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per Il Post
(dove non l’ha letto nessuno,
e secondo me hanno fatto male)
Quella che segue è solo una storia, ed è una storia che ha due morali. Come tutte le storie, racconta solamente una fotografia e quella sua parte di verità. In più è successa quattro anni fa, e non l’ho mai raccontata per intero, quindi alcuni particolari potrebbero non essere precisi, anche se confido che lo siano. Mi sembra però utile a descrivere un fenomeno che si è mostrato in tutta la chiarezza con quello che è successo a Torino: ovvero il fatto che gli zingari siano l’unico gruppo etnico per il quale il razzismo è, tutto sommato, accettato in società. Un fenomeno di disumanizzazione che non avviene per nessun’altra etnia, o meglio: che quando avviene per altri gruppi incontra – giustamente – una fortissima censura.
Perché ancora più grave della fiaccolata anti zingari, ancora più grave del ginecologo delatore che riferisce ai genitori della verginità della figlia, ancora più grave di questi genitori indecenti ossessionati dalla “purezza” di una ragazza, forse anche più grave dell’idea di giustizia fai-da-te e di responsabilità collettiva, c’è il fatto che una sedicenne, di fronte a una situazione di difficoltà, ha pensato che il miglior bersaglio come capro espiatorio di un’accusa di stupro fossero gli zingari. E, si badi, se anche si desse il caso che fra i rom ci sia un tasso di violenze sessuali maggiore rispetto al resto della popolazione, questo non dovrebbe cambiare nulla, come vorrei che questa storia spiegasse. È una storia che risale al periodo in cui decisi di lavorare al tendone che la Protezione Civile allestisce a Roma ogni inverno per i senza tetto, i barboni. Le persone che ci venivano erano delle più diverse, molti immigrati, tanti con problemi d’alcol, qualcuno non aveva più una casa perché cercava qualcosa e qualcuno non ce l’aveva perché scappava da qualcosa. Fra coloro che scappavano da qualcosa c’era Tanja (ho cambiato il nome).
Tanja era una ragazza di circa sedici anni, “molto bella” come si dice in questi casi, ma in una maniera un po’ particolare, sembrava sia più giovane che più vecchia della sua età. Era nata in Bosnia, ma aveva vissuto in diverse parti d’Italia con la larghissima famiglia, per diverso tempo vicino Milano, parlava un italiano quasi perfetto anche se aveva frequentato la scuola per poco e a singhiozzo. Non si fidava di nessuno. A tredici anni era stata venduta al marito che l’aveva pagata 48mila euro per la sua bellezza e perché era vergine. Se non fosse stata vergine, il suo valore sarebbe stato dimezzato. La questione della verginità, e del sesso, varia molto a seconda delle diverse sottoetnie rom (e sinti): in alcune le donne hanno molta più libertà (sessuale), in altre non ce l’hanno neanche gli uomini.
Tanja, naturalmente, non aveva scelto il marito, né lo amava. Lui la picchiava e la costringeva a rubare (sempre assieme a una compagna più grande che la controllasse) e a drogarsi. Quando lui si faceva d’eroina, lei si chiudeva in bagno per ore, per scamparla. Spesso quando era arrabbiato, oltre a picchiarla, era lui a chiuderla a chiave nella roulotte per giornate intere. Ovviamente era una relazione in cui il confine fra stupro e rapporto consensuale non esiste. Quelle volte che la polizia era arrivata a sgomberare il campo – spesso sgomberava solo parti del campo, su base etnica – aveva battuto con i pugni sulla finestra della roulotte in cui era chiusa, per farsi notare. Qualche volta non l’avevano vista, altre volte l’avevano ignorata. Tutto questo succedeva in Italia.
La prima volta che lei riuscì a scappare la ritrovarono, la sua famiglia allargata aveva occhi ovunque, e le diedero talmente tante botte da quasi romperle la mascella, assieme alla promessa che se l’avesse rifatto l’avrebbero uccisa. Non aveva vie d’uscita: la madre di lei era complice, anzi era stata la stessa madre a venderla al marito. E per qualunque tentativo di fuga c’era la certezza che qualche parente, da qualche parte d’Italia – ma anche d’Europa – la riconoscesse. Lo sperimentammo in prima persona quando si presentò – del tutto casualmente: per avere un posto letto e un piatto caldo – una persona che lei riconobbe come cugino di un suo lontano cugino, uno che avrebbe riferito a suo marito o a suo fratello dove lei fosse. Ce lo venne a dire per tempo, tremando come non ho mai visto una persona tremare, e lo assegnammo a un’altra struttura prima che la vedesse.
