Arbitro venduto

Allora, c’è questo giovane di meno di trent’anni che fa la sua vita. Non si direbbe proprio spensierata, perché qualche pensiero ce l’ha, però ha scelto la sua strada e la sta percorrendo più o meno coerentemente, anzi, conoscendo il tipo – ci si dovesse scommettere un Euro – diremmo molto coerentemente. È ebreo, come capita, è nato in Turchia, anche questo capita. Il Nostro ha una passione: perseguitare i cristiani. Ora, non si sa bene se davvero li perseguiti fisicamente, o se più probabilmente cerchi di screditarli all’interno della propria comunità religiosa: effettivamente chi c’era, al tempo, non racconta di uccisioni deliberate, ma il nostro ragazzo ha una scrittura esuberante, e – si sa – quando si è giovani si tende a sopravvalutare la portata delle proprie azioni: ci sta che questo giovanotto avesse voluto vantare dei meriti che non gli appartenevano fra i suoi correligionari, perché – sì – il protagonista della nostra storia era anche una delle autorità più importanti nel suo mestiere: il persecutore.

Un giorno il nostro ragazzo si mette in viaggio per Damasco – ora lo so che avete capito di chi sto parlando, ma seguitemi un attimo – è un viaggio importante, di lavoro si direbbe. E il nostro Paolo è tutto intento a ripassare i suoi compiti. È lì che rimugina su catene, controindicazioni, autorizzazioni che deve ottenere. È un viaggione del resto, e di tempo per pensare ce n’è: lui, poi, c’è abituato, di questi viaggi interminabili – probabilmente a cavallo – ne ha fatti molti. E difatti è quasi arrivato a destinazione.

san paolo
San Paolo

Fermiamoci un attimo: abbiamo questo ebreo, Paolo di Tarso, che ha preso la sua strada. L’ha proprio decisa. Va detto – a onor del vero – ce l’ha già un po’ col sesso, e i maligni dicono che sia perché nessuno se lo fila, però non è da questi particolari che si giudica un persecutore. È un tipo risoluto, mica no: ha scelto la propria religione, ha scelto il suo Dio. Non come tanti di noi che dicono di credere e poi l’ultima volta che sono andati in chiesa era per il matrimonio di Gino (che ha già divorziato). Paolo no: ha scelto il suo Bene. Certo, si possono avere diversi pareri sulla bontà dell’opera di perseguitare i cristiani – personalmente non la trovo particolarmente commendevole – però non si può dire che Paolo non ci metta passione, dedizione e olio di gomito.

E chi t’arriva? Tiè. Il jolly. Er mejo figo der bigonzo, il Capo dei Capi – cioè il figlio del Capo dei Capi, che però è pure Capo dei Capi in proprio, eh lo so, è una storia è complicata – e gli dice: Saulo (a quel tempo era d’uso cambiare i nomi, come i calciatori brasiliani)! Paolo! «Perché mi perseguiti?».  Come chi sono? Tu chi è che perseguiti? I seguaci di Gesù! Quindi io sono Gesù! Come dici? Che allora avrei dovuto dire “perché perseguiti i miei seguaci”? Mmm, sai che forse c’hai ragione? Anvedi ‘sto Paolo, mica scemo! Ecco, difatti io ti ho scelto! Come “scelto per cosa”? Per perseguitare chi mi perseguita! Vabbè, vabbè, poi troviamo il modo per semplificarla.

E pensate che questo gli basti? Macché! Dicono pure che l’abbia fatto cadere da cavallo, anche se quella se l’è un po’ inventata caravaggio. Sufficiente così? No, non ancora. Non sia mai che quello rimanga un po’ scettico rispetto ai super poteri del Boss: l’ha accecato per tre giorni, e poi gli ha fatto tornare la vista dal curatore di occhi ciechi di fiducia.

libero arbitrioarbitro venduto

Oh! Ma il libero arbitrio? Come che? L’asso pigliatutto nelle discussioni, quello per cui «ma scusa, ma i milioni di miliardi di milioni uccisi in nome di Dio?» «beh, c’è il libero arbitrio: gli uomini sono liberi!». A ‘sto poveraccio di Paolo non spettava il suo misero libero arbitrio?

Signor Dio, e che ci si comporta in questo modo? Gli devi apparire così – zack! – e quello che può dire? Mica può dire: «eh, ma non ci sei». Ti vede! Com’è che non fai la stessa cosa con tutti gli assassinî? Guarda, non ti dico Stalin che non credeva in Te (ma in fondo gli potevi apparire lo stesso e fermarlo, che Ti costava?), diciamo Pinochet: quello era convinto d’operare nel pieno rispetto delle regole del Signore (sì, saresti Tu). Woitjla, il tipo che avrebbe anche dovuto essere il Tuo rappresentante in Terra, gli scriveva pure lettere d’amore. E Tu che hai fatto? Niente.

Mi dicono sempre che non gli potevi apparire perché sennò la sua libertà ne sarebbe stata intaccata (che poi ci sarebbe la libertà dei desaparecidos trucidati, di quella non ci curiamo perché dobbiamo rispettare quella di Pinochet? E anche la libertà della bambina indonesiana portata via e affogata dalle onde, quella vale meno rispetto alla libertà di… ehm… dello tsunami?). Cavolo, andavi lì e gli dicevi: «Pinochet, non si fa». Te lo dico io – lo so che non vuoi essere presuntuoso perché è un peccato capitale – T’avrebbe dato retta: Sei Dio!

Quando io dico che il libero arbitrio non lo voglio, ma voglio operare solo per il Bene, mi dicono sempre: «ma che vuoi essere, un burattino?». San Paolo, quello che ha fondato la tua Chiesa, era un burattino? Per i persecutori di cristiani il libero arbitrio non vale? Ecco poi: perché a me un’apparizioncina non spetta? Guarda che posso cominciare da domani, a perseguitarli. Anzi, anzi mi vengono mi mente alcuni cristiani che ti potrebbero dire che li perseguito, un paio leggono pure il mio blog, nel caso butta un… cioè… l’occhio (ce n’hai uno solo, vé?) ai commenti per una conferma.

