Non voglio abituare i miei occhi – Diario dalla Palestina 2
Ahmed deve piegare la federa prima di infilarci il cuscino. Far toccare i buchi dai quali uscirà l’acqua a Ahmed, quando gli si fa la doccia. Bisogna sempre accendere la luce prima che Ahmed entri in una stanza. Esistono anche i disabili in Palestina, anche se ci sono problemi più importanti. Ed esistono tante persone che se ne prendono cura, tanti stranieri. Non si direbbe, mi son detto: ma poi perché?
In ogni caso è commovente quella affettuosa e cieca perizia con la quale chi si occupa di Ahmed e gli altri prova a costruire la propria, unilaterale, road-map. Magari un giorno Ahmed s’è rifiutato di fare la doccia, la volta dopo l’hanno convinto, però poi al primo zampillo d’acqua s’è messo a urlare e a scalciare. La volta dopo ancora, dopo chissà quante settimane, gli avranno fatto impugnare la doccia, e lui si è ricominciato a fidare… Ora ci sono cartelli per tutte le stanze perché chi lavora lì sappia quali sono le conquiste di quella strada per la pace, stando attenti a restare nei gangheri ben segnati da Ahmed e dalla squisita instancabile pazienza di chi si prende cura di lui.
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E si capiscono piano piano le cose che si devono fare e non si devono fare qui in Palestina: ho imparato che nei taxi collettivi (qui sono i servìs) i soldi si porgono al membro del proprio sesso che siede nella fila davanti, che li passerà al conducente – gli uomini agli uomini, le donne alle donne. Anche se a me sono permesse molte cose: in fondo non sono né un uomo né una donna – sono uno straniero!
Fra queste molte cose, non è incluso accavallare le gambe: «non sei mica al ristorante!» mi ha detto un custode della Chiesa della Natività dove siamo andati in visita con i bimbi. Pare che qui sia considerato un brutto gesto, in qualche maniera è quel concetto molto cristiano della scomodità. Stando comodi in chiesa si è più lontani dalla sofferenza del signore? È un peccato la retorica del dolore, del sacrificio e del cilicio perché per altri verso il cristianesimo potrebbe essere una religione molto godereccia.
In ogni caso mi ha fatto piacere che quel signore abbia completamente trascurato il fatto che nella-mia-cultura accavallare le gambe non abbia nulla di offensivo. C’è il forte rischio del la-mia-cultura la-tua-cultura qui. C’è quel rischio di abituarsi al male, al meno peggio, alle storture, perché sono ovunque e in chiunque, perché in fondo è anche più comodo – specie per le coscienze – fare così.
E allora bisogna sforzarsi di non essere razzisti, di non mettersi su di un piano morale diverso e superiore agli altri: non bisogna abituarsi al manifesti ai martiri, non bisogna abituarsi alle donne velate, ai murales di ragazzini che lanciano molotov, alle cartine senza Israele, alle foto celebrative per Saddam Hussein. Bisogna dirsi (e quando si è sicuri che non è controproducente, dire) che è sbagliato.
Lo sciagurato giorno in cui si inizi a stare dalla parte della cultura-non-tua invece che da quella della moglie picchiata dal marito è il giorno in cui si è guadagnata la boria del sentirsi proprietari (in quanto occidentali) di alcune belle idee che sono invece di tutti. È il giorno in cui si è introiettato il più reazionario dei concetti: quello della responsabilità collettiva. È il giorno in cui si è persa la fiducia nelle persone in genere, e quindi in ciascuna.
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Di incantata fiducia ne ho tanta per Ilham, Tina, Lana, Marina, Haida, le due Rimm, Nasri, Mohamad, Rowan, Said e Nikola, che ho conosciuto in questi due giorni. Che frase scontata, vero? Io, soltanto leggendomi, l’avrei pensato, e spero che i miei lettori siano meno cinici di me. Eppure basterebbe vedere la bravura di Ahlam o il sorriso di Costantino per averne la meno sdrucciolevole certezza. Poi ci sono io – così terrorizzato dal buonismo che sto scrivendo 5 righe di spiegazioni per una frase di 2 – che non l’avrei scritto se non avessi avuto concrete (e tante emotive) ragioni per pensarlo in profondità.
Sono convinto che saranno bravissimi a capire quelle cose dolorose e difficili quando torneremo, stavolta con loro, a trovare Ahmed e gli altri a Jemima. Ne hanno già parlato, recitato e visto, in modo esemplare. Ne ascolteranno, anche: c’è Rasha, autistica grave, che ci suonerà Mozart come Mozart.
Bel post
Ciao.
E’ sempre meglio fare piuttosto che non fare, e tu hai deciso di fare, secondo una logica che si ricollega a questa frase. Quindi sei degno di ammirazione, anche se certo non la ricerchi..e spero vivamente troverai ciò che stai cercando.
ciao giovanni, ho la certezza che a parte le ricercatezze linguistiche con annesse citazioni erudite retaggio dei tuoi studi, cio’ che finora ho letto sia molto genuino….mi piace il tuo modo di raccontarti ….bravo!!!