny andò da June e le disse: «tu ed io ci sposeremo, un giorno». Lei rise, e rispose che non vedeva l’ora. C’è da scommettere che quando Cash tornò a casa quella notte, non menzionò questo particolare a Vivian, sua moglie.

Non molto tempo dopo June si aggregò al road show di Johnny cosicché si ritrovarono a viaggiare per gli Stati Uniti in tour. La moglie di lui rimaneva quasi sempre a casa, così come faceva il marito di lei. Ma June Carter era una lady – una signora rispettabile, una valida professionista, e una benintenzionata cristiana. E nessuna rispettabile professionista e benintenzionata cristiana s’innamora volutamente del marito di un’altra donna, specialmente se lui è un impasticcato fanatico com’era al tempo Johnny Cash.

Anni dopo June avrebbe descritto l’innamorarsi di Johnny con queste parole: «mi sentivo come se fossi caduta in un pozzo infuocato, e stavo letteralmente bruciando viva». Così June, che era stata una musicista e cantante fin da quando era alta quanto un ukulele, chiamò Merle Kilgore – il suo partner cantautoriale – e buttarono giù una canzone sui suoi sentimenti segreti per Cash.

Era una canzone strappata via da Dante. La dettero da cantare alla non-particolarmente-dantesca sorella di June, Anita, che la registrò come  “Love’s Ring of Fire”.

Johnny Cash sentì la registrazione di Anita Carter e la notte successiva fece un sogno: sognò la stessa canzone suonata con dei corni mariachi. Qualcuno dice che fu l’influenza degli allora molto in voga Tijuana Brass. Altri dicono che furono i barbiturici che aveva preso per smaltire le anfetamine. Quale che sia, Johnny Cash s’infilò in uno studio con un paio di trombettisti e trasformò quel suo sogno in realtà.

La peculiarità dell’arrangiamento di questa canzone è superata solo dall’assurdità dei suoi credits. Abbiamo un uomo sposato che canta una canzone, scritta a proposito di lui, da una donna anch’ella già impegnata ma innamorata di quell’uomo; nonché, a fare i sospirati “oooh” in controcanto, la suddetta donna, June Carter, assieme a sua sorella e sua madre, Mother Maybelle Carter, la più rispettabile signora della storia della musica country, se non dell’America in genere. Ascoltate come suonano gioiosi.

In questa canzone, paragonare l’amore al fuoco non è soltanto quel trito cliché della musica pop come in “you give me fever” o “hunka, hunka burning love” o “it’s getting hot in here”. Questo è il fuoco che c’è accanto allo zolfo biblico, come nella religione d’altri tempi, immaginato dalla figlia di persone che credevano nelle fiamme eterne dell’inferno.

June Carter stava desiderando l’uomo di un’altra donna, il che voleva dire violare – rompere – uno dei dieci comandamenti. Amare Johnny Cash era un peccato, e per lei il contrappasso per il peccato era la morte – una morte nella quale il peccatore avrebbe passato l’eternità a non far altro che bruciare.

Il momento in cui June Carter riconosce a sé stessa di amare Johnny Cash, è molto simile – nel tipico modo di una canzone d’amore country – al quello in cui Huckleberry Finn decide di aiutare lo schiavo nero Jim a scappare, anche se gli hanno insegnato che farlo è sbagliato. «E va bene» dice Huck, «andrò all’inferno».

Questa è la versione di Ring of Fire cantata da June. Notate, niente trombe. Soltanto un violino vecchio stile, ed è lei stessa ad arpeggiare l’autoharp, probabilmente prendendo in giro amorevolmente il marito nello specificare, fra le note di copertina, che in realtà “Questo è il modo in cui io l’avevo sentita dall’inizio”.

C’è un’immensità di apprensione in quella piccola parola, “oh”. Come in oh, cosa ho fatto. Oh, la sua povera moglie. Oh, Signore, perdonami. Oh, per l’amor del Cielo, è meglio che gli butti tutte quelle pillole nel gabinetto ancora una volta. Oh, io sono una regina del Grand Ole Opry, e questo folle tossicomane sta per farsi bandire dal mio amato Opry per aver distrutto le luci del palco con il treppiede del microfono. E oh, continuerò ad amarlo ugualmente.