Tanto io lo so come mi risponderai, caro Dio: «È un mistero».
Bella forza. Sempre così. ‘Ste cose non le posso capire. Non è nelle mie possibilità. Non ci arrivo.
Certo che, caro Signor Dio, mi potevi creare un po’ meno scemo.

Abruzzo diciannove

La peggio gioventù

I volontari in Abruzzo non sono quelli che t’aspetti. Intanto sono tantissimi, tanti, tantissimi. Anche a distanza di due mesi dal terremoto c’è sempre gente nuova che vuole partire. E poi sono, come dire, normali.
Io ho bazzicato, un po’, l’ambiente del volontariato, e di solito i “tipi” di persone che s’incontravano erano abbastanza codificabili, anche in senso positivo: con un impegno che era consistente di tutta l’architettura teorica che c’era sotto, in qualche modo una “teologia dell’impegno”. In qualche misura posso dire che, nel volontariato, si potrebbe incontrare quella che – per alcuni versi – è la meglio gioventù.

In Abruzzo è diverso, e te ne rendi conto davvero subito. Vorrei usare un’altra parola, ma mi viene in mente quello sketch di Gerini e Verdone, in cui c’è lei che si domanda com’è stato e dice qualcosa come «è stato strano, proprio perché è, come dire… strano, ecco» Come dire… normali. Ragazzi normali. Che si ubriacano la sera, e che si fanno un sacco di canne. Tutte le porzioni della società, tutti i tipi, quello ricco e quello povero, quello abruzzese, e quello non abruzzese, il maschio e la femmina, quello di sinistra e quello di destra.

Un sacco di gente che magari non se l’è chiesto neanche, perché fosse giusto partire, semplicemente gli è venuto, ed è partita. C’è il farmacista barese, con una svastica tatuata sull’anca, che ha preso due giorni di ferie ed è venuto a pulire i cessi e lavare le pentole, in punta di piedi. È un caso limite, ma dà l’idea. C’è là studente calabrese all’Aquila, a cui sono caduti i calcinacci in bocca mentre dormiva ed è riuscita a uscire dalla stanza prima che crollasse, che è scesa giù in Calabria, per stare tranquilla. Ma poi è subito tornata a dare una mano, come spinta da un senso del dovere, da una coscienza extra-corporea. Ce ne sono tante di queste storie, e sono pochissimi quelli che pontificano sull’importanza del volontariato, che lo considerano una missione. Non sono certo la meglio gioventù, come detto. Forse sono la peggio gioventù, o forse la gioventù e basta.

E sì, sono tutti giovani. Di over 35 ne avrò visti due o tre su una quarantina di volontari. Sicuramente, anche, perché chi ha venticinque anni e non ha una famiglia, può più facilmente armarsi di tenda e picchetti, e lasciare la propria città per qualche tempo, ma anche – secondo me – per dell’altro.
Io credo che la mia generazione abbia trovato nel volontariato, nel “fare del bene”, una sorta di coscienza collettiva ammirata da tutti – forse anche troppo, perché è chiaro che ognuno viva delle proprie piccole licenze – anche da coloro che non trovano il tempo o il modo di farlo.
Può essere che sia a causa della (benedetta) morte delle ideologie, che la mia generazione, e quella più giovane di me, abbiano sostituito con l’impegno sociale, quello che era l’impegno politico della generazione dei miei genitori e dei miei nonni.

Ma mi sembra che sia davvero così, leggevo su questo libro, che il volontariato è un fenomeno nato praticamente negli ultimi vent’anni, e che è il settore in maggiore espanzione. È bello pensare che sia così: del resto nel mio piccolo campione d’osservazione posso dire che più della metà dei miei amici ha fatto esperienze simili, mentre ne ricordo una o due nella generazione dei miei genitori. Ovviamente ci sono mille eccezioni. E forse, semplicemente, a quel tempo non era il tempo.

Era un pensiero che covavo da un po’, e l’ho formalizzato così, in Abruzzo, dormendo accanto a uno con una svastica tatuata sul corpo. Le vie del pensiero sono infinite.

Quando mi tira dentro il vento dell’ottimismo penso a questo; io spero e credo che la generazione di mia sorella, che ha 7 anni meno di me, ci mangerà in testa. E così via.
Ci sarà da divertirsi.

Dialogo fra un cristiano e una famiglia di non so

Mia sorella – neo diciannovenne, potrebbe essere una studentessa del Prof Beccaria – legge l’ultima parte del dialogo fra me e Marco e non si capacita della mancanza d’acribìa di ciò che scrive Marco, e di quello che gli rispondo io – insomma, dà degli scemi a entrambi!

Allora le chiedo di scrivere, lei, una risposta più decente alle argomentazioni del prof. Non è sorprendente che mi prenda in parola, e lo faccia veramente, ma che la sua risposta mi convinca decisamente più della mia. E la trovi, davvero, più efficace.

Con il permesso del mio dibattente, dunque, la pubblico qui e nella prossima argomentazione che mi spedirà, includerà anche le risposte a queste obiezioni.

Includo le parti a cui lei risponde, in modo che, chi non ha voglia, non debba andare a rileggere l’ultima email di Marco, cosa che ovviamente consiglio per completezza di pensiero:

°°°

Al netto di ogni altro discorso, mi pare che la tua obiezione sia: constatato che al mondo esistono e sono esistiti cristiani che compiono il bene e cristiani che compiono il male, come faccio a sapere che il mio comportamento (che tu, Giovanni, benevolmente immagini come orientato al bene) sia la retta interpretazione del cristianesimo, dal momento che anche la mia antitesi, il cristiano malvagio, crede di saperlo in merito alla sua? La mia risposta forse ti deluderà per banalità, ma è la seguente: lo so perché possiedo i neuroni specchio e mi identifico nella possibile vittima dell’aggressione malvagia;