Potete immaginare quanto fosse inaccettabile, per me che ero per la prima volta esposto a tali ingiustizie, il perpetuo marchiamento di quella ragazza, l’impossibilità di un qualunque riscatto. L’assistente sociale che lavorava con me, invece, conosceva suo malgrado situazioni simili. Mi spiegò che l’unica speranza era che la ragazza fosse accolta in una struttura permanente e ben custodita per qualche anno, e che nel frattempo si calmassero le acque, ovvero che il marito s’innamorasse di qualche altra povera vittima e dimenticasse il “torto subito” della sua fuga. Il primo passaggio di questo percorso d’espiazione, dell’unica colpa di essere nata in un luogo e in un tempo determinato, lo percorremmo: la trasferimmo in una struttura permanente. Dopodiché non ne ho avuto più notizie, ho cominciato a fare altro, all’estero, e come sia andata a finire non lo so.
Questa storia racconta probabilmente la vicenda più terribile che potreste ascoltare sui rom. È quella che colpisce di più – e infatti è quella che più ricordo, delle tante storie di nomadi che ho sentito in quel frangente o in altri contesti lavorativi –; altre parlano di un ambiente in cui è sempre presente il maschilismo – “rom” in romanì vuol dire uomo, ma anche marito – e una scarsa considerazione dell’infanzia, ma con un’incidenza quasi nulla della violenza e una mentalità non vendicativa. La storia di Tanja è, insomma, quella che sembra più confermare il pregiudizio della sua coetanea torinese.
Ci sono però due cose su cui bisogna riflettere. La prima è che l’unica speranza di Tanja è lo Stato, e la cosa è talmente chiara che perfino lei – cresciuta ed educata nel background più lontano – se ne rende conto. È una speranza parziale, però, perché quello stesso Stato non ha la forza o la volontà di aiutare le tante ragazze come Tanja che non hanno la fortuna di ritrovarsi fuori. È uno Stato che, troppo spesso, ha la faccia di quei poliziotti che si voltano dall’altra parte. Uno Stato che, troppo spesso, adotta quel diverso metro – e quella responsabilità collettiva – che è il primo nemico da combattere: se un torinese fa qualcosa d’illegale prende una multa o va in carcere, se lo fa un rom si provvede a espulsioni o viene sgomberato il campo dove vive (assieme a tanti altri).
La seconda, e più importante, è che Tanja è, lei stessa, una rom. È la prima vittima, molto più di chi subisce un furto d’autoradio, di tutte le cose peggiori che sono associate “ai rom”. “I rom” è Tanja. È anche la prima vittima delle fiaccolate anti-rom, dei linciaggi per responsabilità di gruppo che rischiano di dare alle fiamme la roulotte dove vive proprio lei; è vittima di qualunque sgombero, di qualunque espulsione, perché quella vicenda – che è l’unica vera questione – la seguirà ovunque venga cacciata. Lei è la persona che meno ha fatto per meritare il nostro disprezzo, eppure è la prima a cui è indirizzato.
Questi due fatti, io penso, portano alla conclusione che bisogna sempre, sempre, trattare le persone come individui. Che né la responsabilità, né la considerazione di, deve essere associata a un gruppo anziché alla persona. È un fenomeno che non si vede soltanto nella Lega Nord e nei “fiaccolanti”, ma c’è in chiunque voglia preservare una qualunque cultura – sia quella padana o quella rom, quella cristiana o quella mussulmana – a scapito della felicità e dei diritti degli individui. Non bisogna mai pensare che qualcosa sia la “nostra” o la “loro” cultura, perché il mondo a cui aspiriamo è il mondo in cui non ci sono “noi” e “loro”, e per ottenerlo non si può che cominciare iniziando a trattare gli individui solamente rispetto a sé stessi.
È l’unico modo per scardinare il meccanismo che vuole tutti i rom colpevoli di una presunta violenza e che ha purtroppo la stessa matrice dell’atteggiamento di chi – spesso animato da buone intenzioni – difende una diversa cultura, una “diversa” concezione dell’infanzia, una “diversa” concezione dell’igiene, una “diversa” concezione della legalità, e dentro la testa ha l’idea che quelle cose lì, quella diversità, siano i rom: come se fossero, geneticamente, più portati alla sporcizia, all’illegalità, ai maltrattamenti. È il caso di pensarci, di pensare a Tanja, la prossima volta che diciamo “i rom”.
