Lunedì 23 febbraio

Pregiudizî – Diario dalla Palestina 174

Avevo parlato dei pregiudizî formalizzati ai check-point, ci sono altri esempi: quando l’esercito ispeziona un pulman, sicuramente indugerà di più su chi ha una fisionomia araba (per poi, magari, scoprire che si tratta di un ebreo sefardita). Anche in questo caso l’ispezione su base etnica è una pratica poco digeribile per un osservatore, ma se la domanda è “qual è l’alternativa?” è molto difficile trovare una risposta, specie perché – come si dice sempre in Israele – Funziona.

Ovviamente il problema maggiore sono gli abusi del piccolo spazio di potere che ha il controllore, spesso molto tutelato dal controllore del controllore, nell’esercitare la propria funzione in modo vessatorio.

Quanto ai pregiudizî ci sarebbero tanti discorsi da fare, in fondo anche stupirsi che un ragazzo di venticinque anni abbia letto la Divina Commedia (non io) è essere vittima di un pregiudizio. Inoltre la cosa più importante dei pregiudizî è che siano censurati, che chi li ha in testa pensi che sta pensando una cosa sbagliata. È il primo passo perché la generazione successiva cambi: dieci anni fa, ricordo, in Italia tutti buttavano carte per terra. Qui succede esattamente lo stesso, ognuno lo fa con noncuranza, e questo induce (educa) gli altri a fare lo stess, il famoso principio della finestra rotta, insomma.

Ora, in Italia, lo noto sempre, non è che non si buttano più le carte per terra, e non è solo che si faccia meno, ma se lo si fa, lo si fa di nascosto: c’è l’idea che farlo è sbagliato. Farei un discorso simile per il maschilismo, certo che ce n’è ancora in Italia, e tanto: basti solo pensare a come l’aspetto fisico sia il metro più spontaneo di valutazione. Ma almeno è passata, e da molti anni, l’idea che pensare che le donne meritino meno diritti è sbagliato. Qui in Palestina non solo lo si sostiene nei fatti, ma quasi sempre anche nelle parole.

Perché ho pensato a tutta questa cosa sui pregiudizî? Un po’ perché ce l’avevo in mente, e un po’ perché ho fatto un test costruito da alcuni studiosi di Harvard molto semplice, ma allo stesso tempo molto efficace per rivelare quanto intimamente uno abbia dei pregiudizî su base etnica, sociale, nazionalistica, sessuale, etc. Ce ne sono tanti, alcuni anche in italiano: quello che mi ha stupito, e sono convinto che sia dovuto alla permanenza qui, è che non riscontrano alcuna forma di pregiudizio rispetto ai nomi arabi, neanche nel fondo del mio retropensiero. Ed è strano, perché dicono che anche la maggior parte di chi dichiara di non avere pregiudizì, riscontra con questi test un qualche sedimento di preconcetto: questo conferma che la conoscenza, la frequentazione, aiuta l’erosione dei pregiudizî – sicuramente se l’avessi fatto un anno fa, prima di avere a che fare con un sacco di palestinesi, il risultato sarebbe stato diverso: per dire, ho dichiarato di preferire gli Stati Uniti all’Italia (7 a 5), e invece il risultato del test è stato che ho un minuto pregiudizio pro-italiano.

Lavoreremo per eliminare anche quello.

Il test sui nomi arabi è qui: se dopo esservi resi conto di averne di pregiudizî impliciti, volete sbizzarrirvi, trovate tutto il resto qui.

Sabato 21 febbraio

Ancora suore VS Povia – Diario dalla Palestina 172

Quando quel figuro losco ha esposto il suo cartello con scritto “ognuno difende la sua verità”, un’altra suora ha commentato:«ma che dice questo? Di verità ce n’è una sola».

Venerdì 20 febbraio

Follie – Diario dalla Palestina 171

Più che uno sta qui, più che uno pensa che siano tutti matti. Qualcun altro dice che gli israeliani so’ stronzi, e i palestinesi so’ matti. Ma si incontrano anche israeliani matti e palestinesi stronzi (tipo il mio proprietario di casa). E qui finiamo con le generalizzazioni.

Una cosa, però, che noto sempre è che chi difende Israele lo difende in due modi: contestanto le follie palestinesi e vantando la civiltà israeliana. Invece chi difende la Palestina lo fa in un modo solo: contestando le follie israeliane.

