La pace ai check point

È assurdo, ma in questi giorni i soldati ai check point sono più gentili. Certo, ai tuoi occhi – che sei occidentale – vogliono sembrare buoni. No, di solito se ne fregano. Tornavo a casa, una soldatessa mi ha chiesto da dove venissi, e io le ho detto che ero stato a cena a Gerusalemme. Lei mi ha chiesto dove, e io mi sono inventato un posto. Meno dici e meglio è. Però lei ha commentato come si mangia in quel posto, e io mi sono inventato che non avevo mangiato bene. Iniziavo a capire che voleva essere cordiale: che è quello che ci vorrebbe sempre perché i palestinesi non abbiano solo quell’immagine feroce e al tempo stesso indifferente dell’esercito. Però quando mi ha chiesto con chi: io le ho detto «amici», che è la tipica cosa che si dice per non dire «fatti miei». Ed è questa la brutalità dell’occupazione, dei check point: che fa diventare i rapporti umani un riflesso condizionato. Poi mi sono reso conto che me l’aveva chiesto in modo amichevole, allora ho aggiunto «amici israeliani: hai visto, abbiamo fatto la pace?». Perché dal fatto che stessi rientrando a Betlemme di sera era ovvio che vivessi lì, e da questo era conseguente che fossi un volontario che, nelle barbare semplificazioni imposte da questi schieramenti, sta-dalla-parte-dei-palestinesi. E io le ho detto «Laila Tov», buonanotte, che è una delle poche cose che so in ebraico, e lei mi ha risposto «Leile Said», buonanotte, che è – forse – una delle poche cose che sa in arabo.

(Unità, oggi)

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