Ma questo non c’entra. La domanda più precisamente era: “perché credi che la tua interpretazione sia quella giusta”, non “perché credi nella tua interpretazione?”. Il problema di non contare sui fatti, ma sulle interpretaizoni è proprio questo; chi ti dice che l’interpretazione di quei testi operata da Agostino, sia meno esatta di quella che propugni tu? Il problema non è nei principii, non stiamo entrando nel merito, e in un visione laica (atea?) sei sicuramente migliore tu di lui (Agostino), ma non è questo che ci interessa. Quello che ci interessa è: Dio voleva scrivere un libro, l’ha dettato a un po’ di uomini che hanno capito quello che hanno capito e l’hanno scritto, ora a noi tocca interpretarlo. Ma perché lo interpretiamo? Lo interpretiamo, perché vogliamo capire cosa diceva veramente Dio, al di là della mediazione dell’uomo (limitato in tempo-spazio-cultura e bla bla bla). Insomma, Dio ha detto sicuramente una cosa giusta, quindi vogliamo capire cosa ha detto, per capirlo dobbiamo interpretare il testo. Solo che uno lo interpreta in un modo (e quindi Dio, quello più fico di tutti, dice di lapidare persone) e tu -e molti altri- in un altro (e quindi Dio, lo stesso più fico di tutti, dice “volemose bbene”). Il nostro problema è quindi di carattere tecnico; non entrando nel merito -ripeto-, diamo per assunto che Dio abbia detto sicuramente una cosa giusta (e soprattutto che esista). Ma dobbiamo capire cos’ha detto! Finché le nostre incompetenze, la nostra cultura, i nostri condizionamenti e tutto quello che ti pare, ci fanno comprendere male quello che diceva Tacito, alla fine chissene. Ci dispiace, ci sentiamo un po’ scemi a pensare che studiamo cose che ci siamo inventati, però alla fine amen, non è mica Dio, appunto. Tacito non ci insegna mica la “verità”, la “salvezza”, il “bene” e via e via. O meglio, per la precisione, siamo noi che non vogliamo farci insegnare questo da Tacito. Quindi il punto è: ti senti così sicuro che la tua interpretazione sia quella giusta? E se non fosse quella giusta, se tu quindi stessi alterando i desideri/gli ordini di Dio, avresti la stessa credibilità (di fronte a Dio), di un ateo, di uno shintoista, o di un adoratore di galline: non posso essere sicura che sia così nel Cristianesimo, ma penso che contino i fatti, più ancora della buona fede, in questo caso. Mi spiego meglio con un esempio esagerato: se in totale buona fede io credo di dover ammazzare tutti quelli che non la pensano come me (ammettiamo qui che Dio sia contrario a questo), voglio sperare che questo Dio-buono non apprezzi la mia buona fede, ma piuttosto mi punisca per aver interpretato male le sue leggi, i suoi insegnamenti. Altrimenti, davvero non avrebbe senso aspirare alla comprensione completa di un testo: a cosa mi serve, se Dio apprezza più la mia buona fede della realtà dei fatti che compio?

°°°

lo so perché il sentimento morale di umana simpatia mi fa immaginare l’orrenda serie di sensazioni che una vittima di quelle violenze deve aver provato; lo so perché due cose riempiono il mio animo di ammirazione e venerazione: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me; lo so perché ragionevolmente un modo nel quale si massacri il prossimo è un mondo infinitamente peggiore di quello dove si cerchi di collaborare e – almeno – tollerarsi.

Questo perché? Per nient’altro che utilità, perché questa morale basata sull’empatia, la non-violenza, e la fratellanza, o quello che ti pare, ci rende la vita più semplice e agevole. O più precisamente, la realtà che si realizzerebbe basandosi su questa morale/ questi principii, risulterebbe più semplice e agevole, rispetto a una in cui gli uomini si ammazzassero a vicenda. Come direbbe Bentham (lo direbbe?) la morale esiste perché ci siamo messi d’accordo. Non c’è un bene assoluto, né un principio assoluto, però se dicessimo che ammazzare è bene, ci ammazzeremmo tutti e il mondo andrebbe allo scatafascio. Però, quest’idea non presuppone nessun dio. Tu, cristiano, non mi puoi dire che il Bene con la b maiuscola è questo, perché altrimenti il mondo andrebbe allo scatafascio; te lo posso dire io, perché quando parlo di bene, preciso che è un bene con la b minuscola. Quindi me lo puoi dire, se però ammetti che il bene ce lo scegliamo da noi. Ma per il Cristianesimo Il Bene è Bene, perché Dio è Bene.

°°°

Quindi l’unica interpretazione del Cristianesimo (e di qualsiasi altra cosa) che mi possa interessare fare mia è un’interpretazione che corrisponda a questa serie di intuizioni/sentimenti/ragionamenti.

Questo però non è un grande spirito di fede. Sembra che tu ti sia scelto la tua fede a tavolino, quindi con motivazioni ragionevoli e scientifiche. E per carità, se parlassimo tra persone (e in àmbiti) razionali, saremmo tutti d’accordo che bisogni “scegliere”, e che il problema della religione sia proprio la “non scelta”. Ma la fede non è mica un scelta. Per questo crea così tanti disastri nel mondo, non si può mettere in discussione, proprio perché non è qualcosa di razionale (“a tavolino”). Se la fede fosse una scelta, tutti i problemi (o quasi) legati alla religione, verrebbero meno; essendo “obbligati” a spiegare e dimostrare il proprio “bene”, si cercherebbe il bene “migliore” (ovviamente nel senso in cui ho spiegato prima: il bene più vantaggevole).

°°°

È, come già scrivevo, il racconto di una serie di eventi legati all’idea che gli uomini possano essere salvati da tutto ciò che, nelle loro vite, è miseria e dolore, in particolare dalla sofferenza, dalla loro irriducibile tendenza a combinare guai (ciò che noi chiamiamo “peccato”, con termine forse desueto) e dalla morte. Magari sarà pure – come sospetti – una colossale illusione e un terribile inganno, ma l’illusione e l’inganno si collocano, semmai, dentro il racconto e la continuazione di quella storia e non nella supposta incoerenza o indeducibilità di un codice di comportamento ricavato da un libro.

