I complottisti sono malati

interesse 3 su 5

Non avrei mai pensato di essere più tenero del dovuto con i cospirazionisti. Ho sempre detto che una persona per bene non crede ai complotti, perché il solo fatto d’immaginare un diabolico e arzigogolato piano orchestrato ai proprî danni, rende i contorni di una persona: significa, al tempo stesso, avere un’intelligenza diabolica per immaginarlo, e una disposizione d’animo sedotta dal male per crederlo vero. Vedere sempre un lato oscuro in ogni cosa, è un ottimo indizio della presenza di un lato oscuro in chi lo vede.

Leggendo questo articolo del New Scientist ho scoperto di essere stato perfino buono: ci sono diversi tipi di movimenti che rifiutano “la verità ufficiale”, declinandola in un piano di irrealtà fosca e paranoica, ma hanno tutti dei tratti comuni. Il rifiuto della realtà, è – il paradosso delle due cose assieme – un rifiuto della complessità, e un rifiuto della semplicità. L’analisi psicologica ed emotiva di chi è cagionevole a questo tipo di doppio pensiero è piuttosto spietata:

Qualunque cosa stiano negando, i movimenti negazionisti hanno molto in comune fra loro, non ultimo l’uso delle stesse strategie. Tutti si considerano come dei coraggiosi difensori degli oppressi che lottano contro un’élite corrotta legata a una cospirazione per sopprimere la verità, o per dare corpo a una malevola menzogna, ai danni delle persone normali. Il complotto è solitamente descritto come impegnato a promuovere un sinistro piano: che sia lo Stato del Grande Fratello, la conquista dell’economia mondiale, il potere dei governi sugli individui, il guadagno economico, o l’ateismo.

Il cospirazionismo è storicamente un riflesso del pensiero di destra, del conservatorismo contrario al progresso scientifico. Ne sono espressione il rifiuto dell’evoluzionismo, quello del riscaldamento globale, il collegamento fra HIV e l’AIDS o fra il tabagismo e il cancro. Tuttavia, come molte altre cose destrorse, sta attecchendo anche a sinistra, specie quando ci sono di mezzo gli americani: i complottisti dell’Undici Settembre, quelli che Armstrong non è mai stato sulla Luna, e così via.

C’è un’intera componente, in questi movimenti, che strizza l’occhio al populismo anti-elitario: che vede lo studio – e lo studio dei fenomeni – come un metodo per industriarsi ad abbindolare il prossimo. Gli “esperti” sono coloro che hanno più strumenti per nascondere la verità: emblematico il caso di un candidato al direttivo per l’educazione del Texas, Don McLeroy, che in un dibattito a favore del creazionismo si espresse con un nitido «qualcuno dovrà pur fronteggiare gli esperti!»

Alla fine dell’articolo ci sono 6 regole che il complottista-tipo usa – nella propria testa e al di fuori – per avvalorare la propria tesi e renderla inoppugnabile. Io ne aggiungerei una settima, che è quella più depressiva e manifesta in questo tipo di ragionamenti: qualunque evento darà ragione al proprio teorema complottista. Ciascuna cosa sarà prova del complotto, o del tentativo di nascondere il complotto. Se tu dici “Viva l’America!” è perché sei un agente della CIA, se dici “America schifo!” è perché stai cercando di nascondere che sei un agente della CIA. Così facendo, qualunque espressione della realtà – l’una, o quella contraria – dimostrerà il teorema paranoide.

Se – dice Kalichaman, psicologo che ha passato degli anni a studiare i movimenti negazionisti dell’HIV dal di dentro – le persone propense a credere a complotti e negazionismi sono, per buona parte, individui ordinarî e in buona fede, essi mantengono una fragilità del pensiero che li porta a manipolare pensieri attendibili e non. Non va così bene agli animatori dei movimenti negazionisti, per i quali la diagnosi è ancora peggiore:

Questi mostrano tutti i tratti del disturbo paranoide della personalità, incluso la rabbia, l’intolleranza alle critiche, e ciò che gli psichiatri definiscono come un grandioso senso della propria rilevanza nel mondo. In definitiva, il loro negazionismo è un problema mentale. È per questo che tutti questi movimenti presentano le stesse caratteristiche, specialmente nella sottesa teoria cospirazionista.

Né i  capibastione né le truppe negazioniste mentono nel senso più convenzionale: sono intrappolati in ciò che gli studî delle nevrosi chiamano “pensiero sospettoso/diffidente”. Lo stile cognitivo dei negazionisti rappresenta un senso della realtà deformato, che è la ragione per la quale discuterci è del tutto inutile. Tutte le persone adattano il mondo al proprio senso della realtà, ma la persona sospettosa distorce la realtà con una rigidità fuori dal comune.

Ragazzi, non penseranno mica di darcela a bere?

Glossario amoroso

interesse 3 su 5

>per Il Post<

Corso di Alfabetizzazione Sentimentale Obbligatoria – Prof. du Lac – 7° lezione

Cari ragazzi,
la lezione della scorsa settimana ha sollevato diverse obiezioni e dubbî: avevo pensato di rispondere personalmente a ciascuno di voi, ma ho poi pensato che un ulteriore approfondimento sul tema della settimana scorsa potesse essere utile a tutti.

