Prima le donne

Prima le donne – Diario della Palestina 184

C’è una cosa rabbiosa che mi porto dentro da un po’, e che non scrivo. Metà è perché voglio renderla il meno possibile uno sfogo e ci provo ora, e metà è perché ho paura della voracità con cui potrebbe essere recepita e strumentalizzata da chi riveste i soprusi israeliani con la solita, verissima ma insufficiente, affermazione che Israele sia il meno peggio.

Io mi porterò dietro, dalla Palestina, la convinzione feroce che l’emergenza – lì – sia la condizione delle donne, molto più che l’occupazione e il Muro. Di più, anche, delle piccole angherie quotidiane che lo Stato d’Israele impone agli arabi e ai palestinesi, soltanto come farabutto incentivo ad andarsene: in questi mesi ne ho elencate varie, che non hanno nulla, nulla, a che vedere con la sicurezza.

Ma sì, molto di più: perché l’espropriazione della propria persona imposta alle donne in Palestina (e ancora peggio negli altri paesi arabi), la deliberata rimozione d’ogni libertà individuale, la sostanziale verità – da nessuno negata – che il corpo di ogni donna è posseduto dagli uomini della propria famiglia e poi dal marito, l’indecente senso di colpa instillato in ogni bambina e poi ragazza solo per essere nata femmina, è veramente quanto di più atroce ci sia, in Palestina.

Così, ogni volta che sentirò qualcuno usare una parola per lamentare (giustamente) le ore che un uomo palestinese deve aspettare in fila a un check point, ne chiederò almeno cinque volte tante, di parole, per lamentare che una donna palestinese abbia un impedimento alla propria libertà tanto più efferato, e tanto più vicino: come si può protestare perché lui non può muoversi fino a Gerusalemme, senza protestare perché lei non può muovere un passo più in là della porta di casa?

Così, ogni volta che sentirò qualcuno usare una parola per lamentare (giustamente) l’espropriazione e la demolizione delle case dei palestinesi, ne chiedero almeno cinque volte tante, di parole, per lamentare l’impossibilità per una donna palestinese di averne una, di casa, e poterci andare a vivere da sola, pena l’uccisione da parte del padre o di un fratello.

Così, ogni volta che sentirò qualcuno usare una parola per lamentare (giustamente) l’impossibilità di un profugo palestinese di tornare a vivere nel luogo che più gli piace con le persone che ama, ne chiederò almeno cinque volte tante, di parole, per lamentare che una donna palestinese non possa decidere di amare e sposare chi vuole, perché lei non si appartiere – appartiene ai maschi della famiglia.

Così, ogni volta.

Roma

Non c’è dubbio, è la città più bella del mondo: detto da un fiorentino.

Vantaggi del non avere la carta di credito

Almeno questo non mi è potuto succedere:

nel duemilauno ero in Palestina e non mi funzionava la carta di credito ed allora ho telefonato alla mia banca e mi hanno detto non è che non le funziona più la carta di credito, la abbiamo bloccata noi perché ci siamo accorti che c’è qualcuno in Palestina che cerca di utilizzarla.

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Principianti

Ta – Diario della Palestina 183

In Palestina c’è una cosa molto carina: la terza lettera dell’alfabeto, cioè questa: ت, si chiama “ta”, ed è l’iniziale della parola تلميذ, “imparante”. Così, anziché avere una “P”, come in Italia, hanno quella lettera sulle macchine da scuola guida o neopatentate, però in un modo stilizzato che la faccia sembrare un sorriso, tipo emoticon, che quindi conquistano ancora di più la mia bacchettona simpatìa.

ta

In ogni caso gli unici guidatori con cui non stare attenti sono i principianti, perché non hanno ancora imparato a guidare come dei pazzi.