Ma uno dei motivi per cui ipotizziamo (ipotizzo? Ipotizza?) che sia un’illusione è proprio l’incoerenza e l’indeducibilità di quel libro. Se io leggo un’intervista e quell’intervista non mi convince, mi sembra un ammasso di bugie, non mi interesso dell’intervistato. Se poi mi dicono pure che non l’ha mai visto nessuno, comincio a ipotizzare che non esista, ma non me ne preoccupo più di tanto, se con quell’ammasso di bugie non fa del male a nessuno. Poi se esiste va be’, poteva essere un po’ meglio il giorno dell’intervista, e io mi cercherò di rifare. Ora, il problema è che l’intervistato è Dio, il più fico di tutti, e proprio il giorno dell’intervista – il giorno in cui detta il suo libro sacro – doveva avere una defaillance?

°°°

Oltre a tutte le possibili considerazioni “umane” gli citerei Cristo che perdona e ridefinisce la legge di Mosè proprio sul punto del fatto che i peccatori meritino la morte. Gli spiegherei che la croce significa proprio questo: Dio non chiede che l’uomo muoia, ma che viva (“La gloria di Dio è l’uomo vivente”, credo si tratti di sant’Ireneo). Al punto da essere disposto a morire lui (lui Dio).

Una piccola curiosità, al di là della tua morale: ma Dio c’aveva proprio bisogno di morire in croce per aiutarci? Io non avrei voluto morisse in croce, avrebbe aiutato sicuramente di più non morendo. Parlo di atto pratico: rimanendo in vita un po’ di più avrebbe, che ne so, potuto fare del volontariato (a quei tempi esisteva?), fare il medico, inventare (ma lui la conosceva già, no?) la penicillina e insomma salvare un po’ il mondo.

Non dirmi che era tutto un modo per attirare l’attenzione.

Dialogo fra un cristiano e un non so /2

Continua dalla prima parte.

Dialogo tra un cristiano e un non so, parte seconda.

11 maggio – da Giovanni Fontana a Marco Beccaria

Caro Marco, registro con piacere ciò su cui siamo d’accordo, sono dubitoso rispetto alla tua mancata risposta, e rigetto lo straw man argument odifreddesco.
Non mi soffermo su nessuno dei tre, ma sento di doverti confessare che il piacere dell’essere d’accordo sul primo punto non è interamente genuino! La metà cattiva della mia letizia per il nostro accordo è che quell’assunto mi sembri un tuo autogol. Mi riferisco – so che sai dove andrò a parare – a quando dici che ogni “credenza senza dati” è il vero germoglio – che alcune volte fiorisce, e altre no – di un atteggiamento violento, del male dell’uomo. Sarà usata contro di te in tribunale!

Per risponderti ti prego di seguirmi, in Africa.
Come sai l’ultimo genocidio della Storia si è presentato in uno dei pochi paesi africani a maggioranza cristiana (95% della popolazione), in Rwanda nel 1994, con un milione di morti – una cifra spaventosa.
C’erano preti che trucidavano bambini piangenti a bastonate, che facevano a pezzi altri essere umani a colpi di machete, che fracassavano il cranio a gente che implorava pietà. E la trovavano la cosa più Giusta da fare, in nome di Cristo.

C’erano preti che si limitavano a battezzare e dire messa alle persone che di lì a poco sarebbero state uccise, perché quello era il bene più grande, senza muovere un dito per salvare la vita di quegli individui, rassegnandosi al volere di Dio. Sempre in nome di Cristo.
E c’erano preti che davano alle fiamme la Bibbia – la carta era l’unico combustibile rimasto – per dare da mangiare, scaldare, o tenere fuori gli assassini; e far così sopravvivere, magari anche solo un giorno di più, quei fratelli esseri umani. Ancora una volta in nome di Cristo.

Sono felice di essere persuaso che, se avessi incontrato un prete di nome Marco Beccaria a Kigali quindici anni fa, questi avrebbe affermato categoricamente che l’unico atteggiamento cristiano, di questi tre, fosse l’ultimo – e che Don Marco si sarebbe comportato di conseguenza: bruciando bibbie e seggiolini della propria parrocchia per salvare – certamente – quei corpi, prima che – forse – quelle anime.
Probabilmente ne sarei stato addirittura commosso, se ti avessi visto, sapendo quanto sei legato alla sacralità di quel testo.

Però poi, intorno al fuoco, ti avrei chiesto: «Marco amico mio, ma cosa ti dice che sei tu, davvero, a operare in nome di Cristo?». Anche quel prete col machete pensa di farlo. «Ne sei convinto? Anche lui ne è convinto». Siete pari. «Lo senti? Anche lui lo sente». Anche un kamikaze sente che Dio gli dà ragione. «C’è scritto nel Libro? No, il Libro dà torto e insieme ragione a entrambi». Per ogni parola in difesa dell’amore del prossimo ce n’è almeno una, o forse due, per l’odio del diverso. «Lo interpreta in modo banale? Dài, a fare interpretazioni ardite siete entrambi, l’uno e l’altro». Sant’Agostino era uno stupido? Eppure aveva letto il testo più di noi – sì, anche il Vangelo – e considerava la tortura degli eretici quale unica interpretazione sensata di quelle parole.
Questo ti avrei chiesto.

E tu come faresti, se lo incontrassi, a dire a quel prete col machete che ha torto, che sbaglia di grosso a pensare che quello lì sia il vostro Dio?


21 maggio – da Marco Beccaria a Giovanni Fontana

Caro Giovanni,
scusa se questa mia risposta s’è fatta attendere qualche giorno. Andiamo verso la fine dell’anno scolastico, puoi immaginare il consueto putiferio.
Mi fa piacere che tu rigetti l’accostamento a Odifreddi come uno “straw man argument”, perché significa che anche tu percepisci Odifreddi come qualcuno che non ti corrisponde. Ne sono felice. La mia, in effetti, era una provocazione infingarda.

Ti seguo in Africa. Continue reading “Dialogo fra un cristiano e un non so /2”

Ayaan Hirsi Ali

Può un libro aprire occhi che prima credevano di vedere, e invece vedevano solo in parte?
Il libro di Ayaan lo ha fatto.
Più lo leggevo, più mi rendevo conto che quello che sapevo dell’Islam era poco, e quel poco che sapevo mi era arrivato per bocca di chi, in un certo modo, a quell’ideologia religiosa attribuiva solo qualche peccatuccio, ma si, l’Islam è una religione di pace, dicevano tutti dopo l’Undici Settembre, quei terroristi sono solo dei fanatici, solo dei pazzi guidati da Bin Laden, mentre la vera essenza dell’Islam è quella di una religione di pace, amore….
Che cazzate.

