La gelosia è una sciocchezza

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Corso di Alfabetizzazione Sentimentale Obbligatoria – Prof. du Lac – 6° lezione

Bravi, siete stati bravi,
la scorsa settimana avevo concluso domandandovi cosa ne pensaste della gelosia, e le risposte sono state – in buon numero – inaspettatamente soddisfacenti. Certo, diversi hanno descritto – sbagliando – una piccola componente di gelosia come necessaria, ma nessuna risposta si rifaceva a un concetto cavernicolo del rapporto uomo-donna come avevo temuto in un primo momento. Me ne rallegro: si vede, cari studenti, che vi siete applicati alle precedenti lezioni.

La gelosia è una sciocchezza. È, nella migliore fra le ipotesi, una patente mancanza di fiducia nei confronti della persona amata. Delle due l’una: o c’è una ragione per sospettare del proprio compagno – e allora questa ragione dovrebbe essere sufficiente a degradarlo a non-più-compagno – oppure non c’è una ragione, e allora perché essere gelosi? Dice bene Filippo, dubitare di un invito accettato significa:

mettere in discussione l’intelligenza, la correttezza, e quindi lo stesso rapporto amoroso che si ha con l’altro. (…) Che ragioni ho di sospettare un tradimento? E se ho ragioni di sospettare una scorrettezza, un colpo basso, che stima ho di questa persona che dovrebbe essere la migliore?

Oltre alla esaustiva prova di Filippo – farà strada questo ragazzo – ottime anche le risposte di Alberto V, Sid e Gabriele un “+” a Valeria C (posta), Daniele Ze (posta), GnG, Saverio (posta), Ilaria (posta).

Non fidarsi della persona che si ama è – in sé – una contraddizione in termini. Come possiamo diffidare della persona a cui abbiamo scelto di affidarci? Eppure ci sono esseri umani che nascondono e dubitano nascondigli, che trovano normale mandare avanti un rapporto fondato sui reciproci occultamenti. Persone che assumono dei detective privati per avere una risposta che il solo fatto di sentire la necessità di assoldare un investigatore dovrebbe dargli.

A.D. – Prof du Lac, è chiaro, se il mio compagno incontra una pretendente le ipotesi sono due: A) la pretendente non può inficiare il mio primato: non c’è ragione per cui io tema questo incontro. B) lei può inficiarlo, è possibile che lei sia migliore di me agli occhi di lui. Ciò andrebbe appurato subito: se io non sono la donna della sua vita voglio scoprirlo il prima possibile (e, semmai, provare a convincerlo del contrario).

Per questo non c’è ragione di trattenere il mio compagno da un incontro simile: il concetto che tutti professiamo – voglio che il mio amato mi scelga tutti i giorni! – ha un valore di sacralità. Desidero essere scelta, desidero il suo desiderio di desiderarmi accanto: non vorrei mai che fosse un divieto di sosta a farlo parcheggiare davanti casa mia.

Effettivamente, Dora, una coppia innamorata non è gelosa di nulla, uno dei due potrebbe dormire accanto a un pretendente – se quello della fedeltà è uno dei loro vincoli – senza che questo possa turbare l’altro: se fosse l’occasione a rendere l’uomo ladro allora saremmo tutti, potenzialmente, dei ladri. E di un ladro – inteso come qualcuno che non si stima: naturalmente le persone cambiano, e c’è anche chi non trova sbagliato rubare – non ci si può innamorare (cfr Lezione III).

L’idea che soggiace alla limitazione dell’agire del proprio amato è quella di non considerarsi all’altezza del proprio rapporto, quasi che l’aver convinto la persona che si ama di essere il suo partner ideale fosse un inganno ben riuscito ai suoi danni: saresti più felice con qualcun altro, ma io non te lo farò incontrare!

E noi vorremmo mai stare con una persona così? Un individuo che ha la protervia di volerci rendere infelici, per proprio tornaconto – dentro a un castello di costrizioni, bugie, e ali tarpate – quando là fuori, magari, c’è il principe azzurro delle favole. Se fuori dal castello c’è il Cavaliere Nero, non sprecare fatiche ed emozioni per impedirmi di incontrarlo: va lì e battilo. Dimostrami, a giudizio insindacabilmente soltanto mio, che sei migliore di lui. Sennò come puoi pretendere che m’innamori di te?

A.D. – La domanda che, assieme a du Lac, abbiamo deciso di somministrarvi questa settimana è la più difficile dall’inissio del corso, saremo perciò più larghi nella valutassione delle vostre prove:

Il partner del vostro più caro amico/a vi piace sempre di più. Che cosa fate?

Rispondete nei commenti qui sotto, oppure nella cassetta del Prof. du Lac. Ci rivediamo il prossimo martedì.

Una lettera al Post

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Ho letto questo post del Post in cui venivano così argomentate le ragioni per non pubblicare la vignetta oggetto dell’articolo:

L’avevamo messa qui, la vignetta, dove ora sono queste righe. Sarebbe stato un servizio ai lettori di questo articolo, e la sua ovvia illustrazione: è pure spiritosa e inoffensiva per chiunque dotato di intelletto. Abbiamo in orrore le persecuzioni fanatiche nei confronti della libertà di opinione. Ma la ragione per cui poi abbiamo deciso di lasciare ai lettori del Post la scelta di andarla a vedere nella sua collocazione originale – e di non fingere che questa fosse una scelta come un’altra – è che, con tutta la diffidenza per gli ignoranti dogmi delle religioni, pensiamo si debba essere rispettosi anche nel confrontarsi con l’ignoranza, quando costa poco. Benché pensiamo che qualunque divinità illuminata non possa che ridere delle vignette a lei dedicate, o fregarsene, non vogliamo offendere nessuno fino a che non ce ne sia bisogno per difendere qualcuno. Quel giorno, fosse anche domani, la homepage del Post ospiterà ben più che una vignetta.

Ho trovato queste ragioni inadeguate, e sono andato a leggere il dibattito apertosi nei commenti sperando di leggerci qualcosa di sensato a sostegno dell’idea che la vignetta andasse pubblicata. Invece gli argomenti di coloro che avevano il mio stesso punto di vista – la bontà della pubblicazione della vignetta – erano del tutto scandalosi. Perciò ho iniziato a scrivere io il commento che avrei voluto leggere lì sotto, ma ne è venuto fuori qualcosa di troppo lungo per un commento. L’ho trasformata in una lettera al Post, e la metto qui:

Caro Post,
sono molto stupito da questa tua opinione sulla vignetta di Zapiro: proprio perché mi sembra così lontana dalla prosecuzione naturale di tanti altri ragionamenti che, invece, condividiamo.

Leggo le accuse di codardìa, e mi rammarico di come sia difficile trovare qualcuno che contesti un’opinione – sbagliata – confutandola, anziché con dietrologie sull’interlocutore. Mi offendo quasi di più perché le persone che condividono la mia opinione riescono a portare come unico argomento la delegittimazione – senza alcuna prova – dell’onestà dell’opinione altrui. Ammesso – e tutt’altro che concesso – che gli argomenti del corsivo siano una pezza per nascondere della paura, a quegli argomenti va data una risposta. Ci provo io.