Cercherò di andare per punti, in modo da poter affrontare tutte le questioni che potrebbero necessitare di un chiarimento: visto il carattere riassuntivo della lezione potremmo considerarla un ripasso di tutte quelle già studiate, quasi una sorta di glossario.

NON VALE TUTTO – È importante intendersi su cosa intendiamo per “amore”. L’idea che ci siamo persone innamorate che si tradiscono – quale che sia l’accezione che si dà a questo termine – sconta un’aporia piuttosto evidente: la convinzione che, in fondo, l’amore sia definito per autobattesimo. Se un individuo dice «io sono innamorato», tanto basta. Naturalmente non è così, ci sono persone che dicono di essere innamorate della propria moglie e non hanno nessun problema a picchiarla con spietatezza: semplicemente, non lo sono. Per questo possiamo dire: non vale tutto.

PAROLE PAROLE PAROLE – Il punto precedente solleva un’altra questione: cosa vuol dire “amore”? Naturalmente la lingua è una convenzione, e bisogna cercare di chiarirsi sul significato che diamo a ciascuna parola. In questo senso la definizione che mi sembra più corretta – o, comunque, quella che userò – è “il sentimento più forte (intenso/potente/dirompente) che un essere umano possa provare”. C’è chi ammette una definizione molto più ampia: chiunque provi una tensione verso un altro individuo. Queste persone decidano un termine con cui definire “il sentimento più forte che un essere umano possa provare per un altro” e traducano, così, quello che qui si definisce amore.

A.D. Professore, è forse utile prendere a esempio la situazione precedente: facciamo il caso della coppia che si dice innamorata, ma si tradisce. È possibile immaginare la stessa coppia, ma che non si sognerebbe mai di tradirsi? Certo che lo è. E possiamo dire che questa differenza aggiunge un elemento positivo allo scenario del non tradimento? Se ammettiamo tutto questo – e come potremmo negarlo? – è ovvio che non potremmo mai definire “il sentimento più forte che loro possano provare” quello della coppia che si tradisce. _Perché sappiamo, anche solo empiricamente, che ce n’è uno più forte.

TUTTI COLPEVOLI, TUTTI INNOCENTI – Da questo ne consegue che difendere la legittimità del proprio comportamento all’ombra del male del mondo è abusivo e meschino: dire che “tutti vogliono tradire” è misurare gli altri con il proprio metro. Non si possono affiggere dei difetti agli altri, soltanto perché sono i nostri. E in ogni caso, fosse anche vero – e non lo è – che non esistono persone che vivono il proprio rapporto nell’onestà e nella fiducia più genuina, bisognerebbe aspirare a essere i primi a comportarsi così. Il cardine, e il punto, non è la diffusione dell’alfabetizzazione sentimentale, ma la sua efficacia.

MICA DI LUI – Non c’è obiezione più dozzinale di quella per cui “non è che non mi fidi di lui, è che non mi fido delle altre”. Se non immaginiamo uno stupro – e se lo immaginiamo non stiamo parlando di gelosia, ma di tutela dell’incolumità altrui – non c’è nessuna ragione per temere il comportamento di un pretendente. L’unica cosa che può innescare la pericolosità delle azioni di un pretendente è la connivenza dell’altro. Non c’è avance che possa trasformarsi in un tradimento senza la complicità del destinatario: e se si teme la complicità del destinatario non è forse “di lui” che non ci si sta fidando e non “delle altre”?

Non c’è più tempo, continueremo la prossima settimana con: Gelosia, Volontà, Sacrificio, il Sesso, Possessività.

A.D. Io vi ricordo che per chi non ha presentato la propria risposta durante questi 7 giorni – o anche per chi vuole soltanto cambiare parere – è possibile rispondere alla domanda della scorsa settimana: vi accorgete che rischiante d’innamorarvi del partner del vostro più caro amico/a: come vi comportate? Alcuni sostengono che la ragassa o il ragasso del vostro migliore amico sia, di per sé, intangibile: non se ne parla, delle volte letteralmente. Altri sostengono che nel conflitto fra amore e amicissia è l’amore ad avere la precedensa. Oppure vedete una tersa via?

La risposta a questo quesito – scrivetela qua sotto, o al professore – sarà discussa fra due martedì, dopo la conclusione del glossario.Vi saluto con una frase particolarmente significativa scritta da uno studente – Franco – che, mi sento di poter dire, riassume lo spirito dell’intero presente repertorio:

Non c’è nulla da perdere nel lasciarsi andare, chi teme di perdere qualcosa è perché lo ha già perso.

La gelosia è una sciocchezza

interesse 4 su 5

>per Il Post<

Corso di Alfabetizzazione Sentimentale Obbligatoria – Prof. du Lac – 6° lezione

Bravi, siete stati bravi,
la scorsa settimana avevo concluso domandandovi cosa ne pensaste della gelosia, e le risposte sono state – in buon numero – inaspettatamente soddisfacenti. Certo, diversi hanno descritto – sbagliando – una piccola componente di gelosia come necessaria, ma nessuna risposta si rifaceva a un concetto cavernicolo del rapporto uomo-donna come avevo temuto in un primo momento. Me ne rallegro: si vede, cari studenti, che vi siete applicati alle precedenti lezioni.