Questo mi scrive una lettrice del blog dopo aver letto il libro che le avevo consigliato.
Il libro in questione è Infedele, di Ayaan Hirsi Ali, un libro che – davvero – dovrebbero leggere tutti. Non è come quelle cose che si dicono, un po’ a caso, alle conferenze. Non ve ne consiglierei altri – so quanto il tempo e le scelte – o forse non lo so e ve ne consiglierei altri, ma questo per primo. Se una volta volete prendere un consiglio da questo blog è quello di leggere quel libro.

ayaan_hirsi_aliNon è un libro colmato d’odio, è un libro pieno di libertà. Traboccante della gioia di poter vivere in un mondo disordinato. È la levità di non pensare a quello che si è passato, a quello che sarebbe potuto essere – che Elliot dice puntare nella medesima direzione di quello che sarà – ma di industriarsi perché siano tante altre persone a poter fare questo passo.

Sono parole che possono far capire a tante persone animate da buoni sentimenti – perché è bello essere animati da buoni sentimenti – che il Male ha tanti colori, e talvolta perfino il Bene ha la forma del male, di concetti che farebbero raccapriccio all’impronta, emotivamente inaccettabili. Ma non meno veri, e – così – imperativamente accettabili.

Tante cose fanno commuovere, quando si legge la splendida storia di questo splendido essere umano, la bici, il poliziotto, gli europei che controllano il tempo, il bagno in piscina, molte altre. Ma la più bella – la fuga – è forse la più semplice:

Era venerdì 24 luglio 1992, il giorno che salii sul treno. Ci penso ogni anno. Lo considero il mio vero compleanno.

Quando le chiedono se non le manchino i suoi genitori, la sua famiglia, con cui non ha più contatti: «so che questo è il prezzo che ho dovuto pagare, e so che ciò che sto per dire è patetico: questo è quello che io ho sofferto nel nome del progresso, perché non siano i miei figli a soffrirne».

Sull’atteggiamento che abbiamo nei confronti dell’Islam ci sono moltissime cose che vorrei dire, ed è da tempo che mi riprometto di riassumerle in un post, specie per quel che riguarda le istanze che – invece – secondo me mancano. Quella donna infedele ne dice una importante: dobbiamo trovare il coraggio di chiamare le cose col proprio nome.

Alla fine si domanda: «Cosa posso fare io? Non darvi pace finché non vi avrò convinti».
Grazie, Ayaan.

Dialogo tra un cristiano e un non so /1

Dialogo tra un cristiano e un non so

30 aprile  – da Marco Beccaria a Giovanni Fontana

Caro Giovanni,
cominciamo finalmente ‘sta benedetta conversazione a distanza. Forse occorre spiegare brevemente a chi ci leggerà sui rispettivi blog come ne è nata l’idea. Abbiamo trascorso insieme un paio di giornate (ti avevo invitato nel liceo dove insegno a parlare ai ragazzi di Palestina, Israele e tutto il resto) e tra un piatto di stracotto d’asina e diversi caffè uno dei temi di conversazione più accanitamente dibattuti tra me e te è stato quello della religione e del cristianesimo in particolare, del suo statuto, della sua pretesa di verità, di come esso orienti o meno i comportamenti umani, se esso sia stato e sia tuttora un bene o un male per l’umanità. Ovviamente, avevamo e abbiamo idee diverse in merito. Poi tu hai scritto un paio di post sul tuo blog che ruotavano intorno a tematiche analoghe a quelle della nostra conversazione. Hanno avuto una lunghissima coda di commenti. Ecco allora la mia idea: una conversazione a distanza, via mail, botta e risposta, da pubblicare a puntate sui rispettivi blog. Siccome sei un pazzo scriteriato, hai accettato. E allora cominciamo.

Voglio partire da un tema facile facile e tutto sommato collaterale, la storia. Tu spesso affermi che al Cristianesimo è storicamente ascrivibile un’enorme quantità di male (lascio a te, eventualmente, l’onere dell’esemplificazione, ma giusto per tenerci sulle generalissime: guerre, inquisizioni, oscurantismi) che avrebbe macchiato la storia del mondo. Quanto al bene fatto dai cristiani di tutte le epoche (anche qui, stando sulle generali: cultura, ospedali, scuole, assistenza), sostieni l’ipotesi che essi, i cristiani “buoni”, lo sarebbero in quanto buoni, non in quanto cristiani: il loro essere cristiani si insedierebbe come sovrastruttura del tutto effimera e ininfluente su un “essere buoni” naturale. Essi, tu dici, avrebbero compiuto il bene ugualmente fossero stati pagani, atei o, che ne so, induisti. Trovo tale ipotesi piuttosto bizzarra per diverse ragioni, nonché facilmente ribaltabile. Così come tu ascrivi aprioristicamente il male fatto dai cristiani al cristianesimo e il bene fatto dai cristiani al loro essere buoni, io potrei altrettanto aprioristicamente attribuire il male fatto dai cristiani alla malvagità intrinseca della natura umana, e il bene al miracolo di redenzione apportato dall’adesione al cristianesimo. Scannamenti, guerre e torture esistevano già presso i popoli pagani e continuano a essere perpetrate da uomini e regimi che si dicono atei e, talvolta, esplicitamente anticristiani. Tregue di Dio, misericordia per i poveri e università, per dirne tre, sono creazioni incontrovertibilmente attribuibili allo spirito cristiano. Come la mettiamo?