Credo che tu sappia bene che accettare la dimensione dell’offesa altrui come proprio metro sia un asse scivoloso. Soltanto in questo momento nella tua homepage ci sono diverse cose che potrebbero offendere qualcuno: la parola Dio, che alcuni ebrei religiosi non scrivono. La parola rompicoglioni, che potrebbe andare di traverso a qualcuno all’antica. E poi sono certo che il meraviglioso giorno in cui gli omosessuali si potranno sposare in Italia pubblicherai una foto dei primi due coniugi, magari del loro bacio: e io penso che farai benissimo a farlo! Immagino che a questo potresti rispondere che ognuno deve necessariamente decidere una soglia oltre la quale l’offesa – anche illegittima – di un interlocutore inficia la giustizia di ciò che si ritiene giusto, e credo che in questo caso la declineresti in quel costa poco. Anche questo è opinabile – perché costa poco anche scrivere D-o o rompic*****i, o mettere una foto di un municipio anziché quella di un bacio – ma vorrei provare a convincerti che è la stessa esistenza di quella soglia a essere per lo meno discutibile.

Essere rispettosi nei confrontarsi con l’ignoranza” è ciò di più contrario a ciò che auspichiamo per il mondo, e professiamo per noi stessi come cittadini di esso. La nostra società è, esattamente, fondata sulla mancanza di rispetto per la stupidità e l’ignoranza. Il mondo in cui viviamo deve tutti i suoi progressi a questa forma di intolleranza dolce nei confronti delle cattive idee: c’è una ragione per la quale una persona che dice che la Terra è piatta non può diventare Presidente degli Stati Uniti ed è la stessa ragione per la quale, probabilmente, non assumeresti un redattore che durante un colloquio ti spiegasse di essere in contatto con gli extraterrestri, o per la quale non usciresti a cena con chi sostiene di stimare il Mostro di Firenze.

E questo non succede – per fortuna! – perché ci sia una legge che vieta di pensare che la Terra è piatta o che il Mostro sia un bell’esempio, ma perché la nostra società è arrivata a un livello di consapevolezza tale da ostracizzare i punti di vista che non sono fondati su delle prove. È così per qualunque scoperta sulla medicina, sulla biologia, sulla fisica, ma anche sulla storia o sull’etica: in tutte queste discipline ci sono delle opinioni squalificate dalla mancanza di prove, in nessun convegno di storia sentirete mai qualcuno difendere il proprio punto di vista dicendo “dovreste rispettare la mia idea che l’Olocausto non ci sia mai stato”.

Naturalmente ci sono cose del cui grado di certezza siamo meno sicuri rispetto al fatto che la Terra sia rotonda, alla veridicità dell’Olocausto, o alla sociopaticità del Mostro di Firenze, ma è proprio per questa ragione che sarebbe sbagliato mettere una legge che vieti di pensarlo: potremmo avere torto. Tuttavia la sola maniera per dimostrare la validità di un’idea piuttosto che di un’altra è che nessuna delle due sia schermita da un malinteso rispetto. L’unico modo per poter cambiare idea, è dare la possibilità agli altri di attaccare quell’idea.

Perciò è giusto rispettare le persone, mica le idee. Ed è giusto che chi si sente offeso da un’idea altrui – molto brutalmente – se la prenda in saccoccia. Potrà cercare di convincere l’interlocutore delle proprie buone ragioni, ma non potrà appellarsi soltanto al fatto di essere offeso: perché ciò non vale nulla. Anche io sono offeso da un sacco di cose, da chi dice che Prandelli è un imbroglione, da chi si mette i pantaloni con scritto “Rich” sul sedere, o da chi fa le battute che finiscono con qualcuno che sodomizza qualcun altro. Altri sono offesi dagli applausi ai funerali, dal Grande Fratello o da chi mette il pepe sulla mozzarella di bufala. Eppure queste offese, tutti noi, ce le teniamo. E ci mancherebbe altro. Forse dirai che queste sono cose meno importanti. Intanto è tutto da dimostrare – qualche ultrà della Roma potrebbe ammazzare per un “Totti frocio” – ma poi chi lo stabilisce cos’è importante?

Perciò no: l’offesa non può mai essere nell’occhio di chi guarda. Un mussulmano non può sentirsi offeso perché mia sorella non indossa il Burqa, come un ebreo non può offendersi se mangio il prosciutto, e un cristiano non può considerarsi offeso se io vado a letto con un uomo. O meglio, certo che può: ma non ha nessun diritto di condizionare il mio comportamento. E questo discorso non vale – ovviamente – solo per le religioni, ma per tutti coloro che si sentono offesi per dei comportamenti altrui.

Naturalmente resta ancora molto da discutere: ci si può domandare quali siano le ragioni sufficienti per reclamare la propria offesa (ad esempio: per un “terrone!” è giusto offendersi?). Discutiamone, è quello che stiamo facendo da diversi secoli. Ma mi sembra piuttosto chiaro che “un libro scritto 1400 anni fa lo vieta” non è una ragione sufficiente – anche perché di libri scritti secoli fa ce n’è più d’uno. Tanto più che accettare il metro di chi spinge l’offesa più in là – che sia l’integralista o l’ultrà – vorrebbe dire premiare socialmente i più violenti e i più suscettibili, due atteggiamenti che vorremmo scoraggiare.

Dici, e non credo tu abbia tutti i torti, che c’è una notevole misura d’ignoranza nell’offendersi di fronte a una vignetta spiritosa e inoffensiva come quella, però difendere qualcuno dalla propria ignoranza è un atteggiamento molto condiscendente e – secondo me – neanche così altruista: bisogna sempre cercare di trattare gli altri esseri umani come fini, per quanto si può.

Apprezzo molto che tu abbia deciso di non fingere che questa fosse una scelta come un’altra. Io penso che avresti dovuto pubblicare la vignetta proprio così, scrivendoci accanto che non era una scelta come un’altra, e magari spiegandolo. Chessò, qualcosa così: “Cari lettori, ci dispiace che qualcuno si possa offendere per questa vignetta. E ci dispiace davvero. Però noi pensiamo che – con tutti gli strumenti di riflessione – non ci sia ragione per la quale questa vignetta possa risultare offensiva. Non ci mettiamo su di un piano morale superiore, perciò trattiamo voi lettori come vorremmo essere trattati: e noi vorremmo che c’insegnaste ciò ch’è giusto”.

Lunedì degli aneddoti – XXXVI – Hans

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Hans

Ha vissuto novant’anni della più bella e romanzesca esistenza che mi venga in mente. S’è guadagnato la sua voce su Wikipedia – e che volete di più, dalla vita? – finendo sulla lista nera dei nemici di Nixon durante gli anni della guerra in Vietnam, assieme a gente come Gregory Peck, Steve McQueen, e Jane Fonda. Lui, però, ha sempre preferito la compagnia della sua Herta.

