Bassorilievi

santiago.JPGIvan Basso oggi torna a correre dopo più di due anni. Era uno che mi piaceva, Basso: semplice nell’unica delle tante accezioni in cui questa parola può essere un complimento. Quando in un Giro che avrebbe stravinto ebbe una congestione sullo Stelvio e perse tre quarti d’ora, invece di ritirarsi – come avrebbe fatto qualunque altro favorito – decise di rimanere e soffrire; a fine tappa gli chiesero «ma perché non sei salito sull’ammiraglia?», che vuoldire in macchina, tornare a casa; lui rispose «piuttosto salivo sull’ambulanza».

Certo, Ivan Basso non è mai stato uno di quei corridori che fanno Svissh, ma del resto quell’ultra-fenomeno di Pantani non m’è mai stato simpatico, i corridori che s’alzano sui pedali e volano via ti sembrano degli extra-terresti, Basso invece era uno quasi normale, di quelli la cui fatica potevi leggere ogni metro, soffriva ogni pedalata e si vedeva. Sapevi che avresti potuto fare un centesimo di quello che faceva lui in bici, ma lo faceva proprio-come-lo-fai-tu, anche se per lui era la Marmolada e per te il cavalcavia vicino casa. Quando gli dicevano «ma guardalo, non scatta mai a Armstrong» io pensavo sempre «Ivan, non preoccuparti, sei l’unico che riesce a stargli dietro a quello lì, lasciali stare: soffriamo insieme! Tu là sul Tourmalet, io qui in poltrona davanti alla tv!».

Ecco, Ivan, io volevo essere tuo amico. Però tu avresti dovuto collaborare, mica così.

No, non parlo di emotrasfusione. Di operazioni Porto, o dottori miei omonimi (eh sì, Fontana è l’aggettivo relativo di ‘fonte’). Non parlo di doping, insomma.

Non parlo nemmeno di quella volta che Rocco saltò la scuola per venire da te, invece che uscire con qualche ragazzina del liceo. Tu avevi l’udienza al CONI e dicevi ancora d’essere innocente, però un po’ le cose puzzavano, e allora nessuna squadra ti voleva. Così Rocco, che è uno che corre davvero in bici – mica come me che faccio solo i cavalcavia di cui sopra – era venuto a darti la maglia del suo gruppo sportivo e ti aveva detto «se nessuno ti vuole in squadra, beh io ti ci voglio». E tu sì, avevi sorriso, ma non l’avevi presa quella maglia (30° secondo nel video) da quel ragazzino diciottene con in mano il casco del motorino, e lo zaino pieno di libri inutili, quel giorno. Ti aveva detto io-ti-voglio-con-me-in-squadra, e aveva saltato la scuola per te: non ti costava nulla; ma vabbè, eri nervoso, teso, i giornalisti ti stavano per assaltare, te l’avrei perdonato.

augurisantiagoyr8.jpgE ti avrei perdonato pure Santiago. Avrei qualcosa da ridire anche su Domitilla – visto che tu sei il Terribile del ciclismo, lo zar, avrai pensato che un’imperatrice ci stesse bene – ma te l’abbono; però Santiago? Che è un nome da dare a un figlio? A ‘sto punto meglio San Sebastián!

Ma vabbè.

Ora però ti racconto io, quel giorno. Era il Giro del 2006, era la penultima tappa. Dopo il 2005, la rivincita – e il Giro l’avevi vinto: 6 minuti di vantaggio sul secondo, 10 e mezzo sul terzo, che era Gilberto Simoni. Una vecchia gloria, di quelli che ti dicono che ha vinto 2 Giri d’Italia, ma glielo leggi in faccia che vuoldire che n’ha persi almeno cinque o sei. Uno antipatico, molto antipatico. Talmente malsopportato da tutti che finiva per esserti simpatico.

