Tu sei un pedofilo?

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Leonardo alle prese con l’inversione della presunzione d’innocenza:

“Quindi insomma stiamo parlando di quelli che quest’estate, sul loro sito molto ben indicizzato su google, lasciarono scritto che io ero un pedofilo, sono quelli, no?”

“Sono quelli che mi risposero che poi come facevano loro a sapere se io ero un pedofilo o no, toccava a me dimostrarlo, sono loro, sì?

“Tu sei un pedofilo?”
“Ma che razza di… no, ovviamente”.
“Me lo puoi dimostrare?”
“Che io non sono un pedofilo?”
“Esatto. Perché io quest’estate mi sono posto il problema, cioè: come faccio a dimostrare a questi simpatici mediattivisti che io non sono quello che pensano loro? Mi faccio sequestrare un pc pieno di foto di donne adulte?”.

Beh, leggere Tolstoj in russo è tutta un’altra cosa

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Guido ha scritto un elenco di luoghi comuni sulla lettura in cui ritrovare alcuni, o forse molti, dei nostri tic rispetto a questo passatempo sopravvalutatissimo da chi non lo pratica (e, talvolta, anche da chi lo pratica).

Al primo luogo comune, però, avrei un’obiezione:

1. Io i libri li finisco per principio, non li lascio mai a metà.
Lo si sente dire spesso, ed è piuttosto stupido. Perché accanirsi a leggere un libro orrendo? Per un malinteso senso d’orgoglio, per spirito di disciplina, per sfida a sé stessi? O – peggio ancora – per il semplice fatto che lo si è comprato? «Ho speso tredici euro per Acido solforico di Amélie Nothomb, a questo punto lo leggo fino in fondo». Che è esattamente come dire: «Ho buttato del denaro, ora per pareggiare i conti devo buttare anche del tempo». Non vi daranno indietro né l’uno né l’altro.

La maggior parte delle persone che conosco non lo farebbero né per orgoglio, né per disciplina, né per sfida per sé stessi, né per i soldi buttati. Molto più importante: altrimenti non lo puoi mettere su aNobii!

p.s. Potete suggerirgliene altri, se vi vengono in mente. Il mio, di suggerimento, è nel titolo.

4.500.000 a 0

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Forse non ve ne siete accorti, ma dopo la Terra rotonda, la schiavitù che è sbagliata, il mondo che non ha 6000 anni, il non uccidere gli infedeli, etc. etc. (continua per altre quattro e rotti milioni di cose) etc. etc., il Papa ha detto che anche sul profilattico e l’AIDS avevamo ragione noi e che lui, e i suoi, erano stati un po’ stronzi.

La lobby di quelli che tengono famiglia

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Ci ho messo tanto per capire che non fosse giusto copiare, a scuola, durante un compito in classe.

Qualche tempo fa il mio amico Franco, che conosce il mio lambiccarmi sulle questioni etiche, mi sottopose questo racconto che aveva trovato nella rubrica di Gramellini:

Una lettrice racconta di aver ricevuto dal padre, in punto di morte, una confessione che l’ha stupita e confusa. L’anziano signore era stato un professore di latino e greco stimato e temuto da tutti per la sua intransigenza. Il classico duro capace di annullare il compito in classe allo studente sorpreso a consultare un foglietto. Ma il giorno degli esami di maturità il «prof» implacabile si trasformava nel più imprevedibile degli alleati. A turno i maturandi uscivano dall’aula per recarsi in bagno. E in un angolo buio del corridoio trovavano lui, che consegnava a ciascuno la versione già tradotta. Ma non la stessa per tutti. Una versione personalizzata e con l’handicap. I meritevoli ricevevano un testo impeccabile. I meno bravi uno sporcato da un paio di errori, che per gli scarsi salivano a quattro e per i pelandroni a cinque: al di sotto della sufficienza. Il professore comunicava a ogni ragazzo il numero di errori presenti, così anche il peggiore avrebbe potuto salvarsi, se fosse stato abbastanza bravo da trovarli.

Alla figlia, prima di morire, il vecchio ha spiegato che negli esami l’emotività gioca brutti scherzi, mentre con il suo metodo venivano riconosciuti i meriti e i demeriti accumulati durante l’anno. In sostanza quell’insegnante integerrimo metteva in piedi ogni estate una truffa con l’intima convinzione di rispettare una regola superiore di moralità. Non riesco a trovare una rappresentazione più efficace dell’essenza italiana. Una parte di me condanna quel professore. Ma dev’essere una parte norvegese o austro-ungarica, non fateci caso.

Mi chiese, Franco, cosa ne pensassi. Gli risposi questo:

Io non sono “un americano”, non valuto il rispetto della legge come un valore inviolabile. Trovo che ci siano leggi giuste e leggi sbagliate, trovo che sia accettabile non sottostare al contratto sociale e decidere di violare una regola, ovviamente assumendosene la responsabilità (è lo stato di diritto). E fin qui è facile. Ma trovo anche legittimo che, ciascuno di noi, possa concedersi rispetto alla propria stessa persona delle piccole libertà che rendano la vita più facile: l’esempio classico è il semaforo rosso. Se sono le quattro di notte, su di una strada che conosco, e vedo che a distanza di km non c’è nessuna macchina che si avvicina, beh io passo anche col rosso. Naturalmente auspico che il vigile che mi becchi mi faccia la multa, perché vorrei che si facesse così di fronte a chiunque altro, e quindi a me. Altrimenti sarebbe troppo pericoloso lasciare a ognuno – magari ubriaco e spericolato – la coscienza di decidere se si può passare con il rosso o no. Diciamo che ci sono casi in cui trovo giusto astrarsi dalla legge della maggioranza, che è l’espressione della legge: un esempio, io non sono un astensionista referendario. Se non mi piace il referendum voto “no”. Tuttavia ci sono limitati casi in cui mi comporterei diversamente: ipotizziamo che sia in gioco il referendum se istitutire la pena di morte in Italia, ecco, io considererei quel tema così importante che non andrei a votare per approfittare del possibile fallimento del quorum, in questo modo violando – con un trucco – la legge della maggioranza. Non so se tu ritieni ragionevole ciò che sto dicendo, di sicuro è molto pericoloso, e me ne rendo conto: per questo non soltanto dico che accetto, ma che auspico la multa del vigile (ovviamente io, dentro la mia macchina cercherò di non farmi beccare).

Quindi come orizzonte etico si potrebbe dire che io potrei essere propenso ad accettare la soluzione del professore. Eppure no. Capisco profondamente la sua buona fede, ma trovo che ciò che noi chiamiamo “merito” è semplicemente un dispositivo che ha trovato la società per crescere. Noi vogliamo che i più bravi ottengano dei posti non perché ci sia un ordine astrale in cui essi debbano essere premiati – in fondo uno meno capace a fare le tabelline è nato meno capace – ma perché dare a chi li fa meglio gli incarichi serve a creare una società migliore, più felice, più funzionante, anche per gli altri. Pensa ai medici, agli ingegneri, ma anche ai cantanti, ai poeti o ai cuochi: è giusto che sia cuoco chi cucina meglio perché farà felice chi sazierà. Che c’entra tutta questa premessa? Ha a che fare con quel lato emotivo – in realtà parla di debolezza emotiva, di lati emotivi ce ne sono diversi, anche quelli che ti fanno andare meglio sotto pressione – di cui parlava il professore: i ragazzi che non sanno esprimere sé stessi sotto pressione, dovranno impararlo, dovranno sforzarsi. Quella non è certamente l’ultima volta che saranno sotto pressione, anzi: molto probabilmente, qualunque ruolo nella società andranno a occupare, si troveranno di fronte a numerosissime altre prove simili. Perciò, e così, questo tipo di debolezza – o l’opposta presenza di spirito – non può non andare a incidere quanto il volume di studio, l’impegno, e il merito (personale) accumulato agli occhi del Prof. Come si dice: gli esami sono esami, ma sono anche esami di vita.

Francesco ha raccontato questa cosa qui, su come funziona il giornalismo in Italia: leggetela.

Naturalmente lo spirito giusto con cui leggerla è senza giustizialismi (e senza cornette sradicate), tenendo conto che il fair-play viene prima di tutto e che dare una mano a qualcuno che ne ha bisogno è cosa altruista – e penso che sarebbe d’accordo anche Francesco, al quale questo post non creerà tanti amici –, il problema è l’istituzione.

Un Paese di Humbert Humbert

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L’ho avuta anch’io quell’impressione: che quel fatto lì – che la negretta, come la chiamano, mostrasse una pervicacia carnale piuttosto esplicita – sembri aver rovinato la festa a chi rapace sarebbe saltato sul carro, sull’altare, della madonna-vergine-bambina sfruttata dal lurido scabroso e potente vecchio.

Come se questa cosa, anche solo in parte, estinguesse lui e condannasse lei.

Bordone:

Ruby è scappata dal paesino di merda, e per farlo ha usato il proprio corpo. E non bisogna, in tutto questo casino inenarrabile di festini africani e igieniste dentali, dimenticare che ha fatto il cazzo che le pareva, il corpo è suo, può fare intravedere le tette a chi vuole. E se siamo davvero dei progressisti, in questa vicenda dobbiamo difendere con fermezza un solo diritto fondamentale: quello di Ruby a fare quello che le pare con chi desidera. Qualunque valutazione sul suo comportamento, qualunque giudizio in merito, è moralista, colonialista, peloso, pretesco, maschilista.

Ché le persone ragionevoli tra la morte e il bunga bunga scelgono il bunga bunga. E a molti piace il bunga bunga a priori, senza sacrifici di sorta all’orizzonte.

Razzismo

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Chinaski fa la migliore descrizione del razzismo:

Come dicevo, domenica è stata nient’altro che la solita domenica noiosa, e infatti abbiamo avuto dei cori razzisti, cioè uomini che discendono dalle scimmie hanno preso in giro altri uomini che discendono dalle scimmie insinuando che discendano dalle scimmie.

Ho tanti amici salernitani

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Pare che nell’ultimo film di Claudio Bisio ci sia un po’ di confusione fra Napoli, Salerno e la Campania tutta, e se c’è una cosa che so dei salernitani è che non vogliono essere accostati all’odiato capoluogo di regione. Bisio ha spiegato sul suo blog  le proprie ragioni, ma ci ha messo un errore geografico piuttosto marchiano – riferendosi ai salernitani come leccesi – e attirandosi così altre pernacchie. Poi, scusandosi, ha fatto un post un po’ paraculo che però finisce così:

Fino a ieri se mi chiedevano un difetto dei salernitani non riuscivo a trovarne. Oggi finalmente uno l’ho trovato: permalosi.