Le cose migliorano

Fino a poco tempo fa, il campo era pieno di scorci come questo:

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Accanto a ogni tenda, bottiglie d’acqua impilate per terra. Riuscite a capire a cosa servono?

Katsika era uno degli ultimi campi senza acqua calda, e lasciare delle bottiglie d’acqua scaldarsi al sole era l’unico modo per avere la possibilità di fare una doccia calda. Ora file di bottiglie non ce ne sono più, perché da metà luglio sono in funzione le nuove docce che Oxfam aveva promesso di installare da mesi, e direi che questa immagine – l’assenza di questa immagine – è il simbolo del miglioramento nel campo.

Avevo raccontato di come all’inizio Katsika fosse un campo dove nessuno voleva restare. C’erano stati pullman di gente che, sapute le condizioni del campo, stava anche 48 ore a bordo rifiutando di scendere e aspettando di essere portata via. Katsika era stato costruito, nel giro di un paio di settimane, per 1500 persone, ben presto si era arrivati a 900 profughi con tutte quelli che, per un verso o per l’altro, non erano venuti o erano andati via. Poi le cose sono migliorate, l’afflusso di volontarî e di donazioni ha permesso di mettere assieme molti progetti e attività che hanno reso il campo sempre meno freddo e inospitale (uno di questi giorni proverò a raccontare tutte queste attività).

Inoltre sono arrivate buone notizie da molti fronti. La scuola, che aveva avuto dei problemi all’inizio, è ora quasi completamente in mano alla comunità. Noi aiutiamo con degli insegnanti di lingue e talvolta di matematica, informatica o fisica, ma per il resto sono i profughi stessi a gestirla e tenere le lezioni. Anche le tensioni fra varî gruppi etnici si sono allentate: dall’ultima volta in cui c’è stata una vera rissa, i rappresentanti delle varie comunità si sono avvicinati. Nel caso specifico i palestinesi hanno chiesto scusa ai curdi, e questa tregua è diventata una vera pace che si vive quotidianamente nel campo (speriamo!).

Anche i ragazzi più problematici si stanno lentamente – o velocemente – integrando, sia con la comunità stessa dei profughi, sia con gli stessi volontarî. Oltre a questo, siamo riusciti a mandare una famiglia in Spagna su un visto medico, la notte precedente c’è stata una festa per l’occasione: dopo una lunga attesa, ora sono finalmente sulla via della Spagna. Assieme a UNHCR ci stiamo impegnando per trovare un modo di fare sì che nessuno passi l’inverno in tende, prima gli individui più vulnerabili, poi tutti gli altri.

Infine, mentre scrivo, 50 profughi sono in pullman che vanno in spiaggia: per molti di loro il mare era solamente un posto che avevano attraversato su un barcone, in pochissimi erano mai stati in spiaggia. Così abbiamo creato questo progetto per dare la possibilità a tutto il campo, almeno una volta nella vita, di godersi il mare come molti di noi fanno ogni estate. Nei prossimi giorni ci saranno altri pullman che faranno lo stesso tragitto così da fare sì che per tutti gli ospiti del campo il mare sia anche qualcosa di diverso e non soltanto un posto dove hanno rischiato di morire.

Gli yazidi se ne sono andati

Dato l’imprevisto col computer, sono in arretrato di racconti dal campo. La principale cosa successa è effettivamente notevole: un terzo degli abitanti del campo se ne è andato. Chi siano gli yazidi l’avevo già raccontato, questo antico popolo perseguitato dallo Stato islamico. Al tempo stesso avevo raccontato della faida fra arabi e curdi (fra i quali si contano gli yazidi).

Ciò che è successo è che una mattina qualcuno ha trovato in uno dei bagni degli yazidi un graffito che diceva: “noi siamo lo Stato islamico, vi sgozzeremo tutti”. È il tipo di minaccia che gli yazidi prendono molto sul serio. Hanno convocato tutte le organizzazioni non governative del campo, le Nazioni Unite e l’esercito, poi hanno annunciato che non sarebbero rimasti un giorno di più. Dopo un paio d’ore di inconcludenti discussioni, hanno preso le loro cose e sono partiti alla volta del centro del paesino di Katsikas.13495096_10155133165413569_7229374815328349439_nL’UNHCR ha cercato di trovare una soluzione, cosa effettivamente non facile: si parla di 230 persone che da un momento all’altro si ritrovano in mezzo alla strada. Noi volontari li abbiamo assistiti nell’esodo, sia nel raccogliere le proprie cose, sia nel fornire acqua e viveri nel momento in cui si sono ritrovati tutti nel piazzale sulla strada principale che porta a Katsika.