Domenica 8 marzo

Nella cabina – Diario dalla palestina 182

Come avrete notato ho rallentato un po’ i ritmi di pubblicazione, un po’ per sovraimpegno dovuto al cercare di lasciare tutto nel miglior modo possibile per quando non ci sarò più, e un po’ per disaffezione (o di-sperazione, nel senso di perdita di speranza…).

La notizia è che sono tornato, ho talmente tanto materiale ancora da pubblicare che potrei farci un altro Diario: chiamandolo “Diario della Palestina”. Lo metterò di seguito. Intanto il ritorno: si è confermata una teoria che avevo ipotizzato, ovvero che – purtroppo – con la sicurezza israeliana, più sei sgarbato e scocciato e meno tempo perdi. In qualche modo se sei disponibile gli sembra che tu abbia qualcosa da nascondere. Oramai di quei controlli ne ho fatti talmente tanti che potrei sistemizzare questa cosa.

In aereo, viaggiavo con la Windjet, un aereo scarsissimo, in cui proprio non entravo. Non è che stavo scomodo, proprio non entravo al mio posto. Anche in questi casi so che la cosa migliore è lamentarsi con incazzatura, ma quando vedo ‘sti stewart/hostess non mi viene proprio. Allora vado lì, gentilmente, a spiegare tutto, dicendo che lo so che non è colpa loro, ma non c’entro proprio. Loro mi dicono che sì, ma che ci possono fare.

Parlottiamo un po’, alla fine le provano tutte, ma proprio tutte, e all’ultima mi invitano a sedermi nel loro anfratto in fondo all’aereo. Insomma, ho passato tutto il volo a chiacchierare con questi Stewart/hostess catanesi. Gli ho raccontato un po’ di me, mi hanno raccontato un po’ di loro (dice che il colloquio è molto a culo, basta sapere un briciolo d’inglese e ti prendono). Mi hanno spiegato che i piloti di aerei hanno la nomea di essere fascisti, «anche il nostro?» ho chiesto, «ha’ voja». E mentre annunciava all’altoparlante la bella giornata su Roma, gli si faceva il verso “bella giornata su Roma, Città Eterna e Capitale dell’Impero Italiaco…”. Abbiamo sparlato della maleducazione degli israeliani (mi hanno chiesto, come fossi un esperto: ma perché su questo volo sono sempre tutti così stronzi?) e in effetti quando il poliziotto al controllo passaporti mi ha restituito il documento augurandomi «buona giornata!» ho notato subito la differenza. Abbiamo parlato della chiusura dei palestinesi, delle adozioni omosessuali (non erano molto d’accordo), dei (non) diritti delle donne.

Quando andavano a fare il giro per servire qualcosa, mi lasciavano il mio vassoio (che ovviamente non portavano al mio posto) e le riserve di bevande, tè, caffè: «se vuoi qualcosa mentre facciamo il giro, serviti». Lanciandomi poi sulle ginocchia la Gazzetta, che ovviamente non leggevo da mesi.

E Roma è la solita, si diventa cittadini dopo un minuto.

Sabato 7 marzo

Tutte le strade portano a Amor – Diario dalla Palestina 181

Questa è la casa in cui ho abitato per tre di questi lunghi mesi, proprio sopra al portone c’era quella scritta: Amor.
Quando dicevo di sentirmi a casa al contrario di quanto uno si potrebbe immaginare.
Intendevo proprio al contrario
amor

Giovedì 5 marzo

Dialogo fra una donna palestinese e un uomo italiano – Diario dalla Palestina 180

Solo una cosa: venite in Palestina!