“Ring of Fire” divenne la hit numero uno di Johnny Cash nel 1963. Poi, finalmente, lui divorziò. E June divorziò. E lui smise con le droghe. E nel 1968 si sposarono.

Quando dico che quella fra Johnny Cash e June Carter Cash è la più grande storia d’amore del ventesimo secolo, non penso alla corte infervorata: anche se, certo, le migliori storie d’amore necessitano di alcuni ostacoli superati, e i Cash ne incontrarono diversi. No, penso in realtà al loro matrimonio – 35 anni in cui vissero, effettivamente, felici e contenti.

Le foto di loro due assieme, negli anni, sono così piacevoli da guardare che uno ci rimane quasi male. Johnny che fa piegare in due dalle risate June, o lei che fa piegare in due dalle risate lui; oppure la mia preferita, la foto ch’è nell’album Love, in cui lei si è appena addormentata sulla spalla di lui. Il mento di lui è poggiato sulla testa di lei, ed è possibile che lui le stia odorando i capelli. Nelle note di copertina accanto a quella foto Johnny Cash racconta di essere seduto lì pensando alla poesia di Robert Browning sulla morte della moglie Elizabeth Barrett Browning, quando June Carter Cash entra domandando cosa gli piacerebbe per pranzo.

E sembra esserci davvero tutto, in quell’immagine – loro due nella stessa stanza, che ponderano panini e poesie. Con grandiosità, lui le ha sempre riconosciuto il merito di avergli salvato la vita. Ma aggiungendo, quasi a vantarsi: «e poi le piacciono gli stessi film che piacciono a me».

Nell’album solista di June, Press On, dopo la sua “Ring of Fire”, la canzone immediatamente successiva è un duetto con Johnny. È una ballata gospel narrata da una vecchia coppia sposata che si tormenta del fatto che l’uno morirà prima dell’altro. Preoccupati di essere lasciati indietro. «Se sarò davvero io la prima ad andar via» canta June «e, chissà come, mi sento che sarà così».

Come lei aveva previsto nella canzone, June morì per prima. Soltanto quattro mesi dopo Johnny fu sepolto accanto a lei. Come lui disse una volta: «questa cosa, fra noi due, va avanti dal 1961, e – semplicemente – non voglio fare nessun viaggio se lei non può venire con me».

Se sarò davvero io la prima ad andar via,
e, chissà come, mi sento che sarà così,
quando sarà il tuo turno non sentirti perso
perché sarò io la prima persona che vedrai.

Così, senza aprire gli occhi, aspetterò su quella spiaggia
finché non arriverai tu, e allora vedremo il paradiso.

E il Parlamento Europeo parla italiano (e senza Sara Tommasi)

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Tutti abbiamo visto la magistrale – soprattutto nei modi e nei tempi – risposta che Monti ha dato, passando dall’italiano all’inglese, ai borbottii dell’UKIP al Parlamento Europeo. Ma non tutti hanno notato quello che è successo dopo: è intervenuto Guy Verhofstadt, ex primo ministro belga e presidente dell’ALDE, e ha cominciato il proprio discorso d’elogio a Mario Monti… in italiano:

Finito l’intervento, come da prassi, ha ripreso la parola Martin Schulz (ricorderete), il presidente del Parlamento. E anche lui in italiano: «cratzie onorefole Verhofstadt».

Da notare la battuta che Verhofstadt aveva fatto appena prima, alla fine del proprio discorso: suggerisco Mario Monti per il ruolo di… (che avete capito?) primo ministro greco «potremmo mandarlo in Grecia, quando avrà finito il proprio lavoro con l’Italia» «potremmo spedire Monti in tutti i posti d’Europa dove ci sono difficoltà». Monti ne ha riso. Che bello poter ridere delle battute, eh?

p.s. Siccome in giro ci sono tanti smemorati, mi è venuta la curiosità di vedere cosa succedeva, soltanto un anno fa di questi tempi, fra l’Italia e il Parlamento Europeo. Così sono andato su Google News Italia. Ho limitato l’indagine al febbraio del 2011, e ho messo nel campo di ricerca le parole “Parlamento Europeo”, non avevo idea di cosa avrei trovato. Questo, giuro, è il primo risultato.