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Sono stati momenti molto emotivi, con saluti, addii, ringraziamenti. Egoisticamente mi dispiaceva molto che andassero via, oramai erano diventati la mia gente. Finalmente è stato trovato un edificio, nel quale poterli portare. A quel punto l’attesa è diventata quella per i pullman che ce li avrebbero portati. Sono passate ore e ore, dalla mattina fino alle nove di sera, quando l’ultimo bus è riuscito a partire. Noi volontari abbiamo aiutato le famiglie a caricare le proprie cose sui pullman, poi alcuni di noi – fra cui me – li abbiamo seguiti con la macchina alla volta del nuovo campo (che è un edificio).

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All’inizio il posto mi è sembrato piccolissimo, inconcepibilmente piccolo per 240 persone, ma le mie aspettative si sono rivelate viziate: quasi tutte le persone con le quali ho parlato si sono dette più contente lì che al campo. Nel tempo, poi, le cose stanno migliorando: abbiamo cominciato a creare attività anche lì, e dovrebbero arrivare altri container. Non si sa per quanto gli yazidi staranno in quell’edificio, ma ci sono buone ragioni per pensare che ci stiano per tutto l’inverno, dato che le Nazioni Unite vogliono togliere tutte le persone dai campi prima che venga il freddo e metterle in edifici. Così proveranno a fare anche per gli altri 600 rimasti a Katsika.

Ah, nella foto precedente vedete che mi sono tagliato i capelli – i pochi che ho – e soprattutto la barba. Un po’ l’ho fatto anche per loro, perché mi dicevano – ovviamente per scherzo – che con quella barba sembravo dell’ISIS! Ovviamente i capelli me li sono fatti tagliare dal barbiere del campo:

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P.s. complice un matrimonio di amici, ho deciso di prendermi un paio di settimane di pausa. Sono mesi che lavoro da lunedì a domenica senza un giorno di interruzione, e un po’ di riposo – soprattutto psicologico – mi ci vuole.

Imprevisti

Scusate l’assenza di post da un po’ di tempo a questa parte: purtroppo ho stupidamente rotto il mio computer, e quello che era già difficile (trovare modo e tempo di raccontare quello che sta succedendo, e stanno succedendo tante cose) è diventato quasi impossibile.

Sassate

Sono giorni di tensione al campo, quello che è successo è che per la giornata mondiale dei profughi l’UNHCR ha organizzato una festa nella città di Ioannina, che dista una dozzina di chilometri dal campo. Il problema di tenerla in città anziché nel campo stesso – che era l’idea migliore e quella che avevamo ripetutamente suggerito loro – era che non c’è spazio per tutti. Quindi ci sarebbe stato bisogno di una selezione dei 100 profughi che potevano andare, e soprattutto degli 800 che non potevano.

È stato un disastro. Quando sono arrivati i pullman, tutti hanno cominciato ad azzuffarsi per salire. Poi le cose sono peggiorate: le tensioni sono cominciate a marcare linee etniche. I palestinesi che erano sul pullman hanno cominciato a impedire l’ingresso a curdi e yazidi (che sono curdi loro stessi), i curdi hanno risposto con grida che presto sono diventate spintoni. Alla fine è cominciata una sassaiola, cosa che non era mai successa nel campo, fra le due fazioni, dove qualcuno poteva davvero farsi male (per la cronaca, io ho preso una sassata su una gamba, ma nulla di grave).

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Un miglior uso dei sassi fatto da un bimbo nella propria tenda

L’UNHCR è sembrata completamente inerme. L’esercito greco non ha fatto nulla. Gli unici che cercavano di bloccare ciò che stava succedendo erano i poveri volontarî, anche perché erano quelli che davvero conoscevano le persone coinvolte. Il problema fra curdi e palestinesi viene da lontano, è una divisione etnica e politica che le persone portano dai loro Paesi d’origine: fra le altre cose, ha a che fare con la storia recente dell’Iraq. I curdi sono stati oggetto dei peggior massacri di Saddam Hussein che invece ha sempre sostenuto i palestinesi regalando denaro alle famiglie di ogni terrorista suicida e lanciando missili su Israele: quando ero in Palestina, ho più volte visto case nella quale era appesa la foto di Saddam.

