Se ne vogliono, eccome

Il reparto di rianimazione di un ospedale è un luogo, direi propriamente un ecosistema, strano. Dopo tre settimane di frequentazione grosso modo quotidiana posso dire di essermi fatto un’idea.
È strano davvero, perché è il contrario di quello che uno s’aspetterebbe. Si è tutti una famiglia, in uno dei pochi sensi genuini di questo termine. Arriva uno nuovo, diventa parte.

In rianimazione si ride, tanto, tantissimo. Per esorcizzare, per mandare via, la paura, l’attesa, la noia, sopratutto quell’atmosfera lì. Ovviamente la vita di questi branchi, vicini e lontani, è nelle file di sedie appena fuori dal reparto.

Si piange solo il primo giorno. In un modo sguaiato, che può capitare soltanto per un lutto (o per amore). Un modo senza pudore, senza dominio. Soprattutto trascurando completamente quello che pensano tutti gli altri. Una persona entra lì dentro per uscirne chissà quando, e chissà se viva. Chiunque l’accompagna, la prima volta, è in lacrime. Come non si vedono da nessun’altra parte, tutti gli altri – che conoscono la rianimazione – guardano, non fanno finta di niente. Chi è questo nuovo “compagno”? Non c’è censura sociale, se non fossero drammatiche quelle urla e quei pianti sarebbero molto belle.

Poi iniziano il secondo giorno, e il terzo, e il quarto. Sempre alla stessa ora, l’orario di visita. Che incomincia sempre un po’ più tardi dell’orario ufficiale – perché gli infermieri hanno sempre qualcosa da fare – ma finisce sempre molto più tardi dell’orario ufficiale – perché gli infermieri sono esseri umani. E possono entrare poche persone alla volta, così tutti gli altri stano fuori e chaicchierano. Spesso ridono, tante volte ridono. Ti colpisce, è un po’ meno bello, perché sono sorriso di plastica, e si vede. Ma è tanto più umano.

E quelli che il giorno prima avevi intravisto, dagli angoli dei tuoi occhi pieni di lacrime, diventano come incidentali compagni di viaggio. C’è quella cosa che dà tanto sollievo, nel raccontarsi del come-è-successo: che è diverso da ogni altro posto. Non c’è quel peso di spiegarlo, quel peso di non cercare di far sentire un peso – ulteriore – alle persone che ti chiedono: «come mai sei qui?» o «vai in ospedale? Perché».
Fra la gente di quel gruppo non c’è bisogno di spiegarselo: tutti sanno perché sei lì.

E c’è tanta umanità, non solo nell’infermiere napoletano che ti dice «piccirullo, sctai tranquillo, chianu chianu tutto va a posto», ma nel discutere di politica, di calcio, di economia e dei presunti complotti della politica, del calcio, dell’economia. Perché bisogna anche respirare.

Poi, ogni tanto, uno ce la fa. Si saluta, e tutti sono sinceramente contenti che quell’altro, di cui seguivano i minimi progressi («oggi ha respirato autonomamente per 5 minuti!» «accidenti, bene!») ogni volta che si presentavano o un persona emotivamente condizionata li vagheggiava, ce l’abbia fatta. Gli si augura una buona vita, e tanto tanto bene, in un modo onesto e innocente, anche se non li si rivedrà più.

Credo che penserò a quei pianti – e a tutto questo – le volte che sentirò dire che «nel mondo c’è tanto odio e nessuno si vuole bene». Accidenti se sì.

*

Patrizia ha lasciato oggi rianimazione, ed è stata trasferita oggi nel reparto di neurologia: è un grande passo avanti. La tac non ha riscontrato danni permanenti, anche se la riabilitazione potrebbe durare anni, ma già questo era inimmaginabile fino a dieci giorni fa. C’è luce.

3 Replies to “Se ne vogliono, eccome”

  1. …chissà perchè ci ricordiamo ciò che siamo veramente solo quando tocchiamo a mani nude il dolore. Siamo ospiti temporanei di questa vita durante la quale ci affanniamo come pazzi dietro a migliaia di cose inutili, se solo ce lo ricordassimo più spesso potremmo vivere con più letizia, godendoci ogni istante della nostra esistenza. Spero che Patrizia recuperi al più presto, so che se avrà tanta forza di volontà e tanto amore intorno a sé farà passi da gigante.

  2. “Si piange solo il primo giorno. In un modo sguaiato, che può capitare soltanto per un lutto (o PER AMORE). Un modo senza pudore, senza dominio. Soprattutto trascurando completamente quello che pensano tutti gli altri. Una persona entra lì dentro per uscirne chissà quando, e chissà se viva. Chiunque l’accompagna, la prima volta, è in lacrime. Come non si vedono da nessun’altra parte, tutti gli altri – che conoscono la rianimazione – guardano, non fanno finta di niente. Chi è questo nuovo “compagno”? Non c’è censura sociale, se non fossero drammatiche quelle urla e quei pianti sarebbero molto belle.”

    Nonostante non avesse niente a che fare con l’argomento, quella parentesi è bellissima.
    Come tutto il paragrafo.

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