Hans era nato in Germania, da una famiglia ebrea, nel settembre del 1920. Lì assistette alla salita al potere del Nazismo e fu uno dei pochi che riuscì a scappare nell’aprile del ’37, dopo che suo padre era passato per Dachau, e lasciando tutto in Germania, amici e averi. La sua prima tappa fu l’Inghilterra dove conobbe Herta, anche lei una rifugiata ebrea tedesca. A diciott’anni gestirono assieme una scuola estiva d’inglese, che diventò ben presto una sorta di orfanotrofio per bambini ebrei tedeschi mandati lì dai genitori prima che fosse troppo tardi. Insieme, a neanche 18 anni, si diedero il compito di portare via dalla Germania più bambini possibile.

Alla fine del ’39 Hans ricevette finalmente i visti per gli USA dove poté ricongiungersi con i membri più stretti della sua famiglia che, attraverso l’Olanda, il Trentino, la Palestina, la Svizzera, erano riusciti ad attraversare l’Atlantico. Da lì continuò a rimanere in contatto con Herta, scrivendosi delle lunghe e lentissime lettere. Negli Stati Uniti Hans finì il liceo frequentando una scuola notturna, mentre di giorno lavorava per coltivare il suo sogno di andare a studiare legge a Harvard.

Il giorno successivo al 7 dicembre del 1941 – un data che vivrà nell’infamia – ascoltò per radio il famoso discorso del Presidente Roosvelt sull’attacco Giapponese a Pearl Harbor con cui gli Stati Uniti entravano in guerra. In quanto straniero Hans non aveva doveri di leva, ma sentiva di avere un intimo debito di riconoscenza verso il Paese che aveva salvato la vita a lui e a parte della sua famiglia: sulla scorta di questa spinta ideale decise di arruolarsi come volontario nei ranghi dell’Esercito Americano, l’esercito del suo nuovo Paese che finalmente aveva preso parte, e aveva preso la parte giusta. Per non sembrare un eroe, Hans racconta che in quella decisione incise anche il fatto che ciò gli avrebbe conferito, ipso facto, l’attesa cittadinanza americana.

Una volta nell’esercito fu assegnato a un battaglione che avrebbe svolto una funzione di intelligence in Marocco, e gli furono impartite lezioni di arabo per 10 ore al giorno, da dottorandi di linguistica che non sapevano nulla d’arabo ma riuscivano a tenersi una lezione avanti ai loro studenti. Dopo un anno di questa preparazione intensiva la missione non fu approvata, e l’aver imparato alla perfezione quella lingua non gli servì mai più: altri commilitoni ne fecero una carriera, diventando commercianti con il Medio Oriente, o insegnanti di arabo all’università. Con lo smantellamento della missione in Marocco la sua frustrazione per il mancato contributo alle buone sorti di un conflitto in cui davvero credeva, crebbe a dismisura. Temendo di essere assegnato a un’altra scuola per i suoi buoni voti, chiese il permesso di segnalarsi come volontario nelle squadre dei paracadutisti.

C’era un’altra ragione per la quale fare quella scelta: a qualche mese dallo sbarco in Normandia, l’Inghilterra era il luogo dove i paracadutisti americani venivano inviati. E in Inghilterra c’era Herta. La corrispondenza con la futura moglie era diventata sempre più fitta, e la voglia di rivedersi sempre più forte. Intanto Hans aveva scalato i gradi dell’esercito per una ragione semplice: era uno dei pochissimi, lui e gli altri profughi dalla Germania, a parlare un tedesco perfetto senza accento inglese. Ciò, probabilmente, gli valse la fortuna di non essere assegnato alle prime linee per lo sbarco del 7 giugno in Normandia.

I nuovi gradi conferitigli gli diedero il diritto a una Jeep nelle ore libere con cui poté andare da Herta, centinaia di lettere, e cinque anni dopo essersi visti l’ultima volta. Si incontrarono altre due volte prima di capire che le loro vite si appartenevano l’un l’altra. La terza volta fu presente il padre di lei, che approvò entusiasticamente il loro matrimonio. Cercarono di fare tutto nel più breve tempo possibile, perché sapevano che Hans poteva essere inviato in Francia senza preavviso ciascuno dei giorni che sarebbero seguiti.

Hans fece formale richiesta ai proprî superiori – come era dovere di qualunque membro dell’esercito volesse contrarre un matrimonio – e ricevette, dal Comando del Generale Eisenhower, una risposta non proprio gradita: il permesso era concesso, ma era soggetto a un’attesa di 90 giorni. Questo era il tipico ordine, quasi procedurale, che veniva dato ai militari che chiedevano di sposarsi durante le missioni in terra estera: succedeva fin troppo spesso che delle reclute uscissero una sera con una ballerina di un paese straniero, e volessero sposarla l’indomani. Il paradosso era però che una regola istituita per i soldati che volevano sposare una ragazza conosciuta la sera prima si applicava anche a Hans, che conosceva Herta da cinque anni. C’era poco da fare: questo è l’esercito. Poco tempo dopo Hans fu assegnato a un reggimento d’intelligence della 82° Airborne Division. E sebbene nessuna delle lettere con “indicazioni sensibili” le fosse stata recapitata, Herta vide gli aerei militari passare sopra la propria testa, in direzione del mare, e capì che il suo non-ancora-marito stava volando oltre la Manica.

Non solo il danno, ma la beffa: durante i primi mesi di combattimenti nella parte di Francia appena liberata, la vicenda del mancato matrimonio era valsa a Hans le beffe di tutti i commilitoni. Potete immaginare: uno sciagurato che aveva incontrato la propria fidanzata cinque anni prima e non aveva avuto il permesso di sposarla perché la conosceva da troppo poco tempo. Era proprio il tipo di faccenda – di regolamenti pensati per delle situazioni e applicati con zelo ad altre che non lo richiederebbero – per cui era noto l’esercito, e che destavano l’ilarità dei graduati. Pane per le lingue malevole, Hans era diventato “quello che Eisenhower non vuole far sposare”. Tuttavia questa particolare notorietà non si rivelò di pieno detrimento: le tanto divertenti vicissitudini di questo ufficiale un po’ impacciato arrivarono in alto, molto in alto.

Un giorno di dicembre, Hans fu chiamato a relazionare il Comandante del Personale di Divisione. Seguì questo dialogo – immaginatelo col tono militaresco con cui lo racconta Hans: «Tenente, è ancora dell’idea di sposarsi?» «Sì, signore» «Il periodo di 90 giorni di attesa è terminato?» «Sì, signore» «Bene, c’è un pilota del comando trasporto truppe che vuole sposarsi anch’egli e ha terminato il suo periodo di attesa. Darò ordine di emettere un permesso temporaneo per l’Inghilterra e autorizzerò l’uso di un aeroplano militare a questo proposito. Il vostro compito è quello di sposarvi nel più breve tempo possibile, trascorrere qualche giorno con le vostre spose e riportare i vostri culi, e l’aeroplano, in questo preciso luogo. Decollate!» «Sì, signore. Grazie Signore».

Due giorni dopo Hans e Herta si sposarono civilmente e partirono per una breve luna di miele alla volta di Torquay, in Cornovaglia, unico posto dove il freddo del dicembre inglese potesse essere un po’ mitigato dal mare. Lì affittarono una minuscola stanza con bagno in una casa cantoniera: era piccolissima, ma era libera ed economica. Una sera poi – crepi l’avarizia – decisero di permettersi una cena, e il ballo che ne seguiva, nell’albergo più lussuoso della città: l’Imperial Hotel. Tornarono a Londra per una seconda cerimonia, quella con rito ebraico, che fu celebrata da un cappellano – cattolico – dell’Esercito Americano: era il suo dovere, e lo svolse con cura e partecipazione.