Alla fine moltissimi erano arrabbiati, giustamente, con UNHCR. Moltissimi erano arrabbiati, giustamente, con l’esercito greco. In pochi, però, erano arrabbiati o sconfortati dal comportamento dei profughi stessi. Noto un processo di infantilizzazione che non condivido da parte di noi volontarî: vista la situazione nella quale sono i profughi – una situazione effettivamente orribile – molte persone, nella più perfetta buona fede, tendono a detrarre di responsabilità le loro azioni. Ma la cosa più altruista che si possa fare è dare a ciascuno le proprie responsabilità, e non scusare gli altri per cose che non accetteremmo da noi stessi.

Quelli che ancora non lo sono

Oggi è la giornata mondiale dei profughi. A me, ovviamente, viene da pensare a quelli che non lo sono ancora – e chissà per quanto non lo saranno – come il migliaio di persone che vive a Katsika. Poi penso a quelli che non lo saranno mai.

E in questa attesa estenuante c’è chi prova ad andarsene con i mezzi che ha: chi se lo può permettere compra un passaporto falso; gli altri vanno alla frontiera, magari attraverso le montagne, e sperano. Ci riescono in pochi, pochissimi, ma qualcuno ci riesce. Alla prima volta che vieni beccato ti rimandano in Grecia, alla seconda ti rispediscono in Turchia o in Siria.

Gamal (ho cambiato il nome, perché non si sa mai) ci ha provato. Ha 52 anni, faceva il giardiniere in Siria, a Homs, dove curava due ettari di terreno. Sua moglie è in Germania, e lui ha provato a raggiungerla. La polizia albanese l’ha beccato, ed è tornato a Katsika. Ora non può più provarci.

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Era un giardiniere e lo è tutt’ora, ha trovato il modo di fare un piccolo giardino attorno alla sua tenda

Da quel giorno è decisamente più triste, la sua tenda è più vuota e saluta meno spesso. Non è un’impressione sciocca o retorica, è precisamente quello che è successo. Credo che l’unica cosa che lo tenga occupato, ora, siano le sue piante. La sua tenda resta una delle più belle.

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Questa foto è di qualche settimana fa, prima del suo tentativo, ora è tutto fiorito, anche i due semicerchi esterni

Ci sono tante ingiustizie nel mondo, ed è sciocco dire che “noi” siamo responsabili di tutte queste. In questo caso, però, la ragione di questa situazione è molto semplice: l’opinione pubblica europea è contraria all’immigrazione, e per questo tutti i governi europei hanno cercato di mettere un filtro, di chiudere le frontiere. Quell’opinione pubblica siamo (anche) noi.

Il funerale

Qual è la cosa più eclatante che possa succedere mentre lavori in un campo profughi? Probabilmente che muoia qualcuno, a pochi metri da dove stai lavorando. Questa, penso, sarebbe stata la risposta che avrei dato se me l’avessero chiesto prima di partire. Invece poi succede e ti rendi conto che non è propriamente così: che il giorno dopo si va avanti, e quello dopo ancora, ed è tutto quasi come se non fosse successo nulla.

Una donna di una certa età è morta per un infarto, nel campo. Non voglio aggiungere altri particolari su di lei o sulla sua morte, perché questo non è un post lacrimevole. L’unica cosa che voglio dire è che, in questa situazione, le grandi organizzazioni non ci hanno assistito, e soltanto grazie alle donazioni di singoli volontarî siamo riusciti ad affittare un pullman per fare sì che chi voleva partecipare al funerale potesse farlo.

Poi il pullman non era sufficiente, e abbiamo supplito con una carovana di automobili, fra cui la mia, quindi mi sono ritrovato a fare da autista a questo funerale, per certi versi strano, per certi versi normalissimo, nel cimitero di Ioannina. Il giorno prima del funerale c’era stata una manifestazione di alcuni profughi perché, nonostante le promesse, la municipalità non aveva garantito la sepoltura secondo gli standard mussulmani. Era più impreparazione che dolo, così ho scoperto, perché questo era il primo caso di un mussulmano che veniva sepolto a Ioannina. Mi è sembrato strano che non ci fosse un cimitero islamico, o un settore per mussulmani nell’ottava città della Grecia, eppure uno non ci pensa, ma una prima persona ci deve essere sempre, e questa lo era.