Ed era lì, sull’ultima salita prima dell’arrivo, che – di nuovo – vi ritrovate in due, voi due. Ivan Basso e Gilberto Simoni. Un quadro stupendo, quasi un passaggio di testimone dal vecchio campione al nuovo, sul Mortirolo: c’era scenario più adatto? Lui è lì perché vuole vincere una tappa, tu ne hai già vinte due. E poi ha ancora qualche possibilità di scalzare dalla seconda piazza quel bufalo di Gutiérrez.

Arrivate in cima al Mortirolo, di sicuro Simoni ha fatto fatica a starti dietro, ma ha anche provato a darti una mano. Però in discesa le gerarchie si capovolgono, tu sei sempre stato un po’ scarso. Dici che non vale la pena di correre rischi, ma l’impressione è sempre che sia tu a correrne di più di rischi, anche se vai più piano degli altri. Poco male, i Giri non si vincono in discesa, sarà successo una volta in tutta la storia del ciclismo, fra la mezza di Magni e la mezza di Savoldelli. E poi tu, l’abbiamo detto, l’hai già vinto ‘sto Giro, chi te lo fa fare di correre rischi inutili per nulla? T’ha già fregato l’anno scorso, la sfortuna, vedi mai che anche stavolta… vai piano Ivan.

Però con te c’è Gilberto Simoni, e lui mica è uno scarso in discesa. Anzi, è uno bello forte. Poi lui sì che ha poco da perdere. Di podî ne ha già fatti sei al Giro d’Italia, questo sarebbe il settimo: lui vuole vincere la tappa. Avrai pensato “se le curve me le traccia lui non rischio tanto, e insieme poi si va meglio anche in pianura”, così gli hai detto «dài, facciamola insieme la discesa» che vuoldire «aspettami» che a sua volta, lo sai, vuoldire «andiamo insieme all’arrivo, e ti lascio vincere», come faceva Indurain. È logico. Sono queste, le bellissime regole non scritte della bici.

Però c’è un problema. Cioè un problema, una cosa bella, che in questo contesto diventa un po’ un problema: proprio ieri è nato tuo figlio, l’hai chiamato con un nome discutibile, ma in fondo sei un campione, te lo puoi permettere: per i compagni di classe sarà il-figlio-del-ciclista non quello-col-nome-strano. Ti sei portato la sua foto a spasso per 212 km, chissà dove, magari nelle mutande ché altrimenti ti scivolava via. Te la sei portata perché vuoi dedicargli una vittoria, e oggi ti senti bene. Già il più forte lo sei sempre, figurati oggi che c’è da festeggiare Santiago.

E cavolo, però hai promesso a quel Simoni, quello lì antipatico. Cioè, non proprio promesso, gli hai chiesto di aspettarti, di non provare a staccarti, di collaborare, che è un po’ la stessa cosa. Allora ti viene il colpo di genio. Sei un campione mica per nulla, mica hai solo le gambe, hai anche una gran testa e l’hai dimostrato altre volte. Così gli dici «senti Gilberto, c’è questa questione» lui intanto sbuffa, appena è finita la salita ha cominciato ad arrancare «mio figlio è nato proprio oggi, ci terrei tanto a vincere. Lo sai, è una cosa per tutta la mia famiglia, anche mia moglie, t’immagini quanto sarebbe contenta?». Lui, che non è mai stato uno simpatico – ma forse anche perché non ce la fa articolare tanto altro mentre pedala, stanco com’è, così evidentemente più di te – ti risponde soltanto «eh? e allora?», ma tu lo rassicuri «nono, Gilberto, non ti preoccupare, me lo ricordo che t’ho chiesto di aspettarmi, non lo farei mai…».

Sisì, lo so che lo sapete che; ma aspettate un attimo, seguite il racconto.