La gelosia è una sciocchezza. È, nella migliore fra le ipotesi, una patente mancanza di fiducia nei confronti della persona amata. Delle due l’una: o c’è una ragione per sospettare del proprio compagno – e allora questa ragione dovrebbe essere sufficiente a degradarlo a non-più-compagno – oppure non c’è una ragione, e allora perché essere gelosi? Dice bene Filippo, dubitare di un invito accettato significa:

mettere in discussione l’intelligenza, la correttezza, e quindi lo stesso rapporto amoroso che si ha con l’altro. (…) Che ragioni ho di sospettare un tradimento? E se ho ragioni di sospettare una scorrettezza, un colpo basso, che stima ho di questa persona che dovrebbe essere la migliore?

Oltre alla esaustiva prova di Filippo – farà strada questo ragazzo – ottime anche le risposte di Alberto V, Sid e Gabriele un “+” a Valeria C (posta), Daniele Ze (posta), GnG, Saverio (posta), Ilaria (posta).

Non fidarsi della persona che si ama è – in sé – una contraddizione in termini. Come possiamo diffidare della persona a cui abbiamo scelto di affidarci? Eppure ci sono esseri umani che nascondono e dubitano nascondigli, che trovano normale mandare avanti un rapporto fondato sui reciproci occultamenti. Persone che assumono dei detective privati per avere una risposta che il solo fatto di sentire la necessità di assoldare un investigatore dovrebbe dargli.

A.D. – Prof du Lac, è chiaro, se il mio compagno incontra una pretendente le ipotesi sono due: A) la pretendente non può inficiare il mio primato: non c’è ragione per cui io tema questo incontro. B) lei può inficiarlo, è possibile che lei sia migliore di me agli occhi di lui. Ciò andrebbe appurato subito: se io non sono la donna della sua vita voglio scoprirlo il prima possibile (e, semmai, provare a convincerlo del contrario).

Per questo non c’è ragione di trattenere il mio compagno da un incontro simile: il concetto che tutti professiamo – voglio che il mio amato mi scelga tutti i giorni! – ha un valore di sacralità. Desidero essere scelta, desidero il suo desiderio di desiderarmi accanto: non vorrei mai che fosse un divieto di sosta a farlo parcheggiare davanti casa mia.

Effettivamente, Dora, una coppia innamorata non è gelosa di nulla, uno dei due potrebbe dormire accanto a un pretendente – se quello della fedeltà è uno dei loro vincoli – senza che questo possa turbare l’altro: se fosse l’occasione a rendere l’uomo ladro allora saremmo tutti, potenzialmente, dei ladri. E di un ladro – inteso come qualcuno che non si stima: naturalmente le persone cambiano, e c’è anche chi non trova sbagliato rubare – non ci si può innamorare (cfr Lezione III).

L’idea che soggiace alla limitazione dell’agire del proprio amato è quella di non considerarsi all’altezza del proprio rapporto, quasi che l’aver convinto la persona che si ama di essere il suo partner ideale fosse un inganno ben riuscito ai suoi danni: saresti più felice con qualcun altro, ma io non te lo farò incontrare!

E noi vorremmo mai stare con una persona così? Un individuo che ha la protervia di volerci rendere infelici, per proprio tornaconto – dentro a un castello di costrizioni, bugie, e ali tarpate – quando là fuori, magari, c’è il principe azzurro delle favole. Se fuori dal castello c’è il Cavaliere Nero, non sprecare fatiche ed emozioni per impedirmi di incontrarlo: va lì e battilo. Dimostrami, a giudizio insindacabilmente soltanto mio, che sei migliore di lui. Sennò come puoi pretendere che m’innamori di te?

A.D. – La domanda che, assieme a du Lac, abbiamo deciso di somministrarvi questa settimana è la più difficile dall’inissio del corso, saremo perciò più larghi nella valutassione delle vostre prove:

Il partner del vostro più caro amico/a vi piace sempre di più. Che cosa fate?

Rispondete nei commenti qui sotto, oppure nella cassetta del Prof. du Lac. Ci rivediamo il prossimo martedì.

Cosa fare se non gli piaccio più?

interesse 4 su 5

>per Il Post<

Corso di Alfabetizzazione Sentimentale Obbligatoria – Prof. du Lac – 5° lezione

Benritrovati miei studenti,
il quesito che vi ho proposto la scorsa settimana ha avuto soltanto nove risposte, pochissime delle quali completamente centrate. Debbo fare ammenda: la prossima volta proverò a circoscrivere maggiormente l’ambito d’esame.

Avevo domandato che reazione avreste avuto se il vostro compagno/a vi avesse lasciato accusandovi di non piacergli, evidenziando poi due fasi successive: quella della riflessione – ove alcune risposte sono state pertinenti – e quella dell’azione – rivelatasi ostica per tutti.

