Lei si chiama Omer Goldman, ha 19 anni, il suo numero di matricola è il 5398532. È una Shministim, o refusnik. Ha rifiutato di arruolarsi nell’esercito israeliano, e per questo è stata più volte rinchiusa in un carcere militare.
Di suo padre dice: «in fondo abbiamo un carattere simile, entrambi combattiamo per quello in cui crediamo: soltanto che abbiamo visioni diametralmente opposte».
La cosa – neanche troppo originale – che molti diciannovenni direbbero del proprio padre.
Il padre, però, non è un genitore qualsiasi. È stato vicecapo del Mossad fino all’anno scorso, ed è considerato tutt’ora una delle persone più influenti nel campo della security in Israele.
Ma lei, Omer, la pensa in un altro modo: dice che “proprio perché crede nel servizio alla società di cui fa parte” non può arruolarsi nell’esercito. E che “La violenza non porterà da nessuna parte, e io non commetterò violenze, a qualunque cosa io vada incontro…”
A cosa va incontro lo sa bene, significa essere richiamata più volte sotto le armi, e fare un periodo in prigione a ogni rifiuto. Per poi essere rilasciata, e essere richiamata, magari pochi giorni dopo.
Eppure le possibilità di scamparla, con un sotterfugio, non dovrebbero mancarle: non si può dire che non abbia conoscenze. E, in ogni caso, con le donne che proprio non vogliono fare il servizio militare è più facile che si chiuda un occhio per fittizî “motivi religiosi” o “di salute”, per i maschi è ben più difficile. Chissà se c’ha mai pensato o ha tirato dritto per la sua strada, lastricata di quell’idealismo testardo che – dagli anni ’70 – ha convinto vari ragazzi israeliani a fare la stessa scelta.
Non so se sarei del tutto d’accordo con lei e i suoi amici, perché qualunque posizione è infinitamente complessa e difficile da comprendere e conciliare, in quella zona di mondo; ma sono i personaggi come lei ad affascinarmi, a dare una radice di speranza. A far saltare gli schemi e i pregiudizî, che sono sinonimi quando si parla di Israele e Palestina.
Degli ebrei che si battono per l’altra parte valgono molto di più: perché qui ogni cosa è schieramento, l’identità connota e esige lealtà cameratesca: chi ne sfugge è aria fresca.
Così come per le ideologie: il sionismo è considerato ragione dell’occupazione da una parte, e alla stregua del nazismo dall’altra? Ci sono questi, che sparigliano le carte, e proclamano – con argomenti anche convincenti – che i veri sionisti sono coloro che vogliono la fine dell’occupazione.
Del resto è forse soltanto in Israele che possono accadere queste cose. Sarebbe sicuramente difficile immaginare la figlia (omosessuale, per di più) di un primo ministro impegnata nel combattere le ingiustizie foraggiate dal governo del padre, e senza che questo crei troppo scandalo. Non lo immaginerei in Italia, vorrei farlo in Palestina, ma è meglio non farlo.
Qualcuno dice che sono proprio queste le contraddizioni di Israele, se è così, beate contraddizioni.
Il 18 dicembre c’è l’iniziativa dell’organizzazione Free the Shministim per richiedere la liberazione, e il congedo, di Omer e i suoi compagni di disavventura, quel giorno sarò nuovamente in Palestina, magari faccio un salto al di là del muro e vi racconto.