IB: «Senti, Gilberto, facciamo così, prendi ‘sta foto»
….
IB: «anzi, forse è meglio che te la metta io nella tasca qui dietro ché mi sa che non ce la fai neanche a staccare le mani dal manubrio»
GS: «uff, uff, sì?»
IB: «Qua, Gibo, te l’ho messa lì dietro accanto alla borraccia»
IB: «Ecco, ti dicevo, ora si va assieme, tu stammi dietro, ché sei piccoletto, e vedi che te lo copro io il vento, quasi come hai fatto tu in discesa. Così magari riesci pure a prendere qualche secondo a quello spagnolo dopato»
GS: «cavolo *pant* sì, *pant* Basso»
IB: «poi al traguardo mi fai questo favore, tagli tu per primo il traguardo, ma invece che come normale a braccia alzate, prendi la foto – ti ricordi, te l’ho messa lì dietro? – è quella di mio figlio, sì, prendi ‘sta foto e la alzi in aria, la fai vedere a tutti. Magari non gli fai vedere che sei così stanco, gli fai un gran bel sorriso, e io arrivo subito dietro di te…»
GS: «accidenti, sì, Ivan, certo che lo faccio, grazie»
IB: «ma no, figurati: anzi, se gliela dedichi tu è perfino più bello, pensa quando rivedrà il filmato da grande e saprà che papà era il più sportivo di tutti, e aveva tanti amici, perfino quel Gilberto Simoni che – te lo confesserò – non è che tu stia simpaticissimo a tutti, lo sai eh Gibo».
GS: «Umpf»

Telecronista: «Una bellissima pagina di ciclismo quest’oggi, sul traguardo dell’Aprica è Gilberto Simoni a tagliare il traguardo ghermendo (Bulbarelli potrebbe tranquillamente dirlo, NDR) la foto del neonato figlioletto di Ivan Basso, secondo quest’oggi dietro di lui, e Maglia Rosa di questo Giro d’Italia. La dedica di questa grande e bellissima vittoria va a Santiago Basso».

La storia racconta come finì la corsa. Invece.
Superata la discesa, dopo pochi chilometri di pianura, con una facilità disarmante Basso stacca Gilberto Simoni, che a fine gara e nei giorni seguenti gliene dirà di tutti e troppi colori.

Caro Ivan, quel giorno per me hai perso.

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Sabato 27 settembre / bonus

Yalla Paolo! – Diario dalla Palestina 68

Oggi ho riinforcato la bicicletta per la prima volta dopo l’incidente, in realtà non sono ancora in condizioni perfette, ma dovevo assolvere a un rito: due anni fa ero andato a Salisburgo, ed era stata una festa. L’anno scorso – dopo tanto chiacchierare – non c’ero andato, a Stoccarda, e per espiare la colpa avevo fatto un giro dell’isolato, improvvisando un circuito. Era stata un’altra festa.

Stavolta che era anche più vicino, in Italia, non ci sono io.
C’ho riprovato insomma: le salite le ho fatte a piedi, perché il ginocchio non posso ancora sforzarlo, ma il circuito è stato completato. Che sia di buon auspicio.

Un fioretto? Vai, va bene: se domani Bettini fa il tris porto un regalo da Betlemme a chiunque scriva “Triride” qui sotto (prima dell’arrivo).

Ah, per chi non lo sapesse il ciclismo sarebbe lo sport più romantico del mondo.

EDIT: qui trovate un’ottima guida per capirci qualcosa.

A 52 denti

Ero in giro in bici sulla Tiberina, e mi sorpassano a doppia velocità due corridori della Ceramica Flaminia – la squadra del neocampione italiano Simeoni. Faccio uno scatto per andarli a prendere, e mi metto alla ruota dei due.

Loro rallentano sensibilmente, per farmi stare a ruota; si mettono ad andare a un ritmo che per loro è da crociera, ma per me – ovviamente – è indiavolato. Facciamo diversi chilometri così, senza scambiarci una parola, loro per non umiliarmi, io perché non ho il fiato per parlare.

Soltanto quando proprio non ce la faccio più, e sentono la mia moltiplica che scala dal 52 al 39, uno dei due si volta – forse era Angeloni – come a chiedere «scusaci…», io gli sorrido come a rispondere «avete già fatto tanto». Riprendono il loro incedere, e dopo qualche centinaio di metri spariscono dietro una curva.