Come avere 5 giga in più su Dropbox, gratis

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Dropbox è un programmino che serve per condividere file di ogni genere fra amici, con il quale alcune cartelle selezionate divengono “virtualmente” condivise. Se io aggiungo un file, lo vedono gli altri amici. Se lo tolgo, nessun altro lo vede. Il programma è utilissimo, se voglio far ascoltare un album musicale a diversi amici, lo metto nella cartella che condivido con loro.

Ecco, la novità è che Dropbox ha introdotto una funzione per importare le foto, ed è una funzione che è in beta (in prova): l’hanno realizzata e ora la stanno sperimentando. Visto che per sperimentarla hanno bisogno di persone che la provino (beta tester), dànno dello spazio gratuito – che in genere è molto ambito – in regalo a chi scarica il nuovo client e lo prova.

Dropbox dà 500 mega di spazio in regalo per ogni 500 mega di immagini e video che uploadate sul vostro computer attraverso Dropbox. Aggiungendo altri 500 mega se ne ottengono altri 500 in regalo, e così via fin a un limite di 5 giga. Effettuata questa operazione, potete togliere le foto e i video che avete caricato e usare quei 5 giga come preferite. Lo staff di Dropbox ha anche confermato che, una volta finito il periodo di prova, lo spazio guadagnato rimarrà. L’occasione è notevole – io l’ho trovata utilissima – e quindi ho pensato di condividerla anche qui.

I passaggi da fare sono questi, provo a spiegarli semplicemente per chi non ne capisce molto (incluse la trentina di persone a cui ho fatto scaricare Dropbox):
1) – Installare la versione beta di Dropbox che potete scaricare da questa pagina (si trova solo sul forum e non sul sito ufficiale appunto perché è una beta). Se non conoscete l’inglese, il file da scaricare è questo per Windows; questo per Mac; questo per Linux (o Linux 64).
2) – Collegare un’unità dove sono presenti delle immagini o dei video, macchina fotografica, pennetta, cd, iPod.
3) – Nelle impostazioni dell’autoplay (il menu che si apre quando si collega l’unità) scegliete “import pictures and video using/utilizzando Dropbox”. [Roba un poco più tecnica: nel pannello di controllo (sempre Windows) potete modificare le impostazioni dell’autoplay sia se l’autoplay non parte, sia se volete automatizzare l’operazione impostando “import pictures and video using/utilizzando Dropbox” accanto a “immagini” e “file video”]
4) – Le immagine saranno caricate, già rinominate per data, nella sottocartella “Camera Uploads” della vostra cartella My Dropbox.
5) – Fine. Avete tutto lo spazio che volete. Ogni volta che aggiungete 500 mega ve ne verranno accreditati, automaticamente, altri 500 (fino a un massimo di *ulteriori* 5 giga rispetto al vostro spazio iniziale). Ora potete fare ciò che volete di quello spazio.

San Valentino

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Quasi dimenticavo, l’oramai tradizionale post – in cui c’è dentro tutto questo blog – per San Valentino:

Tanti auguri.

Agli unici innamorati al mondo che non possono permettersi di non sopportare questa festa. Che non hanno il diritto di sogghignare dei lucchetti a Ponte Milvio o farsi venire l’urticaria per le strade tappezzate di cuori di peluche rossi. Di ridere delle scritte per terra, o di considerare kitsch le scatole di cioccolatini a forma di cuore.

In Arabia Saudita, e in tanti altri posti del mondo, festeggiare San Valentino è vietato dalla legge. Ti viene a prendere la polizia per l’imposizione della virtù e l’interdizione del vizio. Non è una parodia, si chiama veramente così. Perché amarsi è un’idea occidentale.

A tutti coloro per i quali volersi bene è – necessariamente – un atto rivoluzionario, a loro, buon San Valentino.

Gay, Washington e barboncini

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Qualche ora fa il governatore dello Stato di Washington ha firmato la legge che permette anche agli omosessuali di sposarsi.

Tempo fa avevo ascoltato la storia di una coppia di omosessuali che vive proprio a Seattle, la principale città dello Stato di Washington. L’avevo tagliata da questa puntata per mandarla a un amico, ma – a questo punto – perché non metterla anche qui per festeggiare?

La storia, dura un quarto d’ora, è divertente e commovente e racconta le contraddizioni e le paure di una coppia di genitori omosessuali, il cui primo timore – nella crescita del proprio figlio – è il modo stereotipato in cui la televisione dipinge gli eterosessuali (avete capito bene!).