Non mi è arrivato il feed (o l’RSS? mai capito) su Google Reader, per quello non l’ho letto. (su Il Post)
Per il resto gran bell’articolo, non penso si possa aggiungere molto.
Letto, condiviso e consigliato!
io l’ho letto. e l’ho trovato interessante. purtroppo il considerare ‘noi’ e ‘loro’ è un vizio che sarà difficile estirpare. io sono di torino, nato e vissuto per molti anni in un quartiere a due passi da quell’accampamento e la cosa mi ha colpito davvero tanto.
Condivido tutto.
Mi preme molto la parte sui diritti dell’individuo (ne avevo parlato anche a commento dell’altro post): è per ragioni come queste che mi incazzo come una biscia quando sento dire che in Italia “c’è troppo individualismo”.
Un accidente: noi ragioniamo sempre per categorie e per gruppi, che ci semplificano la vita e ci risparmiano la fatica di pensare. Invece ogni incontro è una fatica, perché ogni persona è diversa dall’altra, e ognuno è responsabile per sé stesso. Anzi: l’idea stessa di responsabilità , che è alla base del vivere sociale, esiste solo se esiste anche quella di “individuo”.
L’esempio che tu hai portato è doloroso ma appropriato.
post bellissimo.
bravo Giovanni, c’è poco da aggiungere a quanto hai scritto
ma una cosa tutti noi la possiamo fare: ricordarcene
🙂
Proprio oggi sono stata in un campo ed ho conosciuto una ragazza che ha sempre voluto lavorare, così tanto che quando le hanno fatto l’unico contratto della sua vita ha nascosto il pancione fino all’ottavo mese di gravidanza per paura che la licenziassero.
e che si recava a lavoro con un’ora di anticipo e se ne andava un’ora dopo con la speranza di fare una bella impressione e di essere riconfermata.
splendido,condiviso.
questo è un video postato da Amnesty International su fb.
chissà quanti altri ragazzi potrebbero avere la fortuna di studiare come Marius, se solo incontrassero le persone giuste.
(sostenete Amnesty!)
scusate, non sono stata capace di creare il link…e me ne vergogno!
magari ci riprovo. 🙂
http://youtu.be/fInbsfF0Y_M
Io lo lessi, lo linkai, lo apprezzai moltissimo già sul Post. Te lo dico acciocché tu possa giustamente vantartene con gli amici ;): è un pezzo bellissimo.
Buonasera a Giovanni e a tutti i frequentatori del forum.
Seguo con piacere da tempo questo blog di cui apprezzo molto stile e contenuti. Capita che io abbia opinioni diverse da quella prevalente, ma trovo stimolante leggere le argomentazioni che portano Giovanni ed altri lettori ad avere la loro vista sulle piccole e grandi questioni della vita.
Dato che in questo thread non vedo molto contraddittorio, da bastian contrario quale sono, vorrei portare un’opinione diversa.
Sento spesso dire “non facciamo di tutta l’erba un fascio”, “bisogna guardare al singolo individuo” ecc. E’ in sintesi anche l’insegnamento che voi derivate da questa vicenda.
Sono d’accordo solo in parte: Tanja è una brava ragazza ed una vittima; sicuramente lo anche la ragazza che ha conosciuto a. e che deve lottare contro i pregiudizi della gente. Non metto in dubbio che oltre a brave donne ci siano anche uomini rom onesti e lavoratori. Chiediamoci però una cosa: se sentiamo il bisogno di mettere in risalto questi casi virtuosi non sarà invece perchè una fetta importante della comunità Rom ha effettivamente costumi socialmente discutibili ed i pregiudizi nei loro confronti sono effettivamente fondati? L’igiene scarsa, la propensione a mendicare/rubare/vivere alle spalle della società , la ridotta integrazione sociale, il rispetto basso della donna, l’alto numero di figli, la scolarità minima, ecc. non sono forse caratteristiche costanti dei Rom ovunque si insediano? Nulla di tutto questo giustifica missioni punitive ai loro danni, sia chiaro, ma non posso non pensare Giovanni che la difesa di quella nostra diversa cultura di cui parli nell’ultimo capoverso sia giusta e doverosa e sia anche nell’interesse delle persone migliori della comunità Rom perchè abbiano le condizioni per allontanarsi da una realtà che li spinge verso il basso.