Penso che in qualsiasi altro sport quello scatto per andarli a riprendere sarebbe stato preso come un affronto.

Impara la storia

Oggi c’è stata la prima tappa vera. Ha vinto Bosisio. Di Luca, Piepoli, Riccò e Contador hanno guadagnato un minuto: ma tutto questo non conta.

Quello che conta è che quest’uomo qui è un grande:

di-spalla.JPGQuesto qui, proprio qui accanto, di spalla, oggi non ha vinto. Non è andato in fuga. Non ha fatto uno scatto. Non ha neanche forato né è caduto-e-ha-continuato-pervicacemente, le solite cose che piacciono tanto a noi sadici amanti del ciclismo, e masochisti amanti della fatica dell’andare in bicicletta.

Anzi, si è staccato. Anzi ancora, si è staccato più di una volta.

A dire la verità, oggi, Bettini non ha fatto neanche il capitano. Oggi, come qui accanto, ha fatto da spalla: ed è questo il punto. Per voi non sadomasochisti quella maglia lì, quella così semplice e così bella, quella così bianca eppure così colorata, è la maglia di campione del mondo. La vinci a settembre/ottobre, e la tieni tutto l’anno: è un po’ come l’iPhone o un link del Guardian per i blogger. Ce l’hai, è indiscutibile, sei arrivato primo e sei il più forte (anche se poi non sei il più forte – già negli scritti altrui). Tutti ti invidiano, e per quel periodo vali di più. Bettini non avrebbe bisogno di valere di più per valere di più, ma sta il fatto che ha vinto due volte il mondiale, una di quelle cose che riescono a pochi; ne avrei voluto scrivere, avevo iniziato a farlo quando ancora n’aveva vinto uno solo, poi ho smesso, chissà se un giorno…

Insomma, lui con questa maglia sul dorso è stato tutta la giornata davanti Visconti, che per una bella fuga è andato con astuzia e perizia e anche con un poco di furbizia (cit.) in maglia rosa. Tutti dicevano che oggi l’avrebbe persa, le prime salite vere (leggasi più lunghe di 5 km) Visconti non è uno che tiene. E infatti non ha tenuto, però ha tenuto la maglia. Invece di dieci minuti, ne ha persi due. E questo è – anche, in gran parte – merito del gregario Paolo Bettini.

A me Visconti sta simpatico, ha l’età mia (sono almeno un paio d’anni che ho deciso che non farò il calciatore, né il ciclista, né l’astronauta, quindi metto da parte l’invidia), è siciliano ed è andato a vivere in Toscana (la perfetta trafila dei poeti), dove ho passato parte della mia infanzia, fra l’altro: dicono che sia l’erede di Bettini, le caratteristiche ci sono, di chilometri e successi da battere ce ne sono tanti anch’essi. E poi è simpatico lui: l’urlo liberatorio che ha lanciato ieri quando Di Stefano gli ha detto che la maglia rosa era proprio sua, è il più bello spot per il ciclismo. Per la genuinità.

Oggi nella conferenza stampa ha encomiato il bicampione del mondo e ha spiegato che oltre alle gambe, alla fatica alla forza, gli è servita anche tutta la saggezza del suo capitano: la testa. Quella che spesso si dice che Bettini non abbia (salvo poi dare spettacolo nella peggiore ipotesi, far saltare il banco nelle altre). Non andare ora, aspetta. Dài, su ora. Forza.

Visconti ha aggiunto anche che il suo sogno – domani o poi – è «lanciarlo in una tappa, ma così lanciato, in modo che i giornalisti scrivano ‘l’ha fatto vincere Visconti’». Domani, effettivamente, potrebbe essere la tappa per Bettini che solitamente è sfortunato, e ultimamente più che solitamente: quindi domani più che sempre “forza Paolo Bettini!”.

Ah, Bettini è arrivato al traguardo con una trentina di secondi di ritardo su Visconti, perché alla fine – stremato dopo aver completato il lavoro da gregario – si è staccato. Gli hanno fatto chiesto del suo lavoro: «Che c’è? C’era Giovanni in maglia rosa, no?»