Vediamo quale pensiero debba scaturire da un tale evento. Prendo alcuni stralci delle due risposte che hanno individuato il punto dirimente, sono quelle di Saverio (posta) e Alberto V (posta):

sarei assalito subito da altri dubbi. Avrei potuto evitarlo? Avrei potuto darle di più? E’ colpa mia se m’ha lasciato?

Se non sono preso di sorpresa significa che avevo rilevato qualcosa: quindi mi sento responsabile per non aver affrontato la questione prima…

È importante focalizzare questo concetto: luoghi comuni quali “le colpe sono sempre divise a metà” o – peggio – “in amore nessuno ha colpa” sono del tutto infondati. Quando ci si lascia è, sempre, colpa di chi è lasciato. Per una ragione semplice: it takes two to tango, è sufficiente l’insoddisfazione di una delle due persone per mandare tutto all’aria.

Perciò è molto semplice: se sono innamorato di una persona, e le voglio stare accanto, è lei a stabilire le condizioni. Mi vorrà intelligentissimo, fantasioso, creativo, presente, dedito, o qualunque qualità quella persona valorizzi: a suo insindacabile giudizio. Probabilmente altre persone considereranno quelle qualità sciocche, alcuni le considereranno addirittura dei difetti, ma questo è irrilevante: la valutazione, nei meccanismi ultimi della coppia, è del tutto soggettiva.

Affrontiamo, quindi, la seconda questione, quella che nessuno ha saputo individuare: come agire. Scrivono Potacchione e Ally:

In ogni caso NON provo a far cambiare idea a chi mi sta lasciando a prescindere dal mio innamoramento.

La cosa più sbagliata che si può fare è tentare un recupero.

E perché mai? È uno stropicciato senso d’orgoglio a impedirci di lottare per ciò che amiamo? E se l’orgoglio è così forte da essere in grado di impedirlo, non vuole forse dire che – allora – non eravamo così innamorati? Invece, la risposta a “cosa debbo fare se non gli piaccio più?” è una sola: la riconquisto.

O ci provo. Perché la prosecuzione naturale del concetto, appurato la scorsa settimana, per cui è letale accettare i difetti di chi si ama è quella che ciascuno di noi – se vuole innamorarsi fino in fondo – deve disporsi a cambiare per l’altro; e perciò essere incline a lottare per conquistare, o riconquistare, la persona di cui si è innamorati. Ovviamente – come Dora ci spiegherà – soltanto se ne vale la pena:

A.D. – Prendiamo il caso in cui io sia innamorata di Valter e questi mi lassi perché non gli piaccio più. Ci sono due casi: o considero le ragioni per cui non piaccio a Valter intelligenti, oppure le trovo stupide. O le trovo degne del mio impegno, e dell’applicassione più devota, oppure le considero stolte e immeritevoli della mia volitività.

Se trovo siocche le motivazioni per le quali non sono abbastanza per lui, non c’è ragione per cui debba cercare di conquistarlo. E questo è un buon motivo per deliberare di non fare proprî i suoi desiderî; ma in quel caso ho già fatto un passo indietro: non sono – o non sono più – innamorata. Se, invece, trovo giusti i suoi rammarichi, se vedo un nocciolo di verità in ciò che mi dice e nella sua persona – se vedo lui come la mia parte mancante – non potrò prefigurarmi altra scelta che non sia quella di impegnare tutta me stessa per dimostrargli che sono La Migliore. Anche ai suoi occhi.

Ciò che dice Dora deve continuare a valere se l’opinione che abbiamo del nostro amato non varia. È sensato insistere, perché ne vale la pena. Arrivati a questo punto il luogo comune domanderà: «Ma fino a quando? E, che, mi faccio suora?». Beh, certo. Che altro? Qualcuno potrebbe stare assieme a una persona nascondendogli di preferirne un’altra? Beh, forse qualcuno potrebbe: ma non sarebbe degno dell’amore dell’uno né di quello dell’altro.

A.D. Questo il compito assegnatovi per la settimana a venire:

La vostra fidanzata/o esce a cena con un suo pretendente. Come reagite? La gelosia è sana?

Potete rispondere nei commenti qui sotto, oppure nella cassetta personale del Prof. du Lac. Arrivederci a martedì prossimo.

Lunedì degli aneddoti – XXXVI – Hans

interesse 5 su 5

Hans

Ha vissuto novant’anni della più bella e romanzesca esistenza che mi venga in mente. S’è guadagnato la sua voce su Wikipedia – e che volete di più, dalla vita? – finendo sulla lista nera dei nemici di Nixon durante gli anni della guerra in Vietnam, assieme a gente come Gregory Peck, Steve McQueen, e Jane Fonda. Lui, però, ha sempre preferito la compagnia della sua Herta.

Hans era nato in Germania, da una famiglia ebrea, nel settembre del 1920. Lì assistette alla salita al potere del Nazismo e fu uno dei pochi che riuscì a scappare nell’aprile del ’37, dopo che suo padre era passato per Dachau, e lasciando tutto in Germania, amici e averi. La sua prima tappa fu l’Inghilterra dove conobbe Herta, anche lei una rifugiata ebrea tedesca. A diciott’anni gestirono assieme una scuola estiva d’inglese, che diventò ben presto una sorta di orfanotrofio per bambini ebrei tedeschi mandati lì dai genitori prima che fosse troppo tardi. Insieme, a neanche 18 anni, si diedero il compito di portare via dalla Germania più bambini possibile.