Mercoledì 18 febbraio / bonus

Gesù era celibe  – Diario dalla Palestina 170

Ho appena visto, in diretta, lo scempio di Povia. Lo so che non dovevo vederla, sembrava fatta apposta per far infuriare. Per fortuna non solo io. C’era con me una suora. Siciliana. Di sessantacinque anni. Ha detto: «Ma che c’entrano la mamma e il papà? Lo sanno tutti che è la natura».

Mercoledì 18 febbraio

Finestre – Diario dalla Palestina 169

Proprio un lampo: ma voi c’avete mai pensato che i windows in arabo e in ebraico c’hanno lo start a destra?

Martedì 17 febbraio

Code – Diario dalla Palestina 168

Foto di un paio di settimane fa, che non avevo pubblicato.

Il gioco funziona così: due squadre, 60 caselle, divise in 20 blocchi da 3. La squadra che percorre per prima le 20 caselle vince. Le caselle sono tutte numerate, per ogni blocco di 3 soltanto una è buona (si sente una musica, puoi continuare) e due sono rotte (si sente un grido, e devi ricominciare da capo. Quindi memoria memoria memoria. Nel frattempo i tuoi compagni provano a indicarti la strada giusta, gli avversari – che non vedono il tracciato – a origliare i numeri giusti.

Mezza squadra Ahmar:

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Mezza squadra Azrac:

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Poi c’è il secondo gioco, una via di mezzo fra codine (in onore a Matteo) e rubabandiera:

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Uuuuuups:

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Vittoria!

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Scappaaaaa

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Domenica 15 febbraio

Eredi – Diario dalla Palestina 167
Il conflitto arabo-israeliano si associa spesso alla guerra fra due religioni, l’Islam e l’Ebraismo. Questo aspetto trascura un fatto: lo scontro aperto fra arabi-cristiani e arabi-mussulmani, un conflitto tutto palestinese. Specie nelle zone come Betlemme, dove i cristiani erano maggioranza e l’altissimo tasso demografico dei mussulmani ha ribaltato il dato, si percepisce nei cristiani una vera e propria sindrome da accerchiamento: nella città della Mangiatoia, ad esempio, erano l’80%, ora sono il 35%.
E sebbene quella minoranza mantenga il controllo economico, tutte le istituzioni pubbliche (tranne il sindaco che per decreto di Arafat è cristiano) sono mussulmane con ciò che ne consegue a livello sociale: perché molta della vita qui ruota intorno alle conoscenze – l’altro giorno mi sono rivolto a un amico palestinese per comprare il pane, questi è andato da un suo amico, il quale a sua volta è amico del fornaio: così, a onor del vero, ho avuto il miglior pane di Betlemme (“casa del pane” in aramaico ed ebraico, effettivamente).

Allo stesso modo se la polizia, quasi tutta mussulmana, ti ferma è probabile che tu – cristiano – abbia una sanzione più pesante di quella di un mussulmano, se non altro perché quest’ultimo conosce la famiglia di quell’altro che conosce etc.
Se un cristiano va in comune ad avviare una pratica, molto probabilmente dovrà aspettare settimane perché sarà scavalcato da tutte le pratiche di chi è mussulmano come gli impiegati. Di contro se sei mussulmano potrai accedere alle scuole private – qui sono le migliori – con qualche renitenza, perché sono tutte gestite dalla Chiesa. Come è ovvio che a Betlemme l’economia giri intorno al Cristianesimo: non solo per il turismo (come aprire un negozio di souvenir senza essere o fingerti cristiano?), ma anche perché la gran parte dei mussulmani sono persone delle campagne circostanti arrivate negli ultimi cinquant’anni a Betlemme, e il centro storico è quindi tutto in mano ai cristiani.