Credo che Hans sia una delle pochissime persone a essere stato sposato, nel proprio rito, da un ministro di un altro culto, e ad avere, oltre alle tante traversie, superato un veto al proprio sposalizio imposto da un futuro Presidente degli Stati Uniti: sarà per questo che quel matrimonio è durato 56 anni.

Alla fine il nostro eroe non fu impiegato in alcuna azione di copertura, ma fece diversi interrogatorî ad alti gradi delle SS o dell’esercito. In uno di questi contrattò la resa di un battaglione di diverse migliaia di tedeschi e, quale segno di capitolazione, il generale della Wehrmacht gli consegnò la pistola d’ordinanza, arma che Hans ha sempre conservato. Alla fine della guerra partecipò alla ricostruzione in Germania – ma quando gli fu offerta indietro la nazionalità tedesca, toltagli anni prima, rifiutò – poi tornò in America per continuare i suoi studî. Lui, quando racconta queste cose, specifica che il resto della sua vita fu molto più noioso.

Negli Stati Uniti si affermò come avvocato e, nel loro primo viaggio in Inghilterra, Herta e Hans tornarono a Torquay. Questa volta soggiornarono all’Imperial Hotel e replicarono il ballo di quella sera di diciassette anni prima, in una delle scene più romantiche ch’io riesca a immaginare.

Hans è morto ieri, accanto a Herta, un anno e mezzo dopo aver festeggiato la vittoria di Barack Obama nella sua, grande, America. Era il fratello di mia nonna. Questo è il mio piccolo pensiero per lui.


[Qui il primo: Brutti e liberi qui il secondo: Grande Raccordo Anulare qui il terzo: Il caso Plutone qui il quarto: I frocioni qui il quinto: Comunisti qui il sesto: La rettorica qui il settimo: Rockall qui l’ottavo: Compagno dove sei? qui il nono: La guerra del Fútbol qui il decimo: Babbo Natale esiste qui l’undicesimo: Caravaggio bruciava di rabbia – qui il dodicesimo: Salvato due volte – qui il tredicesimo: lo sconosciuto che salvò il mondo qui il quattordicesimo: Il barile si ferma qui qui il quindicesimo: Servizî segretissimi qui il sedicesimo: Gagarin, patente e libretto qui il diciassettesimo: La caduta del Muro qui il diciottesimo: Botta di culo qui il diciannovesimo: (Very) Nouvelle Cuisine qui il ventesimo: Il gallo nero qui il ventunesimo: A che ora è la fine del mondo? qui il ventiduesimo: Che bisogno c’è? qui il ventitreesimo: Fare il portoghese qui il ventiquattresimo: Saluti qui il venticinquesimo: La fuga qui il ventiseiesimo: Dumas qui il ventisettesimo: Zzzzzz qui il ventottesimo: Teorema della cacca di cavallo qui il ventinovesimo: Morto un papa qui il trentesimo: L’invincibile Marco Aurelio qui il trentunesimo: L’Amabile Audrey – qui il trentaduesimo: Anima pura – qui il trentatreesimo: Ponte ponente – qui il trentaquattresimo: Batigolqui il trentacinquesimo: L’originalità del bene]

 

Scappare a Cuba per amore è ragionevole?

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Corso di Alfabetizzazione Sentimentale Obbligatoria Prof du Lac 2° lezione

Ben ritrovati cari studenti,
questa al mio fianco è la Dott.ssa A.Dora, che – come vi avevo annunciato – mi assisterà nello svolgimento del Corso. Dora ci sarà particolarmente utile per la sua specializzazione in Non Esitanza conferitale dall’Ateneo Augustobona.

La settimana scorsa ci eravamo lasciati nel pieno della crasi fra emotività e razionalità. Il quesito che vi avevo assegnato puntava a evidenziare il luogo comune con cui si sono scontrati i più illustri luminari di questa disciplina: quello secondo cui emozione e ragionamento facciano a cazzotti.

Vi avevo domandato, riassumendo, se fosse razionale rinunciare a un incarico decisamente appagante per una fuga d’amore. Non posso citare tutti i compiti ricevuti – in questa sede, nella mia cassetta personale, o all’uscita di altre lezioni – ma ho letto e valutato ciascuno di essi: meritano una menzione gli eccellenti lavori di Saverio (posta) e Ilaria (posta), un segno “+” a  Federico, Ally, Primaverina, Gabriele e Angelo.

Ho tuttavia scelto come esempio di risposta esatta, in tutta la sua chiarezza, la seguente:

Nell’ovvia ignoranza del futuro avere fatto ciò che preferivo è la scelta giusta ed è un comportamento razionale se ritengo che la mia vita sarà complessivamente migliore seguendo questa decisione.

Come vedete l’analisi è semplicissima; e la risposta corretta è, come talvolta accade, “dipende”. Daniele sottolinea una cosa molto importante: dato che la razionalità è soltanto un metodo e non un connotato individuale, la domanda non dava elementi sufficienti per una risposta univoca. Per dare una misura a ciò che – proprio per questa mancanza di dati – non fosse legittimo dire, leggo la più classica delle risposte errate:

È ovvio che la razionalità tenda alla Presidenza USA; il cuore, il sentimento, l’amore tendono, al contrario, verso la persona amata.

Non è ovvio. È sbagliato misurare gli altri con il proprio metro: scegliere razionalmente significa operare una scelta partendo dai dati che si hanno, con l’obiettivo di mirare al meglio per sé (lo stesso Daniele aggiungeva un azzeccatissimo caveat: «E con migliore intendo al netto di tutto, quindi non solo da un punto di vista egoistico, perché la vita degli altri influenza anche la tua»). Ciascuno ha il diritto – quasi il dovere – di puntare alla propria felicità, quando questa non renda infelici altri individui. Lascio la parola a Dora:

A.D.: Poniamo il caso in cui io rifiuti la presidenza degli Stati Uniti per fuggire alle isole Kiribati col mio amato. Abbiamo elementi per inferire che l’abbia deciso irrassionalmente? No di certo: altri potrebbero dire «io non lo farei» o, al massimo, assardare ch’io abbia sbagliato per me stessa, ma non c’è alcuna ragione per dire che non abbia analissato a pieno la situazione. Semplicemente, penso che se sono davvero innamorata di una persona, stare al fianco di quella persona è ciò che mi rende più felice rispetto a ogni altra cosa, quindi qualunque rinuncia – anche la Casa Bianca – sarebbe minore confrontata alla privassione del mio amato.

Come potete apprezzare, Dora sta compiendo una scelta squisitamente razionale: valuta gli elementi in campo, e sceglie ciò che – lei crede – la renderà più felice. Tutto ciò perché la logica è soltanto un metodo, non un polo d’attrazione: per questo è necessario – anzi, obbligatorio! – un CASO. A partire dalle inclinazioni di ciascuno è necessario applicare il ragionamento per discernere fra scelte sensate e scelte insensate, scelte giuste e scelte sbagliate – e, ancor più essenziale – scelte aride e scelte innamorate.

