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«Sono forse io il custode di mio fratello?»
Quand’è così si finisce sempre a rispondere alla stessa domanda: cosa faresti tu al loro posto? Cosa penserei io, se Cesare Battisti avesse ucciso uno dei miei familiari, non lo so. Però so una cosa che trovo più importante: che ciò che penserei io, in quel caso, non dovrebbe fare alcuna differenza. E ho una convinzione: una società sana “punisce” – parola che si pronuncia con pudore – per tutelare la propria esistenza e l’incolumità dei suoi appartenenti, non per riscatto di un sanguinolento indennizzo in dolore altrui.
Per questa ragione penso che l’abitudine con cui accordiamo ai “parenti delle vittime” una qualunque titolarità morale sulla pena di un condannato sia davvero un’impostura del pensiero. La lettera aperta che pretende di “conoscere nel dettaglio tutte le iniziative e i relativi tempi” della prossima azione di governo – come se loro più di noi –, e soprattutto i giornali che ci fanno le aperture. Sì, in realtà non ce l’ho con quelle persone – non condivido, ma comprendo – ce l’ho con tutto il sistema di malintesa correttezza, di giustizia a domicilio, a cui partecipiamo – assecondando il riflesso condizionato del diritto per vicinanza, anzi per lontananza di tutti gli altri.
È la parte peggiore del mondo, gli Stati Uniti della retribution in cui i parenti delle vittime vanno all’orrore per spettacolo della sedia elettrica che brucia il condannato a morte. È la parte peggiore dell’Italia, quella del plastico di Cogne e dei giornalisti di Studio Aperto che chiedono «lo perdonate?». È la parte peggiore di noi, quella che pensa che le ingiustizie e le sofferenze debbano essere patite e combattute solamente da coloro che ne sono, in un modo o nell’altro, implicati.
No, siamo tutti familiari di Abele. (E, ogni tanto ricordiamocelo, anche di Caino).