Alla fine del ’39 Hans ricevette finalmente i visti per gli USA dove poté ricongiungersi con i membri più stretti della sua famiglia che, attraverso l’Olanda, il Trentino, la Palestina, la Svizzera, erano riusciti ad attraversare l’Atlantico. Da lì continuò a rimanere in contatto con Herta, scrivendosi delle lunghe e lentissime lettere. Negli Stati Uniti Hans finì il liceo frequentando una scuola notturna, mentre di giorno lavorava per coltivare il suo sogno di andare a studiare legge a Harvard.

Il giorno successivo al 7 dicembre del 1941 – un data che vivrà nell’infamia – ascoltò per radio il famoso discorso del Presidente Roosvelt sull’attacco Giapponese a Pearl Harbor con cui gli Stati Uniti entravano in guerra. In quanto straniero Hans non aveva doveri di leva, ma sentiva di avere un intimo debito di riconoscenza verso il Paese che aveva salvato la vita a lui e a parte della sua famiglia: sulla scorta di questa spinta ideale decise di arruolarsi come volontario nei ranghi dell’Esercito Americano, l’esercito del suo nuovo Paese che finalmente aveva preso parte, e aveva preso la parte giusta. Per non sembrare un eroe, Hans racconta che in quella decisione incise anche il fatto che ciò gli avrebbe conferito, ipso facto, l’attesa cittadinanza americana.

Una volta nell’esercito fu assegnato a un battaglione che avrebbe svolto una funzione di intelligence in Marocco, e gli furono impartite lezioni di arabo per 10 ore al giorno, da dottorandi di linguistica che non sapevano nulla d’arabo ma riuscivano a tenersi una lezione avanti ai loro studenti. Dopo un anno di questa preparazione intensiva la missione non fu approvata, e l’aver imparato alla perfezione quella lingua non gli servì mai più: altri commilitoni ne fecero una carriera, diventando commercianti con il Medio Oriente, o insegnanti di arabo all’università. Con lo smantellamento della missione in Marocco la sua frustrazione per il mancato contributo alle buone sorti di un conflitto in cui davvero credeva, crebbe a dismisura. Temendo di essere assegnato a un’altra scuola per i suoi buoni voti, chiese il permesso di segnalarsi come volontario nelle squadre dei paracadutisti.

C’era un’altra ragione per la quale fare quella scelta: a qualche mese dallo sbarco in Normandia, l’Inghilterra era il luogo dove i paracadutisti americani venivano inviati. E in Inghilterra c’era Herta. La corrispondenza con la futura moglie era diventata sempre più fitta, e la voglia di rivedersi sempre più forte. Intanto Hans aveva scalato i gradi dell’esercito per una ragione semplice: era uno dei pochissimi, lui e gli altri profughi dalla Germania, a parlare un tedesco perfetto senza accento inglese. Ciò, probabilmente, gli valse la fortuna di non essere assegnato alle prime linee per lo sbarco del 7 giugno in Normandia.

I nuovi gradi conferitigli gli diedero il diritto a una Jeep nelle ore libere con cui poté andare da Herta, centinaia di lettere, e cinque anni dopo essersi visti l’ultima volta. Si incontrarono altre due volte prima di capire che le loro vite si appartenevano l’un l’altra. La terza volta fu presente il padre di lei, che approvò entusiasticamente il loro matrimonio. Cercarono di fare tutto nel più breve tempo possibile, perché sapevano che Hans poteva essere inviato in Francia senza preavviso ciascuno dei giorni che sarebbero seguiti.

Hans fece formale richiesta ai proprî superiori – come era dovere di qualunque membro dell’esercito volesse contrarre un matrimonio – e ricevette, dal Comando del Generale Eisenhower, una risposta non proprio gradita: il permesso era concesso, ma era soggetto a un’attesa di 90 giorni. Questo era il tipico ordine, quasi procedurale, che veniva dato ai militari che chiedevano di sposarsi durante le missioni in terra estera: succedeva fin troppo spesso che delle reclute uscissero una sera con una ballerina di un paese straniero, e volessero sposarla l’indomani. Il paradosso era però che una regola istituita per i soldati che volevano sposare una ragazza conosciuta la sera prima si applicava anche a Hans, che conosceva Herta da cinque anni. C’era poco da fare: questo è l’esercito. Poco tempo dopo Hans fu assegnato a un reggimento d’intelligence della 82° Airborne Division. E sebbene nessuna delle lettere con “indicazioni sensibili” le fosse stata recapitata, Herta vide gli aerei militari passare sopra la propria testa, in direzione del mare, e capì che il suo non-ancora-marito stava volando oltre la Manica.

