Frutto di farabutti

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È esplosa una bomba a Gerusalemme, fra l’altro in un posto dove passavo spesso quand’ero lì. Il titolo di Repubblica “frutto della tensione a Gaza” è riprovevole. Tratta i palestinesi – tutti, fra l’altro, senza distinzione – come una colonia batterica, senza una responsabilità personale.

Non tutti gli attentati sono uguali, per quanto emotivamente ci verrebbe da pensarlo. E questo qui è fra quelli più disgustosi, che non hanno nessuna giustificazione – altro che figlio della tensione a Gaza. È fra i peggiori per l’obiettivo che ha – massacrare il maggior numero di esseri umani – che qualifica chi l’ha fatto, chi l’ha pianificato, e anche chi lo giustifica, come un farabutto. È la differenza fra l’adottare una strategia sanguinosa e controversa, e fare di quel sangue il proprio fine ultimo.

Qualche giorno fa ho fatto un post in cui commentavo la reazione del governo israeliano all’accoltellamento di una famiglia di coloni: quello che segue doveva essere un corollario a quelle considerazioni. In quello scritto criticavo le politiche d’Israele, ma gli riconoscevo questo: niente di tutte le, anche sanguinose, iniziative che Israele prende ha questa faccia. Quella del festeggiare le morti innocenti anziché piangerle.

È proprio per questo, però, che dobbiamo riconoscere che non tutti gli attentati sono uguali, come invece mi sembra di leggere in tutti gli articoli che ora citano il precedente di Itamar. Accoltellare una famiglia di coloni è un atto violento, sanguinoso, ma non è la stessa cosa di un attentato a una fermata dell’autobus affollata di vecchini che vanno al supermercato e bambini che vanno a scuola. Certo, l’attentato di Itamar includeva l’uccisione di due bambini, e le colpe dei genitori – quelle persone non sono innocenti – non devono ricadere su quelle dei figli. Ma proviamo un momento a non considerare questo fatto.

È sempre così difficile, così scivoloso, provare ad analizzare tutte le sfumature di una questione, e fare anche le distinzioni più piccole: ma bisogna provare a farlo. Come disse qualcuno, il problema del conflitto arabo-israeliano è che comprende troppa storia e troppa poca geografia. E, perciò, ogni pezzo di terra costruito dai coloni è un pezzo di terra in meno per i palestinesi. Ogni persona che ne fa un baluardo, è un ostacolo – un nemico – di uno Stato palestinese, e della pace. Il fatto che dei coloni vivano a Itamar – un insediamento nel cuore della Palestina, lontano chilometri e chilometri dal confine Israeliano – è una dichiarazione di guerra. Possiamo girarci attorno in mille modi, ma non c’è altro modo per chiamarla. Non ha la violenza di un accoltellamento, ma è un comportamento possibile solo ed esclusivamente grazie ai mitra e alla forza bruta di decine e decine di soldati che stazionano intorno a quella colonia.

Per un palestinese, l’unica alternativa all’impugnare un coltello è la più inane non-violenza, senza alcuna speranza di cambiamento. E non lo dico nel senso di quella detrazione di responsabilità che anima l’infelice titolo di Repubblica, ma esattamente al contrario: la responsabilità ce l’ha quel colono, e ce l’ha la persona che decide di usargli contro la violenza. Niente di tutto ciò è inevitabile, è il risultato di specifiche scelte, che vanno considerate come tali. Esiste una posizione perfettamente speculare al pacifista senza-se-e-senza-ma che garrisce l’immagine del Che mentre lustra il proprio fucile, ed è quella di chi pacifista non è ma esige che lo siano coloro che non gli stanno simpatici.

Ho messo tante premesse e tanti incisi in questo discorso, magari mi date dei buoni argomenti per cambiare idea: ne sarei contento. Per ora, non sono lontano dal pensare quello che diversi israeliani – anche fra i più pacifici che ho incontrato – mi hanno detto: «quei pazzi di Hebron? Se li ammazzano se la sono cercata». Per ora quello che penso è che bisogna riconoscere che c’è una differenza fra fiori e molotov (l’immagine è di Banksy, ed è su un muro a una manciata di chilometri dal luogo dell’attentato di oggi); ma ce n’è una anche fra chi li riceve, quei fiori o quella molotov.

E penso che solo tenendo a mente queste cose si può – davvero, e nel modo più pieno – avere rabbia e spregio per l’effigie del Male che è la bomba – messa lì per colpire tutti, per colpirne il più possibile – che è esplosa oggi sullo Sderot Shazar.