Ramadan, episodi 2/3 – Diario dalla Palestina 51
Come ho avuto modo di dire altre volte qui la religione è un fortissimo elemento identitario, vissuto senza dubbi, e come elemento d’appartenenza: non è una questione se credi in Dio (va da sé), né in quale Dio credere (quello di tuo padre). Tuttavia l’osservanza della fede, e dei riti – specie quando questi siano molto limitanti – è campo assai eterogeneo, e ognuno di noi vive delle tante licenze che si concede rispetto alla sua morale (laica o religiosa che sia). Su questo c’era il bellissimo racconto di Pfaal, già negli Scritti-Altrui.
Per i tanti che cercano di dimostrare un’aderenza alla Legge più aderente delle altre aderenze (“c’è sempre uno più puro, che ti epura” diceva Nenni)… ce ne sono tanti che percepiscono l’effetto di credere in una religione perché ci sono nati. E vivere per un periodo qui ha ancora rafforzato la mia inossidabile fede nell’eversiva potenza del desiderio di libertà.
Ecco, la cosa che mi ha più colpito è come il Ramadan sia invece osservato dalla (soprassiedo volutamente sul quasi-) totalità dei mussulmani. Persino il tipico prototipo di inviduo – in tutta la sua accogliente umanità – quello che mangia il maiale e beve, si è dato cinque anni per rinunciare al maiale, e dieci per rinunciare all’alchool, e chissà se dopo aver smesso di bere non ricomincerà a mangiare il maiale; ecco, persino lui osserva il digiuno sacro nel mese di Ramadan.
Così porterò con me quei due o tre episodi che ti fanno abbozzare un sorriso: il primo giorno di Ramadan sono passato per caso davanti a una moschea proprio mentre il Muezzin cantava «Allah Akbar», dall’altro lato del marciapiede un omino che – si vede – stava aspettando questo momento da così tanto tempo, ha preso un barattolo di succo di frutta e s’è messo a berlo più voracemente che di gusto. Grazie alla trasparenza del barattolo ho potuto apprezzare la velocità del trangugiamento: dopo mezzo minuto la starnazzante preghiera non era ancora finita, un litro di barattolo sì.
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