Al di là di questa facile ostensione di indecidibilità, vorrei sottoporti un’ulteriore domanda: limitando la nostra analisi alla storia del mondo occidentale dall’età tardoantica al Settecento (l’ambito in cui, storicamente, il cristianesimo è nato, s’è diffuso e ha retto sostanzialmente incontrastato come religione e visione del mondo), come puoi distinguere ciò che hanno fatto i cristiani da ciò che hanno fatto coloro che cristiani non erano? Semplicemente, in quei secoli erano TUTTI cristiani. Lo era Torquemada e lo era Bach. Lo era Galileo e lo erano i suoi giudici. Lo era Agostino e lo era Giustiniano. Lo era Goffredo di Buglione e lo era Francesco d’Assisi. Lo era Filippo II di Spagna e lo era Cartesio. Lo era Caravaggio e lo era Ignazio di Loyola. L’ateismo nacque come opzione culturale concepibile solo nel ‘600 e cominciò a divenire sociologicamente rilevante nell’800. Fino ad allora, mi verrebbe da dire, qualsiasi differenza venga posta tra ciò che, nel bene e nel male, è ascrivibile ai cristiani e ciò che è ascrivibile ai non cristiani è del tutto inconsistente. Il cristianesimo era, semplicemente, l’unico orizzonte culturale (seppur molto variegato) in cui gli uomini di quel millennio abbondante nacquero, vissero, operarono e morirono.

(Siccome amo il fair play, voglio che tu sappia che in questa mia apertura – come in una partita a scacchi – con l’aria di stare dicendo una cosa che può forse apparire controproducente per le mie tesi in realtà ti sto tendendo una trappola).
(Perché tu immagini già dove voglio andare a parare, vero? No? La trappola è tesa. Paura, eh?).


4 maggio – da Giovanni Fontana a Marco Beccaria

Caro Marco, caro prof,
Sono contento di cominciare questa conversazione, e sono contento di cominciarla con te: so che tu non aggirerai le questioni.
Prima di cominciare mi sembra utile dire velocemente quello che pensa la tua leale opposizione*:

Continue reading “Dialogo tra un cristiano e un non so /1”

E. E.

Allora, extraterrestre, dallo spazio, la solita storia. Arriva qui, e noi gli spieghiamo.

VITA E MORTE
I cattolici sono (fra) quelli che credono in Dio; credono – in vari e diversi modi – che c’è una vita dopo la morte. Credono anche che questa vita successiva, se meritata, sia mirabilmente migliore di quella che viviamo qui.
Quindi li si dovrebbe ritenere più inclini a considerare prossimo al ridicolo il valore di questa vita, tantopiù che morire prima significa traslocare nel luogo più bello, nei pressi del Creatore.

Muore giovane colui che è caro al Cielo. (Menandro)

I non credenti, al contrario, sono persone che – in genere, si semplifica per l’extraterrestre – credono che la vita finisca dopo la morte. Quindi che abbiamo solo questa, e prima e dopo c’è il niente. Perciò anche una vita brutta terribile e noiosa dovrebbe essere enormemente meglio che niente, il Niente.
Ovviamente si può anche prendere in considerazione l’ipotesi, che il proprio non esistere sia migliore dell’esistere. Condizione rara, inauspicabile, ma non inammissibile, considerato che – qualunque sia il caso – a un certo punto il bus si ferma.

Non prendere la vita come una cosa seria, tanto – comunque vada – non ne esci vivo. (Hubbard)

LIBERO ARBITRIO
I cattolici sono quelli che pensano che siamo al mondo per compiere l’opera del Signore in Terra. Alla fine dei giorni Dio (la Verità) giudicherà tutti in base al modo in cui ognuno ha usufruito del proprio libero arbitrio. Il Libero arbitrio è quello che fa di un uomo una vera persona e non un burattino. Dio potrebbe tutto, ma decide di non mandare in opera la sua onnipotenza, così da mettere alla prova il genere umano, individuo per individuo: questa è la ragione per cui a tutti i farabutti del mondo è permesso di compiere il male che ci circonda, le vittime saranno ricompensate nella vita futura.

Se Dio esiste dovrà chiedermi perdono (Anonimo su un muro di Auschwitz)

I non credenti sono quelli che, assumendo la non presenza di una Verità assoluta, e quindi l’assenza – ora domani o fra due milioni di anni – di un’Entità giudicante, cercano in alcune convenzioni sociali e umane la via per abitare degnamente questo pianeta. Fra queste ci può essere quella di impedire a una persona di commettere il male, in nome del bene comune. Il metro di questo giovamento non può fondarsi su pretese ricompense successive che il non credente non ammette, né sulla paura che la non osservanza di patti sottoscritti con un’entità non riconosciuta (l’Autorità) possa danneggiare una vita alternativa all’unica creduta dal non credente.

Se esiste una specie di Dio capace di condannarmi perché non ci ho stretto un patto: pazienza! Non ci tengo a passare l’eternità in compagnia di uno così. (McCarthy)

COSCIENZA
Per Dio contano le intenzioni: non quello che uno combina, ma la coscienza di chi le commissiona a sé stesso o ad altri. Quindi non ha alcun senso cercare di impedire un peccato, bisognerebbe semmai tentare di cambiare l’idea alla persona in questione: sia a priori che a posteriori (la rivoluzione del perdono). Invece costringerla ad agire, o impedirle di fare ciò che un credente ritiene sbagliato è in contrasto con gli assunti della propria fede per due ragioni: Dio guarda la coscienza e non l’effetto, così si detrae un individuo del proprio libero arbitrio.

È dell’uomo desiderare che anche gli altri gioiscano del bene di cui noi gioiamo, non di costringere gli altri a il nostro modo di pensare. (Spinoza)

QUINDI
Perché sbaglia, il povero extraterrestre, a pensare che – giusto o meno, sacro o meno, mezza vita o morte – sia in contraddizione con ogni cosa dire a una famiglia che la vita della loro figlia appartiene più alla nostra idea di lei che a essa (la famiglia), e – per quelli che ci credono – al giudizio del Signore?

Perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore (Cristo)

E IO
Sai che c’è? A me la vita piace tanto, non perché c’è ma per le persone che ci stanno dentro. Se io ci dovessi capitare, perché dovrebbe decidere la parte rimasta di me, anziché tutti loro? Se dovesse capitare a me, decidano le persone che hanno fatto la mia vita, e non io che l’ho solo vissuta.

La vita è un dono meraviglioso. Vi assicuro che l’ultima cosa che farò sarà morire! (Benigni)

Per forza è pulita, non l’ho mai usata!