I campi Rom sono luoghi dove la maggioranza delle persone vive di espedienti o di attività illegali, cosa c’è di sbagliato nello sgombrarli (se/quando esistono le condizioni di legge)? E’ irrispettoso della loro cultura? No, sarebbe irrispettoso della nostra non farlo.
Luigi
@ Luigi:
Luigi (uhm, per non confondersi, è meglio che tu e il Luigi di sopra aggiungiate il cognome), grazie delle parole, e soprattutto grazie del contradditorio.
Luigi scrive::
Io non sento quel bisogno, davvero. Però sono certamente d’accordo con te, e questo mi sembrava anche espresso in maniera piuttosto chiara nel post, proprio dicendo che chi difende la “cultura rom” come se essa fosse costituita da tutte quelle cose deprecabili che hai menzionato è razzista quanto chi fa le fiaccolate.
Il mio avvocare un singolo standard, anziché il doppio che c’è ora in molti frangenti, vuol dire anche comportarsi in maniera severa dove con gli italiani ci si comporterebbe in maniera severa: ad esempio ci sono casi in cui troverei giusto togliere la patria potestà a chiunque faccia vivere il proprio figlio in condizioni d’igiene sotto la soglia della dignità , che sia italiano, turco, rom, sinti, informatico o giardiniere.
Quello su cui non sono d’accordo, però, è la rivendicazione della “nostra” cultura come soluzione a questa questione, per due problemi: una semplicemente storica. Cos’è la “nostra” cultura? È la tutela dei diritti dell’infanzia? Però non è sempre stato così. Il pomodoro prima del 1500 non sapevamo cosa fosse, ora ci facciamo la pizza. Un’altra, ben più seria, è proprio etica: nel momento in cui rivendichi una idea – chessò, la libertà di matrimonio – non come idea universale e appannaggio di tutti, ma come tua perché ci sei nato dentro, perché è la tua cultura, stai minando alle fondamenta il concetto stesso che quella abbia un maggiore valore di benessere per tutti gli altri esseri umani. A meno di, come dicevo alla fine del post, considerare i rom geneticamente più portati alla violenza o alla sporcizia. E so che non è il tuo caso.
Se un olandese venisse qui e domandasse “perché non ci sono i matrimonî omosessuali in Italia?”, rispondere “perché è la nostra cultura”, sarebbe una pessima – ma vera, nei fatti – risposta.
Ti rimando a questo post, in cui affornto proprio questa questione, se ne hai voglia:
http://www.distantisaluti.com/contro-il-burka-e-percio-contro-daniela-santanche/
Luigi scrive::
C’è una famosa citazione del generale Napier, in India, che dice questa cosa:
“This burning of widows is your custom; prepare the funeral pile. But my nation has also a custom. When men burn women alive we hang them, and confiscate all their property. My carpenters shall therefore erect gibbets on which to hang all concerned when the widow is consumed. Let us all act according to national customs.”
Ha effetto, perché annulla la considerazione di chi, appunto, difende pratiche incivili in nome della cultura locale.
C’è un problema però: se, invece di rifiutare una cultura in nome dell’universalità , lo si fa in nome di un’altra cultura, diventa – semplicemente – la legge del più forte. Io brucio una vedova, e allora io ti impicco, e allora io ammazzo la famiglia del boia, e allora io faccio fuori la famiglia allargata di quello che ha ucciso il boia, e così via.
Non ci devono essere “noi” e “loro”, ma semplicemente tutti.