Altre parole? Quelle scritte su questo muro:

storia.JPG

Amstel Gold Race

Damiano cunego Amstel gold raceOggi ha vinto Cunego, confermando di essere un corridore da classiche. Dopo la Sanremo vinta da Cancellara, Il Fiandre a Devolder, e la Roubaix a Boonen, arriva la prima vittoria italiana in una delle classiche principe. Al di là della ridicola compilazione del calendario pro-tour (no, non vi sbagliate: mancano il Tùr e la Rubé, cioè il massimo, per dirne due) di quest’anno, è la corsa che conta meno fra queste.

Mettiamo un po’ d’ordine per i non addetti: prima dell’inizio dei Grandi Giri le classiche vanno a colpi di tre. Si inizia con la Parigi-Nizza (vale 7,25) e la Tirreno-Adriatica (vale 7), che in realtà non sono classiche ma brevi corse in linea: però sono utilizzate da tutti per preparare la Milano-Sanremo (in linea, vale 9). Poi ci si sposta al nord, anche qui due terzetti fra Francia, Belgio e Olanda, che sembra uno spazio enorme, e invece è un fazzoletto di terra per sei corse importantissime. Prima sul pavé, Giro delle Fiandre (vale 9,5) e a una settimana la Parigi-Roubaix (vale 10). In mezzo la Gand/Gent-Wevelgem (se sbagliate sempre la v e la w, non siete gli unici. Vale 6,75) che è una piccola Rubé. Quella settimana, da quelle parti, è chiamata la Settimana Santa, vedete un po’ voi. Poi ci si toglie da quelle stradine sterrate, e si va in alto: troppo spesso in alto. Tre classiche ondulatissime che sono storicamente – e anche ultimamente – amate dagli italiani. Si inizia con l’Amstel Gold Race (vale 7,75). E qui siamo. Dopo una settimana c’è la Liegi-Bastogne-Liegi (9,5). In mezzo la Freccia Vallone (vale 8,25): quest’ultimo voto potrebbe essere disputato, ed è dovuto a una mio amore per il Muro di Huy, irta erta finale. Ultimamente questioni diplomatiche ed economiche dànno l’Amstel in crescita e la Freccia in calo.
Il resto è preparazione ai grandi giri, Giro d’Italia (vale 8), poi Tour de France (vale 10) e Vuelta a España (vale 7,75). Ci sono poi il Mondiale (fuori categoria, per tante ragioni alcune delle quali spiegate qui da Marco Beccaria – da sempre negli scritti altrui), e il Giro di Lombardia (voto 8,5). Ce ne sono tante altre, ovviamente, ma meno importanti.

Insomma se dovete rammaricarvi di esservi persi tre corse, i nomi sono questi:

Se invece non volete rammaricarvi la prossima volta, la prima occasione che avete è domenica – c’è:

Se poi, volete proprio dare retta ai miei capricci, mercoledì pomeriggio tutti davanti alla tivvù, non solo perché dietro non si vede nulla ma anche perché intorno alle 5 si arriva (chi ci riesce) su uno dei più bei muri dell’intero parnorama ciclistico – visto che c’è:

Buona visione, o come direbbe Galliani: «buon lavoro».

P.s. i voti che ho dato alle corse sono puramente indicativi, e sono un misto di blasone/storia/soldicheggirano/mie opinioni. Ah, ovviamente non si possono paragonare i voti delle corse in linea con quelli delle grandi corse a tappe: queste ultime sono, comunque, 21 giorni di corsa.

Giro delle Fiandre

È come alle rimpatriate con vecchi compagni di classe o quando ti ritrovi con quelli del gruppo con cui hai fatto quella vacanza-studio, molto vacanza e poco studio, in chissà quale paese anglofono, o – immagino – fra ex-commilitoni.