Qualche giorno fa mi aveva appassionato la discussione seguita a questo post, nei successivi commenti. Ci sono due motivi per cui seguo con propensione un blog: o perché mi insegna davvero qualcosa, o perché il tenutario è un amico. Con buona approssimazione posso dire che i blog dei due discutenti siano gli unici che rientrano in entrambe le categorie, che leggerei anche se non fossero amici, e la cui (diversa) amicizia mi pregia. Quindi capirete perché del surplus di interesse.

Di mestiere Francesco pensa e scrive, mentre Marco insegna a pensare, e questa differenza si vede. Se seguite la discussione avrete l’impressione che abbia ragione Francesco, ma poi leggerete la risposta di Marco e cambierete idea, convincendovi degli argomenti di quest’ultimo; e così sarà per la successiva risposta di Francesco, e quella poi di Marco. O almeno così è stato per me, nonostante fossero temi su cui ognuno di noi – e io – ha pensato mille volte, anche creandosi in testa le varie fattispecie. Ed è una cosa abbastanza rara, devo dire, perché solitamente quando si segue una discussione si tende ad accogliere l’opinione che è più vicina alla nostra di partenza («dài, che gliele stai dando!») e screditare quella di chi ci è più lontano («ma guarda ora cosa si è inventato questo: ci deve essere un modo per uscirne»). L’idea che mi sono fatto alla fine è che l’argomento di Francesco sia al tempo stesso più facile e più stabile, quello di Marco meno approssimato. Penso anche che Francesco abbia più ragioni di quante non ne abbia scritte. Questo per la cronaca.

Quello che però avevo a cuore, e mi preme davvero perché è uno dei fondamenti di tutto quello che penso, è non lasciare impunito un concetto che un retropensiero di Marco ha insinuato: ovvero che ci sia una differenza sostanziale fra fare del male, e lasciare che questo sia fatto. Che uccidere una persona con le proprie mani è peggio che lasciare che due persone siano uccise, quando si abbiano gli strumenti per impedirlo.

Così Marco, se non confondo, tiene a salvaguardare l’altrui e la propria coscienza dal commettere ciò ch’egli considera un omicidio (mi perdoni Marco, l’approssimazione), come se questo fosse il problema. Come se per chi la pensa come lui il dolore non siano le migliaia di aborti che si commetono quotidianamente, ma l’importanza del non causarlo – o esserne partecipi – in prima persona. L’obiezione secondo la quale se-tutti-facessero-come-faccio-io mi sembra non reggere alla prova pratica di un mondo spesso così inclemente da offrire alternative peggiori, e non migliori. Perché, circostanza della quale si rammarica la testata di Francesco, purtroppo tutto il mondo non fa quello che faremmo noi. Possiamo fare l’esempio dell’aborto clandestino perché siamo in argomento, ma potrebbe valere molto bene l’esempio posto qui da un mio commentatore, in tutt’altro ambito.

Sono abbastanza convinto che Marco non la pensi apertamente così, che posto di fronte alla concretezza del decidere se causare un aborto o assistere a due, opterebbe per la prima soluzione, e in parte corregge anche il tiro quando parla della pillola abortiva e di come per lui sarebbe più importante sollevare un dibattito (anche se questo portasse all’apertura totale alla pillola in questone?) piuttosto che le conseguenze nelle quali incapperebbe come farmacista fuorilegge; ma secondo me è una cosa su cui dovremmo riflettere bene, questa stramba idea per cui non sporcarsi le mani sia una cosa lodevole.

Qualche anno fa pensavo che non avrei fatto entrare una donna velata in casa mia perché – dicevo – a casa mia donne e uomini hanno lo stesso valore. Ferma restando la legittimità di tale principio fra le 4 mura che io posseggo, mi son ritrovato a pensare che quello fosse soltanto un vezzo narcisistico per autocompiacermi di quanto fossi giusto e quanto avessi a cuore la parità dei sessi: qualche anno dopo, senza avere in nulla cambiato idea rispetto a quell’orrendo simbolo di sottomissione – e senza scontare a lei nessuno dei miei rimbrotti – ho lavorato per mesi in Palestina a fianco di una donna velata.

Insomma, secondo me sopravvalutiamo l’importanza della nostra coscienza, della pulizia di essa, e di quanto questa incida veramente sulle sorti del mondo. Considerare la propria coscienza come il campo della Vera Battaglia fra le idee giuste e quelle sbagliate è bambinesco e arrogante: l’importanza di quelle battaglie si fa là fuori, nel mondo. Dove in una delle tante risse terrose fra limacciosi principî a cui la vita ci costringe, e che la vita ci regala, alla nostra coscienza può capitare anche di macchiarsi.

Perché sono contro alla guerra; a questa guerra

Prima sgombriamo il campo: a me dei motivi per cui Israele ha attaccato Gaza, e Hamas ha riniziato a lanciare missili importa nulla. Cioè mi interessano se mi aiutano a capire le restanti cose, ma in sé non spostano il mio giudizio sulla guerra. Della legittimità delle varie azioni, e soprattutto dell’attacco israeliano, mi interessa poco. Quello che mi interessa è sapere se per quest’area, queste genti, queste persone, ne risulteranno effetti positivi o effetti negativi. E nel caso l’effetto fosse positivo, mi domanderei: ma vale il numero di morti, e quello tanto più alto dei feriti, indifferentemente da una parte e dall’altra?

Penso che la volontà strategica di Hamas sia molto sopravvalutata, intendo i piani per il futuro. Dico volontà e non capacita perché Hamas non ha un piano per il futuro, il suo futuro è nelle braccia di Dio, e se combattere per la causa porta alla morte di tutta la propria gente, poco male: perché l’Idea conta più della morte. Anzi, la morte è uno dei mezzi – più che ammissibile, auspicato – per raggiungere quell’Idea, come nel caso di Nizar Rayan, ucciso da un missile israeliano e dalla sua decisione di non scappare da quella casa che sapeva sarebbe stata bombardata, portandosi all’inferno una quindicina fra varie mogli e figli.
Ho smesso di chiedermi perché Hamas abbia deciso di subire questo attacco – con ciò non intendo che Israele doveva reagire, ma che a Gaza sapevano che Israele l’avrebbe fatto: lo intuivano anche degli ingenui come chi scrive e, probabilmente, chi legge.