Come dice sempre M. Doyen, un mio collega che insegna a Harvard: «what you believe, matters!». Ciò che uno crede e pensa, ciò che uno fa, ha delle dirette conseguenze, e non ci si può appellare alla presunta arbitrarietà dell’amore.
Perché è proprio questo il punto, è tutto il contrario di ciò che si dice: in amore non vale tutto. Anzi, vale pochissimo: non vale niente che sia meno del massimo.

A.D.: Ecco qui, cari studenti: il foglio che ho appoggiato sui vostri banchi contiene la domanda che il Professor du Lac vi ha assegnato questa settimana. L’invito è quello di motivare la propria risposta:

Potreste innamorarvi di un assassino?

Come la scorsa volta potete presentare le vostre risposte in questa sede oppure nella cassetta della posta di du Lac, che le analisserà nella tersa lessione. Con ciò vi saluto.

Arrivederci alla prossima settimana.

Giustizia e libertà

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Generalmente sono più antiberlusconiano, se così si può dire, delle persone con cui vado d’accordo – di solito – su altri temi. Ultimamente – per fare un esempio – mi ha colpito una cosa: a me le idee politiche di Vianello, nella valutazione dell’uomo, interessavano.

È chiaro, nessun individuo dotato di buon senso può ammirare l’operato di Berlusconi come Presidente del Consiglio, ma la malsopportazione che ho io va oltre la categoria politica: risiede in quell’elaborato dell’italianità peggiore che Berlusconi è, e rappresenta, con il suo atteggiamento verso le donne; la sua pretesa d’essere invidiato per degli atteggiamenti che in qualunque occhio critico generano soltanto desolazione. L’autocompiacimento di quello che – in un post quasi liberatorio – avevo definito un millantatore in punta di cazzo mi genera una ben poco ragionata rabbia: non sono in disaccordo, mi fa proprio imbestialire.

C’è, però, una cosa che mi ha sempre allontanato dalle più folte schiere degli oppositori monocratici di Berlusconi, un sinuoso atteggiamento di fondo che arrivo a presagire dalle prime frasi lette o ascoltate. Si tratta del furore punitivo, della gioia per interposta incarcerazione, dell’odio metodico, che molte persone – oserei dire “insospettabili” – hanno maturato. È come se un cruccio livido si fosse riuscito a insinuare in persone onestamente di sinistra – come un riflesso sciocco all’autoconcessa improcessabilità di Berlusconi – e questo rivoltamento avesse trovato una misura precisa, e neanche troppo nascosta, di disprezzo nei confronti dei detenuti, di presunzione di colpevolezza e coazione alla punizione che, ho paura, sarà davvero il peggior lascito di questi vent’anni di scena politica di Berlusconi.

Ricordo il mio costernato stupore, in una discussione che ebbi tanto tempo fa, sull’indulto: una mia interlocutrice, indiscutibilmente attenta alle cause dei più deboli del mondo, che affermava – con queste parole – di preferire 67 persone in carcere, fra cui Previti, al costo della violazione dello Stato di Diritto di 14.000 individui. Penso che quasi tutti i peggiori vizî della sinistra attuale vengano a cascata da lì: la violenza punitiva, l’atteggiamento inquisitorio, la professionale e clinica mancanza di fiducia. Quella compulsione al trovare un lato oscuro anche quando non c’è – e quindi anche al complottismo – che, da che mondo e mondo, era tutto ciò che non apparteneva al progressismo (tutte cose che, in realtà, aveva immortalato Staino in una splendida vignetta qualche anno fa).

Ci ho ripensato ieri, quando ho ascoltato questa intensa storia. È una puntata di una trasmissione – This American Life – che mi ha consigliato Max, e che è sempre fatta molto bene. Questo qui è un racconto bellissimo di un ragazzo – non più ragazzo – che ha ucciso un uomo durante una rapina. Da quel momento ha fatto 27 anni di carcere e comportamento esemplare: si è laureato, è diventato assistente carcerario per le questioni di droga, non ha mai fumato una sigaretta dove non si può. La sua voce, quello che dice, infonde di umanità tutto il contorno: è assolutamente ovvio che non abbia alcun senso ch’egli sia, ancora, privato della libertà.

La trasmissione – purtroppo – è in inglese, ma è un inglese piuttosto scandito. Ho tagliato il file in modo che ci fosse solo questa storia, cosicché sia più facile ascoltarla seguendo il filo conduttore del racconto: il file è qui, potete scaricarvela sull’ipod e ascoltarla in metropolitana, oppure basta premere “Play” in fondo al post.

Se non vi commuovete, se non sperate ardentemente per tutto il tempo che questa persona sia liberata – perché la giustizia! – se non vivete la sofferenza di quest’uomo, e non la percepite nella stessa metà del cielo – e non come contraltare – a quella della povera persona che ha ucciso, beh, penso che – uscito di scena quel Silvio Berlusconi – dovrete fare una lunga dieta.

This American Life

P.s. La prigione di cui si parla nel racconto è San Quentin.

Introduzione al CASO: il Corso

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Corso di Alfabetizzazione Sentimentale Obbligatoria – Prof. du Lac – 1° lezione

Che reazione avete se il vostro amato esce a cena con un suo pretendente? È più sano un rapporto in cui ognuno ha i-suoi-spazî? È sensato accettare i difetti di chi si ama? Essere gelosi è inevitabile o addirittura positivo? E l’onestà è necessaria: bisogna dirsi proprio tutto?

Cari studenti, piacere a tutti voi. Sono il docente che vi terrà questo Corso di Alfabetizzazione Sentimentale Obbligatoria (abbreviato CASO) la cui iscrizione è, appunto, obbligatoria.

Mi presento subito, sono il Professor Du Lac, sono laureato in Competenza Sentimentale alla prestigiosa Università di Kernow. Ho un Master in Struttura Amorosa alla scuola specializzata di Cherbourg de la Manche. PhD in Parole Giuste all’università Bonmatì di Tingi. Prima di tornare in Italia ho fatto diverse ricerche sul medesimo tema per l’Istituto dell’Abbazia Abbaiante di Londra. Dalla prossima lezione sarà presente anche la mia assistente – la dottoressa A. Dora – che vi introdurrò in quell’occasione.

Il Corso consterà di un numero di lezioni stabilito sulla base della vostra incompetenza. Ciascuna lezione vi servirà ad approfondire i diversi aspetti di una materia, l’alfabetizzazione sentimentale, nella quale si evidenziano enormi lacune anche negli studenti più preparati.
Il livello di accesso al corso è quello base: so che siete tutti delle capre. Non è requisito l’aver frequentato alcun insegnamento propedeutico, anche se è utile essere provvisti di qualche nozione di: Lingua italiana I, Logica elementare I e II, Letteratura a giro per il mondo I, Sorpresosità III e IV, Autostima III. Chi non avesse frequentato i suddetti corsi è caldamente invitato a procurarsene un manuale.