Ti ritrovi, una volta ogni tanto tempo, e stai lì a raccontarti tutte le cose che sono successe. E che tu già sai, e che tu già sai che loro sanno. E perfino, specie le volte successive, che sai già che loro sanno che tu sai. E allora ti ricordi quello che fece Beppe, e quello che fece Valeria, e quando insieme abbiamo fatto quello scherzo, dài che fico, ti ricordi? E quello scemo invece? quello che prendevano in giro tutti, ti confesso che a me – in fondo – è sempre stato simpatico…

Sì che mi ricordo. Perché me l’hai raccontato ciascuna delle altre quattro o cinque volte che ci siamo riuniti, e io ti ho risposto «sì, sì davvero…e invece ti ricordi..» ricominciando a narrarti le gesta di Matteo, che ho rivisto – a proposito lo sai che l’ho rivisto (sì che lo sai, te l’ho già detto l’ultima volta). Accidenti quanto era cambiato.
E ti senti in un mondo molto esclusivo.

Ecco, il ciclismo è così: ci sono quei commentatori, che non si sopportano mai, e a cui si trovano tutti gli errori del mondo, e poi ne arrivano altri e dici “ah, com’erano meglio i passati”.
E con loro hai il rapporto dei vecchi amici, iniziano a raccontarti ogni anno le stesse cose, e tu le apprezzi. Le sai già, ovviamente, tutti gli appassionati di ciclismo sanno che «ah, il Muro del Grammont.. se lo dici ai fiamminghi… si chiama Geraardsbergen… anzi, ti dicono che non sanno dov’è, se gli dici il Grammont». Lo sai benissimo, però ogni volta che lo senti dire ti senti confermato nelle tue sicurezze, parte di un mondo, un mondo molto esclusivo: come il mondo di quelli che sanno di quella volta che Carlo si arrampicò su una finestra del college per entrare nella camera della ragazza, e sbaglio camera.

Poi ti ricordi di quando te l’ha spiegato qualcuno, perché qualcuno te lo deve spiegare, te lo sei segnato con cura, e ti sei sentito ammesso al circolo. È lo sport più romantico del mondo, non può essere che un po’ conservatore, e un po’ aristocratico.

devolder.jpg

Ah, il Fiandre l’ha vinto Stijn Devolder, uno che sta sempre per. L’anno scorso stava per vincere addirittura la Vuelta, poi crollò. Stavolta ha fatto il gregario, ha rincorso, è andato in fuga. Insomma ha fatto tutto, gli mancava di vincere. Quelli dietro si rialzano, non c’è accordo, è fatta. Il distacco aumentava. Poi proprio quando sembrava ovvio che stesse per vincere parte Flecha e dietro Nuyens, si riportano a 9 secondi. È cotto, ha troppi km nelle gambe, l’hanno ripreso. Invece, inspiegabilmente, il distacco ha ricominciato ad aumentare e proprio quanto stava per vincere – per una volta – ha vinto.

In fuga con Walter

Come ho già detto, penso che quando Marco Beccaria parla di ciclismo valga sempre la lettura.
Ovviamente, io sono sempre stato un chiappucciano, ho il video di quella tappa e ogni tanto lo riguardo.
Da bambino era l’unico che mi faceva entusiasmare, ricordo che a una Firenze-Pistoia (Crono) riuscii a orecchiare il suo contatto. Ero andato lì per farmi fare l’autografo, e lui stava dettando il suo nuovo numero di telefono all’agente. Dovendo scegliere in un attimo se avere il numero di telefono o l’autografo di Chiappucci – con l’incoscienza infallibile dei 6 anni – optai per il primo (non potevo appuntarmi il numero di telefono sul foglio che mi ero preparato per l’autografo e poi sottoporglielo).

Proprio perché, al contrario di Beccaria, credo che l’illogica logica del ciclismo sia proprio questa, e la bellezza sia nel quando (già dopo un po’ meno) salta il banco… io sto ancora con quelli che ti fanno entusiasmare come un bambino: sia gli originali, sia le brutte copie, ma che almeno sanno cosa copiare.