Per Luigi:
‘L’igiene scarsa, la propensione a mendicare/rubare/vivere alle spalle della società , la ridotta integrazione sociale, il rispetto basso della donna, l’alto numero di figli, la scolarità minima, ecc. non sono forse caratteristiche costanti dei Rom ovunque si insediano’: NO. Sono realtà da imputare al contesto abitativo del campo nomadi. Non hanno nulla a che fare con l’odierna ‘cultura’ rom.Ho fatto una ricerca di un anno su questo tema, intervistando le persone che vivono nei campi nomadi e quelle che dal campo sono passate al contesto delle case private/occupate ed è emerso con evidenza come tutti i fattori che hai menzionato mutano profondamente nel passaggio dal campo alla casa: una dimostrazione che la cultura rom come è generalmente pensata non esiste, è un -eventuale- prodotto sociale dei campi (dove i Rom, almeno quelli che ho conosciuto, NON vogliono assolutamente vivere!): se alcuni rom – come anche alcuni non-rom- rubano, chiedono l’elemosina, non mandano i figli a scuola etc. è perché vivono in condizioni di degrado sociale e non perché abbiano ‘effettivamente costumi socialmente discutibili’. HO esperienza di molti italiani che versano in condizioni particolarmente difficili e tra questi l’abbandono scolastico, l’imparità di genere, la disoccupazione etc. sono diffuse come lo sono tra i Rom dei campi. Mi sembrava una cosa molto banale da scrivere, però evidentemente necessaria. Immagina di vivere anche solo per un mese in un luogo distante dalla città di Roma due ore di mezzi pubblici, lontano dai servizi, con altre 160 persone con le quali condividi 8 wc e 8 docce, con la possibilità di avere l’acqua calda dalle 18 alle 20, senza lavatrice e senza frigorifero. Io credo che la mia igiene personale (la mia e quella dei miei figli), i miei rapporti sociali, le mie possibilità lavorative ne risentirebbero parecchio. Comunque sabato andrò in un campo a fare delle cose chi vuole curiosare e venire è il benvenuto e può chiedere a Giovanni la mia mail 🙂
@ a.:
Io ho bisogno di capire.
1) Innanzitutto ho difficolta’ a trovare siti dove farmi un’idea precisa.
2) Ho difficolta’ a non trarre conclusioni dal fatto che una buona parte dei mendicanti nella mia citta’ e’ costituita da Rom.
3) Presumendo ovviamente che ai Rom non piaccia vivere all’addiaccio, ho difficolta’ a spiegarmi come mai loro vivano ancora in campi, alcuni attrezzati, pur essendo spesso cittadini italiani da generazioni.
Sento di provare un fastidio nei loro confronti che non mi piace, ma non riesco a darmi strumenti per espellerlo da me stesso. Quando una zingara mi passa accanto controllo il portafoglio, e non mi piaccio per questo.
uqbal scrive::
Secondo me questo, se pensiero ragionato stando attenzione a non trarne ulteriori conseguenze, non è razzista. È solo una considerazione di fatto che fra i rom c’è una percentuale di borseggiatori maggiore che rispetto al cittadino comune (dubito che questo possa essere disputato: poi ci si può domandare se è una questione genetica (no), di educazione (sì), o socioeconomica (sì), ma rimane un dato di fatto). Come non credo sia razzista evitare di uscire da soli la notte ai Quartieri Spagnoli a Napoli, come invece si farebbe – chessò – a Copenaghen.
Sono considerazioni di fatto che ognuno fa per tutelarsi.
uqbal scrive::
me lo chiedo anch’io: presumo siano rassegnati.
1)è vero non è semplice trovare informazioni. Comunque, http://www.osservazione.org/
(a me è piaciuto Figli del ghetto di Sigona e se vuoi I Rom di Europa di Piasere)
2)Non lo so, non conosco le percentuali,nel quartiere ci sono due mendicanti rom, molti lavavetri bengalesi e altri mendicanti non rom.
3) Alcuni so che una volta trovato un lavoro stabile riescono ad uscire dal campo. Dei Rom (che ho conosciuto io, ripeto, gli altri chi sa) che vivono nei campi c’era solo una famiglia che poteva permettersi di prendere in affitto una casa e non c’è riuscita perché non ha trovato nessuno disposto a firmagli un contratto di affitto. Purtroppo molti incontrano la stessa resistenza quando cercano un lavoro. Molti sono italiani da generazioni ma non cittadini italiani! Se non sono stati registrati all’anagrafe (cosa frequente perché spesso gli stessi genitori sono senza documenti – soprattutto quelli provenienti dall’ex jugoslavia)non possono diventare cittadini italiani. I rom con cui ho parlato che ora vivono in casa o ci sono nati o hanno partecipato a percorsi di occupazioni di spazi in disuso.
Sembrerà banale(non ho un grande bagaglio culturale e faccio fatica ad esprimere i miei pensieri) ma basterebbe fare lo sforzo di abbandonare il concetto di “noi” e “loro” e di valutare le persone singolarmente ogni volta, senza preconcetti sull’appartenenza, considerandole per la loro umanità .