Uomo italiano: «come fai a dire che delle persone che si comportano così ti vogliano bene?»
Donna palestinese: «beh, ma loro sono stati educati così»
UI: «Sì, ho capito, ma se tu decidi di andare a vivere da sola tuo fratello ti uccide, non ci rimane male, prende una pistola e t’ammazza. Questo ha a che fare con l’educazione o con il cuore?»
DP: «Ma io non posso volergli male, perché lui è in grado di fare solo questo»
UI: «E non è proprio questa una ragione per non volergli bene?»
DP: «Ma lui, tutti qui, fanno tutto quello che sono in grado di fare»
UI: «Ecco. E quello che sono in grado di fare è sufficiente?»
DP: «Magari anche io, al posto loro, farei così»
UI: «Dici? Buon argomento: e come ti sentiresti?»
DP: «Cioè?»
UI: «Voglio dire: come ti sentiresti? cosa penseresti di te stessa»
DP: «Se mi comportassi come loro?»
UI: «Sì. Lo vedi come sei incredibilmente presuntuosa? come li tratti da animali?»
DP: «Io sono presuntuosa?»
UI: «Se tuo fratello ti chiedesse di andare a Hebron a fare un giro, e tu gli rifiutassi il permesso senza neanche rispondergli, cosa penseresti di te?»
DP: «Che sono una stronza»
UI: «Difatti. E che meriteresti il suo affetto?»
DP: «…no»
UI: «Però tu sì. Tu, dannatamente, gli sconti tutto. Tu gli vuoi bene… anche se non lo merita».
DP: «Non dovrei..?»
UI: «No che non dovresti. Non dovresti trattare gli altri come animali»
DP: «Come animali?»
UI: «Sì, esattamente come animali. È la società a essere colpvole, non loro. Li espropri della responsabilità individuale, e tu – invece – fai la martire (shaeed, stessa parola dei Kamikaze)»
DP: «Io faccio solo quello che mi dice il mio cuore»
UI: «No. No. No. Tu fai quello che ti dice la tua testa, e sei di un’arroganza indicibile: decidi di metterti su un piano morale notevolmente superiore al loro e gli sconti cose che non sconteresti mai a te stessa. Se tu ti comportassi come loro ti riterresti una persone indecente, però visto che lo fanno loro, gli dài tutte le attenuanti. Lo vedi quanto sussiego c’è in questo atteggiamento?»
DP: «Io cerco di perdonarli»
UI: «Sì, ok, ma se tu lo facessi non ti perdoneresti mai. La cosa più altruista che puoi fare è dare agli altri le proprie responsabilità. Tu non sei migliore di loro. O se lo sei, non lo sei in partenza, devi dimostrarlo»
DP: «Migliore? Diversa, non c’è un migliore e peggiore»
UI: «Ah non c’è eh? Però quello che loro ti fanno, non lo accetteresti mai da te stessa. Ti sei imbevuta di questa idea tanto narcisista del martirio, e ti condirei meglio di tutti gli altri. Ma non è così: quello che tu meriti per i tuoi errori e per i tuoi successi, loro lo meritano per i loro.»
DP: «Capisco cosa dici. Lo sai, non pensavo che in Occidente ci fosse qualcuno che la pensa come te»

Io mi son chiesto come sia possibile che una donna palestinese pensi che in Occidente non ci sia qualcuno che la pensi così. È sconvolgente, perché se no in Occidente: la terra della libera volontà e della responsabilità individuale contro quella collettiva, se non lì dove? Come fa a pensare che no?
Ecco, mi son detto, e vi dico: Venite tutti in Palestina. Un’invasione.
Questa donna avrà parlato soltanto con multiculturalisti pensierodebolisti, etc, per cui tutte le culture sono uguali, e non c’è nulla da difendere. I diritti delle donne, l’intangibilità della persona eccetera.
Perché il problema è che viene in Palestina solo chi è acriticamente filopalestinese, e questo ingrossa il problema. Finiamo per dare quell’immagine terribile della libertà di pensiero. Invece bisogna mischiare le carte.

Venite in Palestina.

Fare buchi

Dice che la prima volta che una qualche specie di computer, diciamo elaboratore, fu usato per scopi bellici risale a un aggeggione in mezzo a una stanza del Cairo, dove alcune donne della brigata ebraica punzonavano delle carte: era il piano per l’invasione della Sicilia.