Al tempo stesso la capacità strategica d’Israele è sopravvalutata. I mille piani di difesa che ogni governo israeliano ha sul tavolo sono improntati alla sopravvivenza, più d’una volta a scapito altrui. La fine del terrorismo suicida ha maturato nell’opinione pubblica un’indifferenza per nulla sana, e un sentimento di rivalsa poco commendevole: “non hanno voluto dismettere il terrorismo per avere la pace? Ora col muro l’abbiamo dismesso noi, e a questo punto s’attaccano”. Molti, in Israele, pensano di poter andare avanti in questa condizione, con una mezza occupazione e un mezzo stato per chissà quanti anni, perché cosa ne guadagnerebbero gli israeliani da una pace?
Così che finire l’occupazione, smettere con alcune misure di sicurezza che hanno un carattere solo vessatorio, e con alcune leggi dall’impronta discriminatoria, quindi rendere la vita migliore ai palestinesi non soltanto manca di essere un valore, ma talvolta è concepito come un disvalore: loro-sono-i-nemici, quelli che ci vogliono distruggere.
E le scelte dei governi israeliani riflettono questo umore, peggiorandolo, portando ad accettare quel mercimonio di vite che è un attacco che uccide 700 persone e ne ferisce cinque volte per tutelarne – grazie al cielo e alla tecnologia – un centesimo di esse.
Che al di là dell’inutile obiezione che dice “succede anche negli altri paesi” (embè?), è vero che non succede così negli altri paesi: basta dare un’occhiata ai media israeliani per accorgersene.

Al contrario di molti che – qui e ora – sono d’accordo con me, non sono un pacifista senza condizionali, anzi per esser di sinistra sono piuttosto guerrafondaio: so che senza l’intervento della Nato le fosse comuni della Bosnia avrebbero iniziato a traboccare di gente ammazzata mentre era in fila per avere un tozzo di pane. Che se in Rwanda ci fosse andato un esercito vero, e non quattro berretti celesti a difendere i due hotel in cui c’erano turisti o diplomatici, gran parte di quel milione di persone che è morto avrebbe ora quasi quindici anni di più. E so che di guerre, purtroppo, sarò costretto ad appoggiarne altre, fino a che ci sarà gente che stermina gente.
E tutto questo lo so perché so che non fare nulla per evitare un omicidio non è essere neutrale, perché quello che conta non è la pace, ma la vita delle persone.
Ma, davvero, è questo il criterio che ora guida Israele?

Raccontava un bell’articolo dell’Independent che il ritornello più sentito in Israele, nell’ultima dozzina d’anni di kamikaze era stato: “che gente è questa che manda i propri figli a uccidersi per uccidere i nostri figli?”, specie quando a montare imbottiti di tritolo sui pullman di Tel Aviv erano dei bambini.
E questa era diventata una leva psicologica per alleviare, nell’intimo della propria coscienza, il peso di sapere che quelle azioni che quasi ogni israeliano considerava giuste, in ogni caso uccidevano molte persone, molti altri. Se questi altri – e questo è il retropensiero – non tengono alla propria vita, perché dovremmo tenerci noi?

Perché Israele non dovrebbe permettersi di misurare le proprie azioni col metro altrui anziché con quello che professa: se la perversione concettuale con cui Hamas tratta i civili contagia gli israeliani, Israele si ammala di quel male per cui sta cercando il vaccino.

Mele e torti marci

Ieri stavo cercando una cosa su Wikipedia IT, e ho digitato “altipiani in Italia”. Non ho trovato quello che cercavo , ma ho trovato – chissà perché – Torpedo che era ai tempi del liceo, e a quanto leggo è ancora, il gruppo musicale di Giancarlo.

Giancarlo era il più politicizzato dei miei compagni di classe, o forse semplicemente – e complice l’anno in più –  era quello più sveglio. Un po’ desinistra, ma mai fuori dal buon senso. Non eravamo spassionatamente amici, però c’era stima reciproca, e qualche volta ci siamo sentiti ancora, dopo la scuola: ha smesso l’università per fare il musicista, a quanto pare gli sta riuscendo.

Al tempo fummo anche compagni di banco per qualche breve tempo, quel tempo era quello del G8 a Genova.
Ovviamente fu Giancarlo, l’unico della nostra classe ad andarci. Doveva anche avermi invitato, e suppongo d’avergli risposto qualcosa di circostanza e molto imbarazzato per non fare intendere che avevo di più voglia di passare un pomeriggio a giocare ai videogiochi che di combattere per  le sorti del mondo, come in realtà era. Che poi eravamo già tutti in vacanza, qualche scusa l’avevo.

A lui non successe nulla, per fortuna. Non passò né dalla Diaz, né da Bolzaneto, né dalla piazza più violenta – per buona sorte.

Ecco, ho ripensato a questa cosa abbastanza spesso, e ancor più spesso nei primi tre mesi in Palestina. Mi chiedevo: ma quanta obettività posso pretendere da chi vive quotidianamente un sopruso, o da chi l’ha passato sulla propria pelle, o da chi l’ha vissuto attraverso la bocca e le ferite di una persona a cui vuole bene? In fondo, mi domandavo, se Giancarlo fosse passato da quella maledetta scuola, o da quella maledetta caserma, non avrei avuto un pensiero distorto anche io?

Sarei stato in grado di non odiare la polizia, o lo Stato? E se sì, sarei stato in grado di spiegarlo a Giancarlo? Di dirgli che a Piazza Alimonda la ragione non stava, proprio tutta, dalla nostra parte, anzi? Di raccontargli che quello che gli era successo era un caso isolato? Che non poteva dire «l’Italia è una dittatura» perché un giorno, una notte, quelli che rappresentevano quello stato si erano comportati da polizia politica?
E soprattutto, sarei stato in grado di chiedergli di avere fiducia nella Giustizia? Che coloro che l’avevano picchiato, dileggiato, insultato, ferito, sarebbero stati condannati, e più importante: che sarebbero stati riconosciuti colpevoli? Loro e i responsabili di quello che era successo, come succede nelle democrazie liberali.

Ecco, mi sono domandato tutto questo ieri, quando mi sono reso conto che se anche ci fossi riuscito – a rassicurarlo – avrei avuto torto.