Ovviamente non ebbi mai il coraggio di telefonargli.

marteDIcorsa 4 – Piuttosto perdo anch’io

marteDIcorsa
Volevo spiegare a degli amici che il ciclismo è lo sport più romantico che c’è, e allora ho provato a scrivere. E scrivere ciò che raccontavo scrivendo. Così, ogni martedì, per un mese. Io, per me, mi sono convinto. Anche troppo, a rileggere il tono troppo denso?

Piuttosto perdo anch’io…

Fu a Ouagadougou – l’unica capitale al mondo con due dittonghi e un trittongo – che Coppi contrasse la malaria. Si dice che ci fosse andato per racimolare qualche spicciolo a fine carriera, quando ormai non vinceva, quando vinceva Anquetil. Fu proprio lui, Maitre Jacques, ad avere in dotazione l’unica camera con le zanzariere. Aveva anche questi vantaggi essere il migliore della carovana, e il migliore era di certo lui: Jacques Anquetil. Anquetil vinceva. Anquetil stravinceva, e il pubblico amava Poulidor.
In Francia Raymond Poulidor è quasi un modo di dire: era la manifestazione che più si approssimava alla perfezione dell’eterno secondo, chiamato da tutti Poupou aveva un talento innato nell’essere battuto, fenomeno nel conquistare la seconda piazza, e – a onor del vero – bravissimo anche ad arrivare terzo. Riuscì a conquistare otto podi al Tour de France, mentre il suo rivale, primo nella storia, ne vinceva cinque. Ci riuscì senza mai vincerlo, e, cosa straordinaria per un corridore con tutti quei piazzamenti e una carriera lunga diciott’anni, senza mai indossare la maglia gialla, neanche un giorno.
C’era un altro modo di dire, però, fra i commentatori sportivi della Francia degli anni ’60: era una parola che definiva quel fenomeno apparentemente inspiegabile: le strade davano ragione a Anquetil, ma era sempre Poupou a trionfare. In una parola sola era la sua Poupoularité. Continue reading “marteDIcorsa 4 – Piuttosto perdo anch’io”

marteDIcorsa 3 – coppiebbàrtali

marteDIcorsa
Volevo spiegare a degli amici che il ciclismo è lo sport più romantico che c’è, e allora ho provato a scrivere. E scrivere ciò che raccontavo scrivendo. Così, ogni martedì, per un mese. Io, per me, mi sono convinto. Anche troppo, a rileggere il tono troppo denso?


coppiebbàrtali

E vai, al cine vacci tu!
Diamine, c’è Bartali che sta passando, e tu mi dici che c’è da andare al cinematografo? Non se ne parla neanche, io scalo ‘sta montagna a piedi, così mi vedo il Ginettaccio, di là che sale, e chissà chi avrà fatto più fatica, se io o lui.
Questa qui, parola più parola meno, è di Paolo Conte e si chiama “Bartali”: quello con il naso triste da italiano allegro. Oh, guardate che “quel naso triste da italiano allegro” è un capolavoro che neanche un biografo dell’accademia dei biografi…
Coppi invece ha la faccia triste, in effetti è triste. Ha quell’aria intellettuale, e infatti piace agli intellettuali. Alla sinistra. Vota comunista ma non lo dice, che è la peggio direbbe un democristiano. Uno tipo Bartali, che dedica ogni vittoria alla Madonna, che va in chiesa nei giorni comandati, che è preso a icona dal papa – Pacelli – il quale arriverà a esecrare pubblicamente l’altro, Coppi, quel laico senza fede, con quella faccia disincantata e chiusa in sé stessa che par sempre contemplare chissà cosa. Un mezzo ligure mezzo piemontese, serio, compito, e fin troppo austero, di fronte a quel guascone, sanguigno del Gino Bartali che lo capiresti da lontano dieci miglia che è un toscanaccio con la “c” impastata e la parolaccia facile. Continue reading “marteDIcorsa 3 – coppiebbàrtali”