Non solo il danno, ma la beffa: durante i primi mesi di combattimenti nella parte di Francia appena liberata, la vicenda del mancato matrimonio era valsa a Hans le beffe di tutti i commilitoni. Potete immaginare: uno sciagurato che aveva incontrato la propria fidanzata cinque anni prima e non aveva avuto il permesso di sposarla perché la conosceva da troppo poco tempo. Era proprio il tipo di faccenda – di regolamenti pensati per delle situazioni e applicati con zelo ad altre che non lo richiederebbero – per cui era noto l’esercito, e che destavano l’ilarità dei graduati. Pane per le lingue malevole, Hans era diventato “quello che Eisenhower non vuole far sposare”. Tuttavia questa particolare notorietà non si rivelò di pieno detrimento: le tanto divertenti vicissitudini di questo ufficiale un po’ impacciato arrivarono in alto, molto in alto.

Un giorno di dicembre, Hans fu chiamato a relazionare il Comandante del Personale di Divisione. Seguì questo dialogo – immaginatelo col tono militaresco con cui lo racconta Hans: «Tenente, è ancora dell’idea di sposarsi?» «Sì, signore» «Il periodo di 90 giorni di attesa è terminato?» «Sì, signore» «Bene, c’è un pilota del comando trasporto truppe che vuole sposarsi anch’egli e ha terminato il suo periodo di attesa. Darò ordine di emettere un permesso temporaneo per l’Inghilterra e autorizzerò l’uso di un aeroplano militare a questo proposito. Il vostro compito è quello di sposarvi nel più breve tempo possibile, trascorrere qualche giorno con le vostre spose e riportare i vostri culi, e l’aeroplano, in questo preciso luogo. Decollate!» «Sì, signore. Grazie Signore».

Due giorni dopo Hans e Herta si sposarono civilmente e partirono per una breve luna di miele alla volta di Torquay, in Cornovaglia, unico posto dove il freddo del dicembre inglese potesse essere un po’ mitigato dal mare. Lì affittarono una minuscola stanza con bagno in una casa cantoniera: era piccolissima, ma era libera ed economica. Una sera poi – crepi l’avarizia – decisero di permettersi una cena, e il ballo che ne seguiva, nell’albergo più lussuoso della città: l’Imperial Hotel. Tornarono a Londra per una seconda cerimonia, quella con rito ebraico, che fu celebrata da un cappellano – cattolico – dell’Esercito Americano: era il suo dovere, e lo svolse con cura e partecipazione.

Credo che Hans sia una delle pochissime persone a essere stato sposato, nel proprio rito, da un ministro di un altro culto, e ad avere, oltre alle tante traversie, superato un veto al proprio sposalizio imposto da un futuro Presidente degli Stati Uniti: sarà per questo che quel matrimonio è durato 56 anni.

Alla fine il nostro eroe non fu impiegato in alcuna azione di copertura, ma fece diversi interrogatorî ad alti gradi delle SS o dell’esercito. In uno di questi contrattò la resa di un battaglione di diverse migliaia di tedeschi e, quale segno di capitolazione, il generale della Wehrmacht gli consegnò la pistola d’ordinanza, arma che Hans ha sempre conservato. Alla fine della guerra partecipò alla ricostruzione in Germania – ma quando gli fu offerta indietro la nazionalità tedesca, toltagli anni prima, rifiutò – poi tornò in America per continuare i suoi studî. Lui, quando racconta queste cose, specifica che il resto della sua vita fu molto più noioso.

Negli Stati Uniti si affermò come avvocato e, nel loro primo viaggio in Inghilterra, Herta e Hans tornarono a Torquay. Questa volta soggiornarono all’Imperial Hotel e replicarono il ballo di quella sera di diciassette anni prima, in una delle scene più romantiche ch’io riesca a immaginare.

Hans è morto ieri, accanto a Herta, un anno e mezzo dopo aver festeggiato la vittoria di Barack Obama nella sua, grande, America. Era il fratello di mia nonna. Questo è il mio piccolo pensiero per lui.


[Qui il primo: Brutti e liberi qui il secondo: Grande Raccordo Anulare qui il terzo: Il caso Plutone qui il quarto: I frocioni qui il quinto: Comunisti qui il sesto: La rettorica qui il settimo: Rockall qui l’ottavo: Compagno dove sei? qui il nono: La guerra del Fútbol qui il decimo: Babbo Natale esiste qui l’undicesimo: Caravaggio bruciava di rabbia – qui il dodicesimo: Salvato due volte – qui il tredicesimo: lo sconosciuto che salvò il mondo qui il quattordicesimo: Il barile si ferma qui qui il quindicesimo: Servizî segretissimi qui il sedicesimo: Gagarin, patente e libretto qui il diciassettesimo: La caduta del Muro qui il diciottesimo: Botta di culo qui il diciannovesimo: (Very) Nouvelle Cuisine qui il ventesimo: Il gallo nero qui il ventunesimo: A che ora è la fine del mondo? qui il ventiduesimo: Che bisogno c’è? qui il ventitreesimo: Fare il portoghese qui il ventiquattresimo: Saluti qui il venticinquesimo: La fuga qui il ventiseiesimo: Dumas qui il ventisettesimo: Zzzzzz qui il ventottesimo: Teorema della cacca di cavallo qui il ventinovesimo: Morto un papa qui il trentesimo: L’invincibile Marco Aurelio qui il trentunesimo: L’Amabile Audrey – qui il trentaduesimo: Anima pura – qui il trentatreesimo: Ponte ponente – qui il trentaquattresimo: Batigolqui il trentacinquesimo: L’originalità del bene]

 

Accettare i difetti di chi si ama?

interesse: 4 su 5

per il Post

Corso di Alfabetizzazione Sentimentale Obbligatoria – Prof. du Lac – 4° lezione

Eccoci di nuovo qui cari allievi,
il quesito della scorsa settimana ha dato àdito a risposte combattute, succulente e davvero polarizzate: c’è chi dice che bisogni – certamente – accettare i difetti dell’amato e chi dice, assolutamente, di no.

