Oggi è di nuovo il mio compleanno, il tempo passa proprio in modo strano.
Me ne sono ricordato due giorni fa, quando Fatima mi ha detto: parto il 25 Marzo. Fatima è la figlia grande dell’ultima famiglia ad andare via da qui fra quelle che erano nel campo di Katsikas quando sono arrivato. Lei, il padre e i due fratellini vanno a ricongiungersi con la madre, Sakine, che vive da tempo in Svizzera. Ieri sera mi ha detto «sono 70% contenta, e 40% dispiaciuta di andare via». Il primo pensiero è stato che quella sovrabbondanza in spregio alla matematica fosse il risultato inevitabile della moltiplicazione delle identità che questi ragazzi – sospesi fra due e più mondi, fra due e più case (o tende, o container) – si trovano a dover vivere.
Poi mi sono ricordato chi è Fatima, di come l’ho vista crescere quasi ogni giorno dai 10 ai 13 anni e mi sono messo a ridere. Forse è il segno della mia vecchiaia, quello di cercare grandi significati palingenetici in ogni piccola sciocchezza. Poi mi sono ricordato chi sono io, di come ‘sta tendenza l’ho sempre avuta, concludendone che – insomma – non sono invecchiato: sono sempre stato vecchio.
Quindi chissenefrega del compleanno. Lo festeggerò andando ad accompagnarli al bus, che li porterà ad Atene, per poi volare a Zurigo, facendomi un bel pianto di commozione. Ieri, però, ho mantenuto una promessa che gli avevo fatto: per sdebitarmi delle tante cene afgane che nel tempo mi avevano offerto, l’ultima loro sera a Ioannina avrei cucinato qualcosa d’italiano. Ho fatto la carbonara vegetariana:
Con questa partenza si è chiuso un capitolo. Quella dell’assistenza umanitaria a persone che sarebbero andate in altri Paesi. Le 3200 persone che sono oggi in Epiro non hanno diritto ad andare in altri Paesi europei: sono costretti a rimanere qui in Grecia (se sono fortunate e la loro richiesta d’asilo viene accettata). Tante cose sono cambiate.
E quindi come sto? L’anno scorso, per il mio compleanno, avevo scritto un post molto pensato, in cui raccontavo delle riflessioni che avevo maturato negli ultimi anni, della mia vita. Quest’anno di riflessioni non ne ho molte di più. Se devo rispondere alla domanda, come sto?, direi che sono stanco. Non stanco felice, stanco stressato.
Principalmente perché, per far sopravvivere Second Tree mantenendo la propria capacità di determinare come vogliamo aiutare, è tutta questione di soldi. Ovviamente, non dico nulla di rivoluzionario, è una considerazione così banale, quasi populista. Non è una cosa che stupisce, ma è una cosa che consuma: la qualità del proprio lavoro non c’entra nulla. Quante donazioni riceviamo (a proposito, se volete farmi un regalo, qui c’è la pagina delle donazioni), specie quelle grandi da enti o istituzioni, non dipende in alcun modo dall’impatto di quello che facciamo, o dalla qualità con cui lo facciamo, ma – se siamo fortunati – dalla bellezza della foto che l’accompagna, e – se siamo sfortunati – da cosa siamo disposti a fare per ottenerla.
Non dico nulla di nuovo, eh? Lo so. La cosa che stressa, però, è decidere quanto tempo – e riserve emotive – dedicargli. Second Tree non è stata creata a tavolino, ci siamo incontrati come volontarî in un campo profughi, ci siamo riconosciuti come persone che hanno lo stesso obiettivo e sono abbastanza dediti a quell’obiettivo da darsi uno standard rigoroso di efficienza. Non abbiamo deciso: “tu fai strategia, tu fai le distribuzioni, tu scrivi i budget”. Siamo stati solo fortunati che tutti avevamo delle qualità complementari. Ma, ovviamente, ci sono dei buchi: non siamo esperti di fundraising o comunicazione.
E quindi tocca a qualcuno farlo. C’è sempre una tensione: cosa sono disposto a fare, eticamente, per fare sì che Second Tree stia in piedi. Ma anche, cosa sono disposto a sacrificare, umanamente. Andare a cena da Fatima ieri è stato il miglior uso del mio tempo? Probabilmente no. Certo, c’è un valore nell’essere vicini alla comunità con la quale lavoriamo, e un enorme valore nel rapporto che abbiamo costruito con loro negli anni, ma – se devo essere onesto – questa è fondamentalmente una spiegazione autocompiaciuta e autogiustificatoria. Se ieri sera avessi speso quelle tre ore scrivendo un progetto e presentandolo avrei contribuito al benessere potenziale di quelle persone molto più che cucinando e mangiando con loro. Ma cucinare e mangiare con loro mi fa stare bene.
Questa è la tensione che consuma. Scegliere quanto consumarsi. È facile dire “per aiutare gli altri devi prima aiutare te stesso”, ma cosa vuol dire aiutare gli altri?
Grandi domande, risposte banali. Continuo a pensare, come ho scritto l’anno scorso, di essere un privilegiato. Posso almeno avere la speranza di essere soddisfatto di quello che faccio ogni giorno. Tante persone non hanno neppure quella speranza. Però, certo, se la domanda è: sono soddisfatto? La risposta è probabilmente, “no”.
O, paradossalmente, sono soddisfatto quando vedo com’era Fatima tre anni fa e com’è ora. Se lo vedo coi miei occhi. Che è precisamente quello che ho appena detto non dovrebbe essere ciò che mi motiva e ciò che pratico quotidianamente. Eppure:
Auguri Fatima, Nabi, Mehdi, Ali, Sakine. È il mio compleanno, ma è la vostra festa, e di tutte le persone che erano qui, quel 15 aprile del 2016, e ora sono sparse per l’Europa.
Facciamo che per l’anno prossimo impari ad aver diritto ad un po’ di sano egoismo? Che ci servi consumato ma non troppo.
Auguri in ritardo e in bocca al lupo!
🙂
Gentile Giovanni,
La seguo da tanto tempo.
Le faccio i miei migliori auguri di buon compleanno, in ritardo, e complimenti per tutto ciò che fa per gli altri.
Le auguro di continuare con la stessa passione e con lo stesso “politico” impegno.
Un abbraccio
@ io e basta:
Grazie!