Ciò che imparerete trova valore e applicazione in qualunque tipo di rapporto d’affetto: uomini con uomini, donne con uomini, spaghetti con donne, cani con computer Apple – chiunque sostenga che due donne o due uomini non possono essere innamorati sarà immediatamente allontanato dall’aula per manifesta incompetenza sentimentale.

*** Facciamo ora un quarto d’ora di sosta. Alla ripresa cercheremo di fare una panoramica della metodologia e ragione d’essere del corso ***

Eccoci, cari studenti, riprendete posto.

Ci sono due cose su cui tutti ma proprio tutti – anche quelli che non ne sanno davvero nulla – mettono bocca con sottesa e sedicente competenza. Due cose: lo sport, soprattutto il calcio. E i rapporti umani, soprattutto i rapporti di coppia. Siamo 6 miliardi di allenatori della Nazionale, ma siamo anche 6 miliardi di amatori modello.

Eppure se io mettessi piede in un convegno di matematici affermando che il teorema di Laplace è una cretinata – e scusate l’anacoluto – pensate che qualcuno mi prenderebbe sul serio? Beh, no. Perché non ho nessuna competenza in quel campo. Io di matematica non so nulla: non l’ho mai studiata a livelli sufficientemente approfonditi per capirne davvero qualcosa. Il mio non sarebbe un parere ragionato.
Invece, per sport e sentimenti non funziona così. Ogni opinione sembra avere legittimità e vita propria. Ma se il calcio – almeno – ha un anticorpo, i rapporti di coppia non ce l’hanno: il Barcellona e il Chelsea non prenderanno mai ad allenare l’ubriacone al pub che inventa formazioni alternative – invece nei rapporti umani ognuno è l’allenatore di sé stesso. E, peggio ancora, pensa di essere il migliore allenatore possibile.

Ognuno – certo – ha il proprio pensiero, ma la tua libertà di pensarla in un modo finisce dove inizia la mia libertà di criticare quel modo. E precisamente questo è l’uopo del corso: criticare quel modo.
Ciò che dobbiamo fare è recuperare lo spazio di discussione perduto: ragionare d’amore non è come ballare d’architettura. Pensare è utile per capire cosa è giusto fare; sentire è utile ad avere la forza per farlo. Di questo fittizia contraddizione, fra emotività e razionalità, avremo modo di parlare nelle lezioni a venire.

Mi resta soltanto da assegnarvi i compiti per casa: come unico lavoro – varrà come prova d’ingresso – vi chiedo di rispondere al seguente quesito:

Vi viene offerto il posto di Presidente degli Stati Uniti, ma voi decidete di fuggire alle isole Kiribati per seguire la persona di cui siete innamorati. Fate bene o male? Il vostro è un comportamento razionale?

La risposta a queste due domande può essere presentata nel form dei commenti qui sotto oppure nella mia cassetta personale della posta: le vostre prove saranno commentate e analizzate, assieme alla spiegazione di quale sia la risposta corretta, durante la prossima lezione – che, vi prometto, sarà più breve.

Bene, ringrazio tutti dell’attenzione, e vi do appuntamento alla prossima settimana.

Stress and weight gain

Stress can significantly impact your ability to maintain a healthy weight. It can also prevent you from losing weight. Whether it’s the result of high levels of the stress hormone cortisol, unhealthy stress-induced behaviors, or a combination of the two, the link between stress and weight gain is glaring.1

The Link Between Stress and Cortisol

Researchers have long known that rises in the stress hormone cortisol can lead to weight gain. Every time you’re stressed, your adrenal glands release adrenaline and cortisol, and as a result, glucose (your primary source of energy) is released into your bloodstream. All of this is done to give you the energy you need to escape from a risky situation (also known as the fight or flight response).2https://2619a7b0dc31b4fcdf5e22c8430a96c7.safeframe.googlesyndication.com/safeframe/1-0-38/html/container.html

Once the threat has subsided, your adrenaline high wears off and your blood sugar spike drops. This is when cortisol kicks into high gear to replenish your energy supply quickly. Check out the latest Pelvic floor strong reviews.

Watch Now: 5 Ways Stress Can Cause Weight Gain

Cortisol and Sugar Cravings

Cue the sugar cravings. Because sugar supplies your body with the quick energy it thinks it needs, it’s often the first thing you reach for when you’re stressed.3Check out the latest

The downside to consuming so much sugar is that your body tends to store sugar, especially after stressful situations. This energy is stored mainly in the form of abdominal fat, which can be particularly hard to shed. And so the vicious cycle starts: get stressed, release cortisol, gain weight, crave more sugar, eat more sugar, gain more weight.https://2619a7b0dc31b4fcdf5e22c8430a96c7.safeframe.googlesyndication.com/safeframe/1-0-38/html/container.html

Cortisol and Metabolism

Even if you aren’t eating foods high in fat and sugar, cortisol also slows down your metabolism, making it difficult to lose weight.

In 2015, researchers from Ohio State University interviewed women about the stress they had experienced the previous day before feeding them a high-fat, high-calorie meal. After finishing the meal, scientists measured the women’s metabolic rates (the rate at which they burned calories and fat) and examined their blood sugar, cholesterol, insulin, and cortisol levels. Try out gluco shield pro.

The researchers found that, on average, women who reported one or more stressors during the prior 24 hours burned 104 fewer calories than non-stressed women.4 This could result in an 11-pound weight gain in one year. Stressed women also had higher insulin levels, a hormone that contributes to fat storage.https://2619a7b0dc31b4fcdf5e22c8430a96c7.safeframe.googlesyndication.com/safeframe/1-0-38/html/container.html

Stress-Induced Unhealthy Habits

In addition to the hormonal changes related to stress, stress can also drive you to engage in the following unhealthy behaviors, all of which can cause weight gain:

  • Emotional eating: Increased levels of cortisol can not only make you crave unhealthy food, but excess nervous energy can often cause you to eat more than you normally would.5 You might find that snacking or reaching for a second helping provides you with some temporary relief from your stress but makes healthy weight management more difficult.
  • Eating “accessible” or fast food: When we are stressed, and not planning, we tend to eat the first thing we see and/or what is readily available and accessible, which is not always the healthiest options. You may also be more likely to drive through a fast-food place, rather than taking the time and mental energy to cook a balanced, healthy meal, learn more about biofit customer reviews.
  • Exercising less: With all the demands on your schedule, exercising may be one of the last things on your to-do list. If so, you’re not alone. A long commute and hours spent sitting behind a desk can leave little opportunity for physical activity.
  • Skipping meals: When you are juggling a dozen things at once, eating a healthy meal can drop down in the list of priorities. You might find yourself skipping breakfast because you’re running late or not eating lunch because there’s just too much on your to-do list.
  • Sleeping less: Many people report trouble sleeping when they’re stressed. And research has linked sleep deprivation to a slower metabolism. Feeling overtired can also reduce willpower and contribute to unhealthy eating habits.