Facciamo chiarezza su quello che – in realtà – è solo un vezzo linguistico: “io amo i difetti del mio amato”. È l’errore in cui incorrono Anton Ioni e Federica trascurando l’elementare considerazione che gli individui hanno preferenze peculiari: se ciò che fa una persona ci piace, quello più che un difetto è una qualità. Dire che si ama qualcuno per i suoi difetti è una sciocchezza: per noi quella caratteristica è un pregio, checché ne dica il resto del mondo.

Esemplare, in questo senso, il compito di Gabriele:

NO, i difetti non si devono accettare: si devono affrontare. E vorrei però precisare che, secondo me, i difetti sono soggettivi e non oggettivi: io non considero un difetto l’essere disordinati, per mia madre è uno dei peggior difetti. Voler migliorare credo che sia la vera essenza dell’amore. Sia verso un’altra persona che verso se stessi.

Che ci permette di passare ad affrontare il punto centrale del CASO di oggi assieme a Saverio (posta):

In effetti credo che faccia parte delle “scienze sentimentali” l’idea per cui si possano comunicare dei “valori”, nella speranza che possano migliorare i nostri partner (e viceversa: se la mia compagna non mi migliora, che compagna è?). Insomma, la bellezza di un rapporto è anche quella di crescere assieme.

In questo senso un “+” va ad Alberto V (posta), Ally, Luca, Angelo, Marco, Franco, Potacchione (posta) e Lucia. Devo però una menzione speciale all’eccezionale, anche se un po’ arzigogolata, prova di Filippo: ne ho viste poche, di così buone, in decenni d’insegnamento.

Accettare qualcosa che non ci piace in una persona significa degradarla. Significa pensare che chi amiamo non abbia la capacità o la voglia di modificare un suo difetto. Significa condannarsi all’idea che un’altra persona – simile, ma priva di quel difetto – potrebbe presto prenderne il posto.

A.D. È così: se la coincidensa perfetta – almeno in partensa – è quantomeno implausibile, è vero che ci sono due possibili strade per fronteggiare tale imperfessione: si può decidere di cambiare gli uni per gli altri o di sottomettersi all’idea di piacere a metà. Si può scegliere d’impegnarsi a evolvere, o costringere chi ci sta accanto a tollerare ciò che non ama. È del tutto ovvio quale, fra queste due strade, sia quella dell’innamorato.

Non ci innamoriamo di mille persone alla volta, ma di una sola: è quella che ci può dare i migliori consigli e che ci sa insegnare le cose più giuste. Se non pensassimo questo di lei, come ce ne potremmo innamorare? E così viceversa: scelgo chi è già un bel terreno e ha la giusta disposissione per coltivarlo. È per questo che non potrei “accettare” i difetti della persona che amo: non potrei mai accettare di rinunciare a una parte di lui, di darlo per perduto.

È proprio così, Dora. Chi dice che le persone non cambiano fa un errore lordo: misura gli altri col proprio metro inane e stantìo; se non si è in grado o – più sinceramente – non si è disposti a migliorarsi, è abusivo estendere la stessa misura agli altri. È probabile che ci siano persone ottuse e affezionate ai lati peggiori di loro stessi, ma non è fra queste che vogliamo scegliere il nostro amato.

Perfettamente speculare a questo è ciò che, in proprio, va fatto: non bisogna accettarsi, non bisogna “essere sé stessi”, bisogna costantemente cercare di essere un’altra persona, un “io” – un po’ – migliore del giorno prima. E l’unico modo per fare questa operazione è scegliere una persona che ci sia alleata, una persona con cui – dandole il braccio – salire milioni di scale.

A.D. Questa settimana, nei compiti a casa, facciamo il primo passo dalla teoria all’applicassione pratica:

Valentino/a vi lascia, dopo diverso tempo assieme, dicendovi che si è reso/a conto che non gli/le piacete. Quali sono i vostri pensieri? Come agite?

Inviate le vostre risposte qui sotto oppure nella posta del Prof. Discuteremo le risposte martedì prossimo.

Ci si può innamorare di un assassino?

interesse: 3 su 5
>per il Post<
Corso di Alfabetizzazione Sentimentale Obbligatoria – Prof. du Lac – 3° lezione

Ragazzi, che disastro.
Sapevo che la domanda che vi avevo proposto al termine della scorsa lezione vi avrebbe creato qualche grattacapo, ma non mi aspettavo questo sfacelo: i tre quarti di voi hanno dato risposte completamente errate. Vi chiedo più applicazione e più studio.
Per fortuna alcuni hanno avuto qualche buona intuizione di cui terrò conto in sede d’esame: ottime le considerazioni di Saverio (nella posta), e posso assegnare un “+” a Federica (posta), Gabriele, Ally e Sergio (posta).