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Ovviamente la foto non l’ho fatta io, ma alcuni profughi che l’hanno poi messa sui social network

La morte è tutta uguale. Anche a un funerale mussulmano, allestito alla bell’e meglio, da un gruppo di profughi e volontarî in Grecia, all’interno di un cimitero ortodosso che non aveva mai ospitato un mussulmano. La gente è triste, qualcuno piange. Ognuno cerca il proprio modo per metabolizzare, o per esprimere vicinanza. Qualcuno vuole farsi notare. Poi il rito finisce, le mani si incrociano, alla ricerca di una catarsi collettiva che non può arrivare completamente, perché la morte fa paura. Poteva essere un funerale in qualsiasi paesino d’Italia.

La lezione su Palmira, nel campo

Mahmud ha 73 anni e un aspetto distinto: quando lo incontro scambiamo sempre qualche parola in italiano. Non ne ricorda molte, ma gli fa piacere fare pratica. Tanti anni fa ha studiato turismo a Perugia. Poi, per quasi quarant’anni, ha fatto la guida a Palmira, nel sito archeologico. Il figlio Hassan dice che «per lui quei sassi erano la vita, ci passava più tempo di quello che passava con i suoi figli». Ora è fuggito dalla Siria, nel frattempo lo Stato Islamico ha distrutto quei templi e il senso di vuoto che ha per essersene andato è raddoppiato.

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Mahmud è quello seduto sulla sedia

Qualche giorno fa abbiamo organizzato una lezione su Palmira per volontarî, che Mahmud ha tenuto. Con quello che potevamo, fotografie proiettate su uno schermo, ha ripercorso tutti gli itinerarî archeologici che faceva con gli ospiti del sito.

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Un po’ di pubblico. (le foto sono sempre di Lucas)

Imparare queste cose era interessante, ma era ancora più interessante vedere la passione di quest’uomo che ha passato così tanto tempo in un luogo – con un brutto cliché linguistico si direbbe che gli ha dato la vita – ed è stato poi costretto a dargli due addii, quando è scappato, e quando l’Isis l’ha distrutto. A un certo punto Mahmud si è quasi commosso, e io per lui.

Quando ha finito la lezione gli abbiamo fatto un grande applauso.

Sconforti in cucina

Nell’hangar che ospita alcune delle attività delle Ong c’è (c’era) una cucina, che preparava il pranzo per i volontarî e una cena supplementare per tutto il campo, visto che i pasti dell’esercito sono disprezzati da tutti. Nella cucina lavorava un’associazione, Khalsa aid, assieme ad alcuni volontarî indipendenti e soprattutto a molti bambini del campo, presi appositamente da tutte le diverse etnie. Per i bimbi era un posto ambitissimo, avere accesso al luogo dei grandi, e a quello dove lavorano i volontarî. Per questo si riusciva a creare quella mescolanza intercomunitaria che era la ragione d’essere della habibi kitchen stessa.

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L’insegna della cucina, chiunque sia stato in Medio Oriente non ha bisogno di sapere cosa vuol dire habibi, e lo saprà tradurre meglio di così, per gli altri è una specie di onnipresente “tesoro mio”

Poi è successo questo: i bambini che avevano accesso alla cucina, e talvolta anche gli adulti, hanno cominciato a rubare vestiti e altri oggetti dal magazzino. Era successo altre volte, e c’è poco che ci possiamo fare, se non tenere gli occhi aperti, vista l’ingiustizia che questi furti comportano per chi non li compie. Soltanto che questa volta uno dei bimbi che non rubava ha fatto una foto che immortalava uno di questi furti. Tutte le comunità del campo, e anche i rappresentanti di queste comunità, se la sono presa con il bambino: c’è una fotografia di un furto, e tutti si sono concentrati sulla fotografia e non sul furto. La cosa mi ha molto depresso.

