Paola Caruso, le aziende e la moglie di Hossam: mi spiegate una cosa come a un bambino?

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[Dico prima che magari sono scemo io, e dico davvero, nel senso che mi sembra che tutti stiano dando per scontata una cosa che io non do per scontata: quindi, ecco, se uno volenteroso e altruista viene qui e me la spiega lo ringrazio e cestino questo post]

Al giornalaio sotto casa mia lavora Pino, che ha una moglie, Rossella, che naturalmente lavora con lui: perché? Beh, perché è la moglie di Pino, hanno un’azienda, e lavorano assieme. Rossella ha fatto un po’ la casalinga, poi quando Pino ha avuto bisogno di una mano, invece di assumere qualcun altro, ha detto a Rossella di venire anche lei giù in piazzetta. Poi c’è quell’altro: come si chiama? Hossam, fa le pizze napoletane pure se è egiziano, e con lui lavorano il fratello – che è venuto dall’Egitto proprio per fare lì il pizzaiolo – e il figlio, che fa le consegne. Come l’hanno avuto quel lavoro? Beh, perché erano lì. Magari son anche bravi, le pizze di Hossam non sono male, però non è che abbiano fatto un concorso.

Sai che c’è? Secondo me sono dei raccomandati. Cioè, sì, lo sono. Mica hanno ottenuto il lavoro per merito, anzi il merito proprio non c’entra nulla: se uno la vede spassionatamente è la più bieca forma di familismo. Eppure non c’è nessuno che faccia uno sciopero contro Pino, Hossam, o Rossella.

Magari direte: ma quelli sono pesci piccoli, è naturale. Boh, sarà naturale, ma il principio è quello. Però vabbè, facciamo così: il presidente della Fiorentina si chiama Della Valle ed è proprietario della Tod’s, un’azienda famosa che vende scarpe. In realtà non è che l’abbia comprata lui l’azienda, l’ha ereditata dal padre che a un certo punto l’ha cooptato e tirato dentro. Perché non c’è uno sciopero contro Della Valle? E John Elkann? Sarà anche bravo, ma non è che ha vinto il concorso per entrare in Fiat.

Naturalmente in un impiego pubblico è una cosa completamente diversa: le sorti di un’istituzione pagata da tutti non devono essere danneggiate dalle preferenze di uno, ma in un’azienda privata non vedo proprio cosa dovrebbe spingere qualcuno a rivendicare qualcosa. Non è che in via di principio non sia sbagliato, intendo l’assumere qualcuno non sulla base del merito, da una certa prospettiva lo è certamente: ma, come ovvio e giusto, non c’è nessuna legge che vieti a qualcuno di fare quello che vuole con la propria azienda. È il mercato, funziona così: il concetto è che se Hossam assume il fratello anziché Carmine che fa le pizze più buone, la sua pizzeria riuscirà peggio, e così per Della Valle, per Elkann e per tutti gli altri.

Ecco, mi spiegate perché un giornale dovrebbe funzionare diversamente?

Secondo me Paola C ha esagerato, anzi dài, diciamolo: ha fatto una cosa scema. Capita di farne. E ho paura che questa scemata le costerà più delle scemate che capita di fare a noi, perché tutti i colleghi d’ora in poi la guarderanno storto, e per questo dal momento successivo a quello in cui ha iniziato questo sciopero della fame, mi è un po’ simpatica, ha anche una faccia simpatica. Potrebbe essere mia amica, anche se ha qualche anno più di me: ci mangerei un panino assieme e le direi «dài, smettila». Perché, a ogni modo, non capisco proprio la ragione per la quale un’azienda privata dovrebbe essere costretta ad assumere lei, anche se davvero più brava di un altro.

Oh, non dico che non possa essere un’ingiustizia, sarei tanto arrabbiato anche io: magari quel pivello della scuola di giornalismo è davvero un raccomandato**, non mi stupirebbe; però davvero non capisco il senso del fare uno sciopero della fame. Al limite scrivi la tua storia, racconti quel che è successo, e inviti la gente a non comprare un giornale che manda avanti un figliodì anziché una persona brava – sarebbe più che legittimo, magari convinci anche me e non vado più su Corriere.it – ma se fai uno sciopero della fame cosa vuoi ottenere, il lavoro? Il posto indietro? Per aver fatto uno sciopero della fame contro un meccanismo che non premia chi scrive bene? E il colmo è che, se così fosse, qualcun altro potrebbe fare lo stesso sciopero contro la tua assunzione: e sai che mica avrebbe tutti i torti?

** Sì: per quanto Paola C neghi – e questo invece, devo dire, me la rende un po’ antipatica – di aver espresso quel concetto, è naturale che l’accusa mossa al pivello sia quella di essere raccomandato: dici, io lavoro qui da sette anni e quello mi ha scavalcato senza averne i meriti. Quindi: o pensi che è tutto un caso, una botta di sfortuna (ma allora non fai lo sciopero della fame contro la sfortuna) oppure pensi davvero di aver subito un’ingiustizia, cioè che qualcuno l’abbia fatto passare avanti.

Morio Cpecei

iMille sono un gruppo di persone convinte che le cose possano cambiare. E che l’unico modo per fare sì che questo accada, è provarci. Fare le cose. Io, con loro, ho fatto qualche cosa per la creazione del Partito Democratico. Oltre ad aver fatto qualcosa, ho anche scritto delle cose:

tuvuofalamericano1.jpgll premio Nobel per la medicina è italiano.
Deve essere un immigrato, forse da qualche parte del centroafrica, perché ha un nome strano: Morio Cpecei.
È un nome particolare, ma i suoi amici lo chiamano così, lui stesso si definisce “Cpecei”.
Vedi? Per una volta si può dire che nel nostro Bel Paese, la ricerca funziona, che anche da noi si può far progredire il sapere. E che, ogni tanto, i cervelli non fuggono, anzi trovano accoglienza!
Questo uno pensa, se legge il titolo del Corriere della Sera, “È italiano il Nobel per la medicina”. E invece.
Invece il nostro Morio vive da 60 anni negli Stati Uniti, e questa minuzia è bastata a quei burloni del Nobel per definirlo statunitense.
E se gli chiedono un’intervista – rigorosamente in inglese, a parte un “arrivedorci” da Stanlio e Olio – viene fuori che ama molto l’Italia, ma che qui è quasi impossibile fare ricerca, che “ci sono bravi scenziati, con idee, in ogni nazione, in particolare in Italia, ma che le grandi risorse dovrebbero essere ‘incanalate’ meglio”.
Niente di nuovo sotto le Alpi, sono cose che iMille dissero e continuano a dire, non perché sia una novità, anzi, perché sono cose così autoevidenti da essere condivise – almeno a parole – da tutti.

Il Corriere – come tutti i media – ha sottolineato le origini italiane dello scienziato: ha raccontato la storia di Capecchi, che per qualche anno girovagò per l’Italia, senza genitori: il padre morto, la madre deportata a Dachau; come quarant’anni fa ci si rincorse a trovare e romanzare la storia di Rocco Petrone, progettista del Saturn V che portò l’uomo sulla luna e americanissimo self made man, figlio di una poverissima famiglia di immigrati italiani.
Insomma come sempre, invece del Premio Nobel, ci accontentiamo del Premio Novel.

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