Dan Savage è il narratore e protagonista della storia. È un celebrato autore (qualcuno dei lettori di questo blog ricorderà quest’altra storia, altrettanto divertente e commovente – come solo le migliori storie sanno essere), oltre che un famoso attivista gay, e l’inventore della – bella, famosa e di successo – campagna “It Gets Better”.

Ascoltatela! (premendo play qui sotto, è in inglese)
Quello che ho imparato dalla TV, Dan Savage

P.s. ho invece visto lo spot Arcigay “Ti sposerò”: è bello e fatto bene; ma davvero siamo ancora al livello in cui una coppia gay frequenta solo coppie gay, come amici ha solo coppie gay, invita solo coppie gay, etc? Davvero non ci rendiamo conto che fare uno spot in cui l’unica coppia etero è quella che evita schifata due omosessuali contribuisce alla ghettizzazione e alla sindacalizzazione delle cause?

Il Post è un giornale che racconta storie e spiega le cose

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Il Post, lo sapete, è un giornale che racconta storie e spiega le cose. È online, sì, come le notizie oggi. E somiglia al narratore esterno (eterodiegetico, mi sembra si dicesse) che c’è in certi film che ti mettono di buon umore: descrive le vicende che accadono, quelle che considera importanti, e assieme narra i fatti e le persone; qualche volta dà la propria opinione, e più spesso dà le (diverse) opinioni dei protagonisti del film. Ogni tanto ammicca con lo spettatore, altre volte assume un tono più serio, ma in genere ti fa capire, anzi “entrare”, nelle cose che succedono nel modo migliore: senza dare per scontato nulla, ma anche evitando di assecondare le scorciatoie della comprensione, come i cliché linguistici o certe espressioni codificate della narrazione (“Roma, esplosione in scantinato causa x morti”), che decidono al tuo posto quali sono le parole più appropriate da usare in una determinata circostanza. Insomma, a me Il Post piace.

A queste cose ci pensavo ieri, leggendo l’ennesima storia curiosa o interessante, e oggi leggendo quella del motto del NYT che è un po’ la parafrasi delle cose che ho scritto più su. E ci pensavo perché, invece, ho letto più di una volta di persone a cui Il Post non piace. E certe volte sono persone per cui ho stima senza termine. Perciò mi sono domandato se non sia io ad avere torto. Naturalmente ci sta di avere opinioni diverse, specie quando si parla di gusti, ma il fatto è che io quelle critiche – non è che non le condivida – proprio non le capisco. Mi sembrano mosse più da emozionali antipatie che non da argomenti logici. C’è chi critica il fatto che Il Post selezioni e raccolga le cose migliori che altri scrivono in inglese, come se appunto fosse una critica anziché un merito. E poi ci sono quelli che usano – ma questo è forse un problema più grande del Post – come accuse delle parole a caso, fra l’altro in diametrale contraddizione l’una con l’altra: come “radical-chic” (l’alto-borghese che considera eccitante la dittatura del proletariato) e “snob” (il proletario che considera eccitante atteggiarsi ad alto-borghese).

Ora questo è il posto dove normalmente dovrei mettere i caveat: e cioè che per un breve periodo al Post ci ho lavorato, e che alcune delle persone che lo fanno sono persone a cui sono affezionato. Però sarebbe un caveat inutile, perché il motivo per cui mi piace Il Post non è che ci ho lavorato, ma l’opposto: ci ho voluto lavorare perché è un posto che mi piaceva un sacco, e ho avuto la fortuna di avere questa possibilità prima di partire per Londra, quando decisi d’intraprendere tutt’altra strada da quella del giornalismo. Queste erano le cose che pensavo prima, e queste sono le cose che penso ora che mi sembra addirittura migliorato, solidificando quella personalità “da Post” che ora si riconosce così bene. Per questo, quando leggo quelle critiche, mi verrebbe voglia di rispondere come si fa quando criticano il tuo calciatore preferito, ma siccome – come ho detto – quelle critiche proprio non le capisco, mi limiterò a spiegare le ragioni per cui piace a me, Il Post.