Così i cristiani, tranne poche eccezioni, vanno nei negozi cristiani. I mussulmani vanno nei negozi mussulmani, e via dicendo. E fra i cristiani, che un tempo erano quasi un quarto di tutti i palestinesi, l’ossessione del diventare sempre più minoranza porta a esprimere concetti che in Europa chiunque censurerebbe come islamofobici: c’è chi non esita a dire che non farebbe mai entrare un mussulmano in casa, una ragazza cristiana durante la guerra a Gaza mi disse, parlando delle morti dei bambini nella Striscia: «a loro non importa se gli muore uno dei dodici figli, tanto se succede ne fanno subito un altro».
Anche i simulacri palestinesi non sono immuni: la versione, tutta nuova per me, cristiano-betlemita della Nakba “la sciagura” – ovvero la creazione dello stato d’Israele e l’inizio della questione profughi – è che di sciagura si sia trattato in quanto l’ondata di profughi, quasi tutti mussulmani, proveniente dall’attuale Israele ha islamizzato Betlemme.

Il problema è che qui, credere in un dio, è anche e soprattutto un’identità, prima ancora che una religione: non c’è ragazza cristiana che non abbia una croce al collo, cosiccome le mussulmane senza velo sono pochissime. Non c’è macchina posseduta da un cristiano che non abbia un santino o una raffigurazione di Gesù. Le case degli arabi-cristiani assomigliano di più a delle chiese: ogni balcone ha un santino o una statua della Madonna in mostra, ci sono croci sui citofoni, archi a forma di croce sotto ai quali si deve passare per entrare in casa, e non c’è casa o negozio cristiano che non abbia un quadro di Gesù.
E la propria religione non viene scelta, ma ereditata: sulla carta d’identità c’è una voce che recita “religione”, così se si è cristiani si può entrare in Piazza di domenica, se si è mussulmani di venerdì. Se si è cristiani si può sposare una donna, se si è mussulmani se ne possono sposare quattro. I figli dei cristiani vengono chiamati Aissa, Meriem, Agnes ovvero Gesù, Maria, Agnese, come quelli dei mussulmani vengono chiamati Mohammed, Ahmed o Mohab, cosicché è sufficiente il nome per riconoscere l’appartenenza religiosa.

Purtrppo non c’è modo di uscirne perché proprio i matrimonî sono un fattore fondamentale in questa separazione: non esistono matrimonî misti: una donna mussulmana che volesse sposare un cristiano sarebbe un’onta gravissima per la propria famiglia. Da ottocento anni gli sposalizî sono soltanto all’interno della propria comunità religiosa. Un cristiano che lavora all’Azione Cattolica mi ha spiegato molto chiaramente il concetto: «sai perché ci siamo ancora?» mi ha chiesto, «perché continuiamo a conservare il nostro sangue: noi siamo gli eredi dei crociati».

Venerdì 13 febbraio

Misure di sicurezza – Diario dalla Palestina 166

Effettivamente vale un racconto quello che mi è successo, passando il check-point, proprio il giorno in cui ne ho raccontato l’imbarazzo. Metto lo zaino nel metal detector. Passo, suona, mostro il passaporto. Il soldato, da dentro la cabina, alza gli occhi un attimo, li riabbassa. Riprendo lo zaino, e mi avvio per l’uscita. Una voce dall’altoparlante blatera qualcosa. Torno dal soldato nella cabina: mi guarda come dire «che vuoi? vai». Vado. All’uscita ancora la voce. Stavolta riesco a capire che parla in inglese, un pessimo inglese. Torno dal soldato che, con l’espressione da “‘sti europei so’ proprio imbranati” mi fa un gesto che vuoldire «Sì, sì, vai». Riprendo l’uscita. Ma c’è sempre la voce. Chiede «you are a tourist?». Io mi guardo intorno, di solito ‘sti comandi vengono dal soldato in cabina. Torno da lui, visto che è dietro il supervetro non sente: mentre lui mi dice vai gli indico il cielo, come dire: «ooh, c’è na voce!». Quello non capisce. A questo punto la voce mi chiede: «the laptop is yours?» Il portatile è tuo? Non so dove rispondere, la voce viene dall’altoparlante ma da dove? Mi rivolgo verso il cielo e, sentendomi un po’ un idiota, grido: «yes!». Mi risponde, sempre la signora altoparlante, «ok, go».

Inutile dirvi che sono passato mille altre volte con il laptop nello zaino e nessuno mi ha chiesto se fosse «mio». In ogni caso, nessun altro controllo sulla paternità.È bastato il mio «sì». Ma un «sì» necessario, stavolta, perché la tipa ci ha messo più di qualche minuto a estorcermelo. Un terrorista avrebbe risposto «no»? Non credo.
Però, qualcuno direbbe, funziona.