How to Break the Cycle of Stress and Weight Gain

When you’re stressed out, healthy behaviors likely eating properly and exercising regularly can easily fall by the wayside. Maintaining a schedule and/or routine can help make these healthy behaviors a habit and combat stress-related weight changes. Here are a few strategies that can help you break the cycle of stress and weight gain:

  • Make exercise a priority. Exercising is a critical component of stress reduction and weight management. It can help you address both issues simultaneously, so it’s essential for warding off stress-related weight gain. Whether you go for a walk during your lunch break or hit the gym after work, incorporate regular exercise into your routine.
  • Eat healthier comfort foods. You don’t need carbs or fats to make you feel better.One of the few studies testing the effectiveness of comfort foods in improving mood found that eating relatively healthier comfort foods, such as air-popped popcorn, is just as likely to boost a negative mood as “unhealthy” foods.6 Making sure your pantry is stocked with these types of foods will make it easier to grab a healthier option during times of high stress.

Pansessualismo un cazzo

Negli angoli dei dibattitoi che frequento io si è molto discusso di questa intervista a Monsignor Girotti: la cosa che ha destato scandalo è che il monsignore in questione abbia ribadito il concetto che sia più facile assolvere un pedofilo (quindi anche un prete pedofilo), rispetto a una donna che abbia abortito.

Mi sono venute in mente varie cose, e sono spunti che ricollego a discussioni fatte in passato con persone con cui avevo fruttuosamente dibattuto temi vicini:

  1. La cosa che mi ha colpito subito è come sia, invece, passato in sordina un concetto orribile, al quale però siamo abituati e che quindi non desta scandalo. Girotti dice che un confessore a cui vengano raccontati i peggiori atti di pedofilia non solo non possa, ma non debba (pena la scomunica ispo facto) né denunciare all’autorità giudiziaria né, neanche!, imporre in coscienza l’autodenuncia. In questo c’è tutto un retroterra di cose spregevoli che, un giorno, dovremo anche voltare: la superiorità del potere spirituale su quello temporale, ma soprattutto l’idea che la delazione sia offesa all’individuo e tradimento, anziché dovere civico nei confronti della società. Per quanto mi riguarda l’omessa denuncia dovrebbe valere, quasi e quanto, la connivenza con il reato.
  2. Sul tema pedofilia/aborto, Marco ha detto due cose, la prima – trovo – un po’ sciocca, ovvero che i non credenti non dovrebbero preoccuparsi delle questioni interne alla Chiesa. Criterio davvero inusuale: valutiamo tutte le cose, sia quelle a cui apparteniamo che quelle a cui non apparteniamo. Se leggo che un’istituzione considera più grave il furto dell’omicidio, peggioro la mia opinione di quell’istituzione, anche se non vi appartengo. Così valuto, nel bene o nel male, la Chiesa esattamente in base a chi e come sceglie di scomunicare, o punire, per quanto la scomunica stessa – a me non credente – non faccia alcun effetto.
  3. La seconda cosa che ha fatto notare Marco, e qui sono più vicino al suo pensiero, è “dove sta la notizia?”. La prassi della Chiesa è in gran parte una questione politica e diacronica. Il fatto che l’aborto sia considerato fra i peccati da cui non ci si può lavare, e non lo sia la pedofilia, è dato da una serie di concause più storiconaturali che dottrinarie – per quanto le due cose siano necessariamente intrecciate – e che quindi saranno probabilmente emendate, se la questione della pedofilia assumerà, nel mondo, l’importanza che sta assumendo. In altre parole, queste mie e non di Marco, la Chiesa correrà ai ripari per difendere la propria sopravvivenza, come ha fatto tante altre volte nel corso dei secoli.
  4. Questa considerazione mi ha fatto ripensare a uno scambio di battute che avevamo avuto con Rosa, per altri versi, in cui lei aveva sostenuto che la pedofilia fosse il nuovo simulacro del Male della nostra società. Che ovviamente è una cosa grave, da contrastare e da punire, ma che il tic mentale per cui – attualmente – quando si pensa all’esempio di “cattivone, cattivone, cattivone” viene subito in mente un pedofilo – diceva Rosa – dimostra un accanimento quasi morboso e monotematico. Non ha torto, ho pensato. È un discorso lunghissimo che non mi sento in grado di affrontare ora, ma credo che affondi nella stessa concezione del sesso che costituisce il mio quinto spunto di riflessione: si è portati a pensare in qualche modo che siccome il sesso è male, farlo su di un bambino è ancora più grave. Credo, invece, che bisognerebbe spostare l’inaudita gravità dell’atto di pedofilia sul bambino, e non sul sesso. Invertendone l’ordine e la causa: la gravità non può essere situata nell’atto, nella libido, ma nell’impossibilità che un bambino sia consenziente.

Infine, e questo è il pensiero che più mi sta cuore, una cosa squilibrata che ha detto il mio amico Fra’ Alberto nel tentativo di contestualizzare le pulsioni pedofile dei membri del clero: “potremmo provare a ripensare l’educazione, la società e il pansessualismo che c’è nei media, sarebbe un inizio“. Sono certo che Alberto non abbia alcuna simpatia – né desiderio di concedere attenuanti – ai suoi colleghi sporcaccioni, non penso quindi che abbia espresso quel pensiero per difesa della categoria: sono persuaso, e potrei scommetterci una grigliata, che – parlandone in privato – ad Alberto verrebbe meno anche la carità cristiana “io, quelli lì, li appenderei per le palle”, mi direbbe.
È però, e invece, per una concezione deviata del sesso – quella che imputa al “pansessualismo” le perversioni, che vede nella liberazione sessuale un disordine e una tentazione – che Alberto ragiona così. È per l’idea che l’uomo sia un tumulto d’istinti orribili, e che l’unica possibile risposta sia la costipazione. È per la frase con cui lo stesso Alberto mi spiegò la sua risposta – che già citai qui, con il suo permesso – a una mia domanda sul celibato e alle pulsioni: «bisogna contenersi, bisogna trattenersi», mi disse, quasi orgogliosamente.
Ecco, è esattamente – con la precisione di un bersaglio centrato – per questa idea ingloriosa, questo concentrato di odio verso il terreno e il gioioso, per questo morboso fascino per il divieto e la costrizione, che il tasso di incidenza della pedofilia all’interno del clero è spropositato.
È l’esatto opposto di quello che dice il Vaticano, non è la possibilità di vedere e praticare il sesso che favorisce la pedofilia. È, al contrario, quell’atmosfera di costrizione patologica, di pelosa vergogna, a cui viene sempre accostato il piacere sessuale, a coltivare il terreno dei turbamenti e delle perversioni, dei divieti e della depravazione.
Se la Chiesa smettesse di dire, ogni volta che si distribuiscono dei profilattici nelle scuole, la frase più stupida del mondo “così si banalizza la sessualità”, farebbe sì un pubblico servigio alla società, e a sé stessa. Se iniziasse a capire che dire che il sesso fra due adulti consenzienti è banale, è come dire che lo è una mangiata in compagnia di amici, e mille altre cose che nessuno si figurerebbe di censurare.
Se, insomma, si mettessero in testa la cosa più elementare (banale?) del mondo, ovvero che non possono esistere dei crimini senza vittime, che il Male (con la “M” maiuscola) può esserci solo dove si fa del male (con la “m” minuscola) a qualcuno, e che quindi una cosa che fa piacere alle uniche due persone implicate non può costituire nessun Male – beh, se ci arrivassero veramente – riuscirebbero davvero a fare ciò che professano: aiutare a lottare contro i veri crimini, quelli con le vittime, quelle non consenzienti.