Parla come magna
Da quando esiste Il Post non riesco più a leggere un articolo di repubblica.it senza pensare «ma come è scritto male!». Eppure prima non lo pensavo. Mi ero semplicemente abituato all’idea che il giornalismo si potesse fare solo in un certo modo (“liberalizzazioni, pressing dei partiti”), quello che facevano tutti. Poi ho visto che titolare un pezzo “L’emergenza gas è una cosa seria?”, che è quello che voglio sapere da quell’articolo, si può.

Ma magna bene
Il fatto che un giornale parli come “noi”, e non con standard codificati, non è necessariamente un bene. Perché bisogna vedere come parlano, questi “noi”. Il Post parla bene. Evita quelle sciatterie ma vuole essere chiaro: sa che non hai veramente capito qualcosa finché non sei in grado di spiegarla a tua nonna. E siccome tutti noi siamo la nonna di qualcun altro (io vi spiego la linguistica medievale, e voi mi spiegate la fisica quantistica), questa è una cosa preziosa.

Non urla

Frequento un po’ i giornali stranieri, e questo non succede. Però in Italia sì. Vedi un titolo (delle volte perfino tra virgolette), pensi «ma com’è possibile?», poi guardi l’articolo e leggi che, infatti, non era possibile. Ecco, il Post è come i migliori giornali stranieri: non urla e non dice mezze verità. Ovviamente chi fa il giornale vuole che tu legga quello che scrive (sopravvive così), ma vuole che tu lo faccia per le cose che ci sono scritte, non perché ha attirato la tua attenzione strillando.

Ha quello che serve
Il Post è un kit di sopravvivenza. Ci sono tutte le notizie che devi sapere. Certo, se vuoi approfondire, approfondisci; e capita anche di leggere una storia sul NYT o su Slate che poi viene raccontata sul Post. Ma è proprio questo il punto. Molte volte non si ha tempo, altre si è semplicemente pigri, e allora quel kit diventa l’equipaggiamento minimo d’informazioni per sapere cosa fa il mondo. Tanto più che a me interessa il Medio Oriente e il ciclismo, a qualcun altro interessa il Sud America e il basket: del Sud America e del basket (e di mille altre cose) ne leggerò sul Post, e così lui farà per Medio Oriente e ciclismo. E ricordiamoci: non tutti sanno l’inglese come noi.

Non ha quello che non serve
Sarebbe facile dire “tette e culi”, ma sarebbe facile perché è vero. Il Post è l’unico giornale – davvero l’unico, controllate (anche Linkiesta, mi suggeriscono) – che ha il coraggio di non mettere quello che non serve: le non-notizie a sfondo sessuale, le gallery morbosette, ma neanche gli articoli spezzati ogni cinque parole per fare pagine viste, i sondaggi senza alcun valore statistico. Mi raccontarono che, all’inizio, quando fecero gli accordi per la pubblicità, le concessionarie dicevano una cifra, poi «ah, ma senza donne nude?», e offrivano la metà.

Non pensa male
Tutte queste cose si chiamano, con un nome solenne, “etica professionale”. Poi c’è l’etica personale, che si vede nell’impronta data a ciò che si legge, e che apprezzo perché non insinua. Il Post non è un giornale incattivito, è immune a quell’atteggiamento da a-me-non-la-si-fa che è un rischio così presente nel fare giornalismo. Non analizza le notizie attraverso il filtro più turpe e diffidente, quello che è sempre il modo più facile per crearle, le notizie che – poi – non lo erano.

T’insegna le cose
Leggendo Il Post s’imparano un sacco di cose. E per chi è curioso di tutto, senza avere il tempo per tutto (un po’ siamo tutti così), è il miglior pregio. Ho il dubbio che ad alcuni, invece, non piaccia per questa paradossale ragione. Come se spiegare qualcosa fosse un atto d’arroganza anziché d’utilità. Certo, per farlo c’è sempre bisogno di una parte d’autoironia, ma quella c’è: certamente più che in qualunque altra testata.

Ecco, queste sono le ragioni – o almeno quelle che mi sono venute in mente scrivendo – per cui Il Post è il sito che leggo per primo ogni mattina, quello che consiglio, quello a cui mi affido, quello che sono felice se vedo linkato in giro, quello con cui mi arrabbio se scrive cose che non condivido.

Intendiamoci, mica lo so se si può fare un giornale così: se può sopravvivere senza quegli espedienti, specie in Italia. Spero di sì, e ogni tanto clicco su un paio di banner.