Hanno chiamato il padre del bambino che, di fronte a tutti, gli ha tirato un ceffone: siamo intervenuti, ma era troppo tardi. Il bambino è scappato via, chissà dov’è andato e quando tornerà: mi sono immedesimato in lui – che lezione ha imparato da questa situazione? – e la cosa mi ha sconfortato. Che adulto sarei diventato se da bambino mi fosse successa una cosa simile? Più precisamente, che adulto sarei diventato se questo fosse stato il mio insegnamento quotidiano?

La sera stessa è arrivata la notizia: l’esercito ha deciso di chiudere la cucina. Per ragioni burocratiche e sanitarie, da un giorno all’altro la cucina è stata chiusa, fra l’altro alla vigilia del ramadan, con tutto ciò che questo comporta. Insomma, oggi non è un giorno di buone notizie.

Calci reali e virtuali

Voi non ci crederete, ma il giorno immediatamente successivo a quello in cui mi sono tolto i punti, mi sono beccato una distorsione alla caviglia, sempre giocando a pallone. Il campo in cui giochiamo non è piano, è pieno di buche, rigonfiamenti del terreno, dossi: io stavo calciando il pallone e ho calciato un dosso, come dare un calcio al muro. Per fortuna non me lo sono rotto, ma si è gonfiato ed è una bella distorsione.

Nel frattempo avevo pensato a un passatempo calcistico in cui non mi posso infortunare (oddio, tutto è possibile): nel campo abbiamo un serio problema con il coinvolgimento degli adolescenti, mentre è facile fare attività con i bambini, e ci sono molte persone che le fanno, gli adolescenti rimangono spesso senza cose da fare per tutto il giorno. La risposta è semplice: videogiochi!

Avevo portato dall’Italia l’armamentario necessario a collegare quattro joypad al pc, e qui abbiamo un proiettore. Il problema, fino a ora, era stata la mia paura che tutti si azzuffassero per poter giocare, creando più problemi di quanti non ne risolvesse occupare una serata a settimana svagandosi. Così ho deciso: proviamo!

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Se, come me, pensate che queste foto sono particolarmente belle è perché non le ho fatte io ma il mio amico Lucas Bertoldo che, come vedete, ci sa fare

Le cose sono andate molto meglio di quanto mi aspettassi. Abbiamo organizzato un torneo, nel quale si giocava a coppie (in modo da far giocare quattro giocatori, e non due, alla volta). I ragazzi, con qualche eccezione, conoscono solo due squadre: Barcellona e Real Madrid. Ciò ha giocato a nostro favore perché tutti erano estremamente interessati anche alle partite degli altri, e tifavano per l’una o per l’altra squadra. Alla fine i problemi sono stati molti meno di quanti mi sarei aspettato.

A un certo punto abbiamo coinvolto anche un ragazzo, molto giovane, dell’esercito greco, che di solito viene visto con molta diffidenza, e di questo sono stato contento. In generale, sono stato molto contento dell’esperienza, perché come succede poche volte in un campo profughi, sono andato via con la convinzione – e non solo il dubbio – di aver reso qualche ora più felice a un gruppo di ragazzi.

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Avete presente quando nei film il detective riconosce il serial killer dall’espressione che ha in una vecchia foto di classe? Ecco, è l’espressione che sto facendo io qui

p.s. per chi non l’avesse letto, c’è un mio articolo per l’Unità sulle varie comunità nel campo

I volontarî

Oramai sono qui da un po’ di tempo (ho calcolato che ho vissuto più della metà dell’esistenza del campo) e ho avuto modo di ragionare e fare qualche considerazione sui volontarî che lavorano o hanno lavorato a Katsika.

Le condizioni del campo migliorano, e questo è anche grazie al grande afflusso di volontarî che, nonostante la disorganizzazione, aiutano a dare una mano alle persone che vivono nel campo. In questo momento, fra tutte le associazioni, ci sono fra i trenta e i quaranta volontarî, un numero significativo. Sono persone che vengono da tutto l’Occidente, prevalentemente dall’Europa, ma c’è anche qualche statunitense, canadese o australiano. La nazione più rappresentata è nettamente la Spagna, dato che l’Ong più importante è spagnola. Per questo si parla inglese o spagnolo.