Contro il burka e perciò contro Daniela Santanchè

Ovviamente Daniela Santanché in quanto essere umano è un pretesto.

Oggi Daniela Santanché è andata a fare una piazzata davanti a una moschea, sembra, cercando di togliere di forza il velo alle donne che passavano. È possibile che quando la destra si appropria delle battaglie della sinistra, lo faccia con i modi della destra.

In tutto questo ci sono dentro decine di paradossi: mi domando con quale titolarità una persona che – in campagna elettorale – a qualunque domanda (le case, il welfare, l’occupazione) rispondeva con grida «prima gli ITALIANI!» possa dire di voler difendere quelle donne dalle vessazioni dei loro mariti o fratelli. Prima gli italiani un cazzo, prima le persone che vengono discriminate, che vivano in Mali o in Italia, che siano marocchine o italiane.

Effettivamente io contesto spesso l’ignavia connivente della sinistra su questi temi, il fatto che i progressisti si siano dimenticati del progresso; ma c’è tutta un’area politica che fa dell’equivoco opposto una linea. Se i fascisti vecchio stampo (Movimento sociale, fiamma tricolore, fronte nazionale) sia per antisemitismo che per antiamericanismo, oltre che per una fascinazione per l’ordinamento tradizionale del nazionalismo islamico, conservano il loro menefreghismo (non a caso) per le donne e gli omosessuali nell’Islam, una parte di destra “moderata”, talvolta addirittura la Lega (il partito dell’Egoismo Disgustoso) combatte il multiculturalismo con la stessa arma spuntata.

santanche_statistaPerché l’identitarismo con cui Santanché combatte il multiculturalismo, è il riflesso dello stesso concetto. L’altra faccia della medaglia dell’assunto che ogni cultura ha valore a casa propria, e così noi abbiamo più diritti nel nostro Paese. Lo sciocco argomento con cui Santanchè dice «a casa nostra decidiamo noi» è, implicitamente, l’uguale inveterata domanda multiculturalista «chi sei tu per dire come deve vivere una persona in Arabia Saudita?».

Si tratta, in realtà, del medesimo macroscopico e razzista errore del pensare che i diritti umani, quelli delle donne, e quelli degli omosessuali, siano “concetti occidentali”, anziché patrimonio di tutti, e che – per ragioni che possiamo indagare, ma non certo genetiche – alcuni ci siano arrivati prima di altri.

In fondo quello che interessa a queste persone è avere i burka fuori dallo sguardo, che queste cose si facciano, ma si facciano lontane dal proprio Suolo sacro. Non è un caso che, spesso, si senta dire «se vogliono fare di queste cose alle loro donne, rimandiamoli a casa loro»: già su quel “loro” ci sarebbe da scrivere un’invettiva chilometrica, ma – al di là di quello – la domanda è: e quando sono “a casa loro” che fanno? Tratteranno le donne meglio di quello che avrebbero fatto in Occidente? Casomai il contrario.

Così, Santanchè combatte un comunitarismo terribile e perncicioso con un altro comunitarismo altrettanto – in essenza – conservatore; difende una cultura che ha fatto le proprie conquiste proprio a scapito delle persone che – nel tempo che fu – la pensavano come lei, quelle che difendono la propria cultura in quanto status quo. L’accartocciamento sui proprî-valori per cui i mussulmani che mettono gli omosessuali fuori legge sono barbari, ma – figuriamoci – se gli stessi devono avere il diritto di sposarsi!

Se Santanché può andare in giro in minigonna e supertruccata – e, se a lei piace, fa benissimo a farlo – è perché ci sono state persone che hanno sfidato quelli che – proprio come lei ora – vedevano nella cristallizzazione della propria società in quel momento temporale, il loro fine e il migliore dei mondi possibili.
La Storia, intanto e per fortuna, va avanti.

La preda

Il problema è che Berlusconi proprio non la capisce la costernazione sul viso di Zapatero (minuto 7.59), e di tutti noi. Berlusconi non riesce a misurare gli altri fuori dal suo metro di machismo dell’altro secolo, e davvero ci crede.

Io non gli chiederei conto delle sue bugie – se gli fossi amico – ma di quella concezione dozzinale e meschina del rapporto uomo-donna, dell’ironia da caserma fascista. Del suo essere portatore insano e orgoglioso di quell’insieme di sessuofobia e sessuomania che è quella malintesa virilità, il latin lover nella peggiore delle accezioni di questo concetto: quello che ha paura del sesso e se ne vergogna, la considera una cosa insana, ma al tempo stesso ha un’ossessione; la mente sempre puntata lì all’infrazione della norma – ovviamente soltanto nelle orecchie degli amici al bar, che ascoltano le tronfie spacconerie di un millantatore in punta di cazzo.

No Berlusconi. Non è invidioso quel giornalista (min 1.27), non sono invidiosi i giornalisti in sala. Non sono invidioso io, non sono invidiose tante persone – neanche di buon senso – soltanto normali. Non c’è nessuna, nessuna, nessuna, nessuna, nessuna, ragione al mondo per essere invidiosi del fatto che alle tue feste ci siano le veline, mentre alle nostre ci siano i nostri amici.

Togliti quindi quel sorriso ebete dalla bocca, hai fatto una figuraccia. Per fortuna l’hai fatta, perché fuori dall’Italia, anzi, fuori dalla trista cerchia dei tuoi accoliti, quell’uscita non fa ridere. Nessuno ti fa una domanda del genere, se è invidioso.

Non dico mica che non si possa essere invidiosi di Berlusconi, eh, anzi, considero l’invidia il motore del mondo, ciò che spinge un uomo a migliorarsi, vedendo un altro migliore. Ma è proprio questo il punto. L’idea che traspare della tua vita e della tua corte è terribile, orrida: degna di compassione.

Il cameratismo miserabile con il quale ti appelli ai maschi in sala (4.30) per far loro confermare – in coscienza – che guardare anzi, perdona, “posare gli occhi” su una bella donna rende una cena gradevole è della stessa schiatta delle tue battute da mani nei capelli: “le femmine per fare una domanda, devono lasciare il numero di telefono”, hai detto, l’altra volta. Non fa ridere. Non c’è nulla da ridere. Non si può ridere per una cosa del genere, se non si ha una concezione virulenta e proibitistica del sesso.

Lasciamo stare il fatto che, tu, quelle donne l’hai pagate, ma quale folle ragionamento ti fa pensare che difendersi da quell’accusa spiegando che non l’hai mai fatto perché ti piace la conquista (min 7.46) ti renda meno poveraccio e inadeguato?
Sono settantanni che, almeno in Occidente, non si considera più la donna come una preda, anzi, che la donna stessa – grazie al Cielo – non si considera essa stessa una preda. Se tu vai a letto con una donna, non la stai “fregando”, non sei riuscito a eludere le sue difese. Magari va anche a lei, magari più che a te, o magari le vanno i tuoi soldi. E non c’è niente di male, ti dirò: fa bene, lei.
Ma la preda sei tu.