La gran parte delle persone lavora molto, specie i primi giorni che è qua. Poi, un po’ fisiologicamente, allenta il ritmo o si occupa di mestieri meno stressanti. Le giornate, comunque, sono sempre lunghissime, ma vengono spesso allungate ritrovandosi a un bar o una sala da biliardo. Il mio maggior cruccio è che in Grecia si fuma dentro i locali pubblici, e io – che soffro molto il fumo – posso aggregarmi solo quando si va in locali all’aperto o in case di persone, cosa che per fortuna succede sempre più spesso.

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Un ritrovo serale dei volontarî, io sono l’unico furbo che si muove durante la foto

La cosa che si nota subito dei volontarî è che sono tutte persone buone. È una banalità, è una sciocchezza, ma è smaccatamente vero: tutte le persone che sono qui lo sono perché vogliono fare del bene, e lo manifestano continuamente nel quotidiano. Per quanto sia ciò che uno si aspetta da persone che vanno a lavorare in un campo profughi, è il livello di questa bontà d’animo che mi ha stupito: avendo lavorato in altri contesti, più professionali, non ne avevo mai riscontrato uno simile. Può essere che sia proprio il fatto di essere volontarî, quindi persone che fanno questa scelta indipendentemente dal denaro o dalla possibilità di una carriera, a selezionare questa caratteristica. Ovviamente ciò non vuol dire che questa bontà si traduca sempre in efficacia: è l’altra faccia della medaglia, un gruppo di volontarî è anche un gruppo meno qualificato.

È difficile inquadrare il volontario tipo: ci sono più donne che uomini, ma il rapporto non è tanto diverso. L’età media è fra i 25 e i 30 anni, quella mediana molto più alta: ci sono infatti un sacco di persone di ogni età, anche sopra i 60 anni, che vengono a dare una mano. In media le persone restano fra le due e le tre settimane, qualche volta un mese, difficilmente di più. Quasi tutti si dànno molto da fare, e rimangono affezionati al proprio lavoro fino all’ultimo giorno. Poi lasciano quello che hanno fatto e il loro lavoro viene continuato da qualcun altro.

Direi che il prototipo del volontario è quello del viaggiatore: ci sono molte persone che non hanno una base precisa, ma fanno diverse esperienze di ogni tipo e quella di lavorare in un campo profughi è una di queste. Hanno visto molto mondo, e ne vedranno dell’altro. Sono felici della vita, e questa è la loro maniera di sdebitarsi della felicità ricevuta. Poi ci sono tanti altri che hanno dei lavori normali, una vita normale e, semplicemente, anziché andare in vacanza, prendono le ferie e vengono a lavorare a Katsika.

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Il pranzo: nel tempo è stato allestito anche un pranzo per volontarî. Con qualche euro, si riesce a mangiare un piatto. Devo ammettere che non è il massimo. Quando posso, preferisco arrangiarmi con un panino

Il rapporto fra i volontarî è molto cordiale, gioioso, anche a livello fisico: ci si abbraccia spesso, e per molte cose, anche per un buon giorno. Io lo apprezzo molto. Nonostante la situazione di stress continuo, di litigi o discussioni ce ne sono pochi. Qualche volta qualcuno esplode, scoppia a piangere o ha delle crisi, ma è inevitabile e viene presto superato. Si è parlato di psicologi che venissero a lavorare con i volontarî, come succede a Idomeni, ma per ora la cosa non è stata messa in piedi. Per quel che mi riguarda, comunque, sono sempre riuscito a mantenere la calma, anche in situazioni difficili, e a lasciar andare via lo stress dopo un po’ di riposo.

Una cosa che mi ha stupito, forse in negativo, è che poche volte fra volontarî si affrontano discorsi “serî”. Non dico soltanto questioni etiche, profonde o intime, di cui i lettori di questo blog mi sanno appassionato: ma anche banali discussioni politiche, alle quali mi sarei aspettato di assistere spesso, sono piuttosto rare. Non perché siamo tutti d’accordo, direi che se è vero che tutti sono per un’apertura delle frontiere, i background politici sono abbastanza varî; semplicemente perché quando ci si ritrova davanti a una birra le chiacchiere restano concentrate sul commento della giornata passata o su discorsi da ascensore. Ecco, direi che se potessi chiedere qualcosa al futuro immediato è che i nuovi volontarî, che arriveranno presto, siano più interessati a una bella e sostanziosa discussione.