Il quesito era – lo ricordo in particolare ai lavativi come Emidio che dimostrano di non aver studiato la prima lezione – se ci si possa innamorare di un assassino. La scelta di questa figura era topica – uccidere una persona è un’azione che, in genere, incontra la disapprovazione di tutti – e necessita di alcuni distinguo puntualizzati, qua e là, anche nei vostri compiti: sono importanti le circostanze, intanto, e poi gli individui cambiano nel tempo. Quindi ciò di cui discuteremo non è essere un assassino (né tantomeno esserlo stato), ma trovare giuste, e magari compiere, delle azioni che noi consideriamo riprovevoli.

Partiamo, quindi, da una risposta errata – scrive Alberto O. (posta):

Perché no? Non sono forse queste le persone che hanno una personalità molto attraente?

Essere attratti da una persona che fa qualcosa di spregevole non dovrebbe indurci a qualche domanda su quali siano, in effetti, le nostre idee? Se ci piace una persona perché fa qualcosa di spregevole non vuol dire che, in realtà, ci piace quello che fa? E se invece ci piace nonostante quello che fa, non vuol dire che, in fondo, ciò che fa non ci dispiace così tanto?

È evidente che, perché ci piaccia qualcuno, questa persona debba possedere delle qualità che ci attraggono. È un luogo comune sciocco quello per cui – ah, l’amore è pazzerello – ci si possa innamorare di qualunque individuo, e sia solo una congiunzione astrale a fare sì che ciò succeda. Sarebbe un’idea ben meschina, questa, per cui – in fondo – le persone sono intercambiabili.

A.D.: Sì, professore: l’esempio dell’assassino solletica il nostro immaginario turbato dai romansi d’appendice perché indugia e insinua una componente fascinosa nella diabolicità, portandoci a trascurare quanto – in effetti – dispressiamo una persona che faccia del male agli altri. Ma è un trucco: siamo tutte potensiali ammiratrici dei Vallansasca dei poveri, ma un passo più in là e ci rendiamo conto di quanto sia strampalata una prospettiva del genere.

Davvero non contano le qualità, la stima, le opinioni che si hanno delle persone? Davvero è un terno al lotto, e la sorte – per avventura – decide di chi ci innamoriamo? E allora perché non ci possiamo innamorare di – ognuno riconosca il proprio contraltare – Emilio Fede e Beppe Grillo? Vi potreste innamorare di Maurissio Gasparri? E di Fabrissio Corona? E voialtri, potreste innamorarvi indifferentemente di Paola Binetti, Noemi Letissia e Margherita Hack? Persone diversissime: probabilmente se ce ne piace una non ci piacerà l’altra. Per una ragione semplice: perché l’amore è scelta, prima di tutto.

Già, Dora, detrarre al sentimento la sua parte costitutiva di valutazione è un procedimento, del tutto abusivo, che si rifà a un’idea spregiativa e gretta dell’amore, sovente ammantata di una coltre di magicità cavernicola, per cui – in sostanza – ci si innamora a caso (e non a CASO).

Invece la persona di cui ci innamoriamo è quella che ci piace di più. Quella le cui qualità – in modo conscio o inconscio – apprezziamo maggiormente: essere innamorati di una persona è un’elezione, continua e quotidiana. È la scelta di un migliore.

A.D. Il compito assegnatovi per questa settimana è rispondere al seguente quesito:

È giusto accettare i difetti del proprio amato?

Potete inviare le vostre risposte qui sotto, oppure nella cassetta della posta di du Lac. Il risultato del test sarà commentato nella quarta lessione.

Scappare a Cuba per amore è ragionevole?

interesse 4 su 5

>per Il Post<

Corso di Alfabetizzazione Sentimentale Obbligatoria Prof du Lac 2° lezione

Ben ritrovati cari studenti,
questa al mio fianco è la Dott.ssa A.Dora, che – come vi avevo annunciato – mi assisterà nello svolgimento del Corso. Dora ci sarà particolarmente utile per la sua specializzazione in Non Esitanza conferitale dall’Ateneo Augustobona.

La settimana scorsa ci eravamo lasciati nel pieno della crasi fra emotività e razionalità. Il quesito che vi avevo assegnato puntava a evidenziare il luogo comune con cui si sono scontrati i più illustri luminari di questa disciplina: quello secondo cui emozione e ragionamento facciano a cazzotti.

Vi avevo domandato, riassumendo, se fosse razionale rinunciare a un incarico decisamente appagante per una fuga d’amore. Non posso citare tutti i compiti ricevuti – in questa sede, nella mia cassetta personale, o all’uscita di altre lezioni – ma ho letto e valutato ciascuno di essi: meritano una menzione gli eccellenti lavori di Saverio (posta) e Ilaria (posta), un segno “+” a  Federico, Ally, Primaverina, Gabriele e Angelo.

Ho tuttavia scelto come esempio di risposta esatta, in tutta la sua chiarezza, la seguente:

Nell’ovvia ignoranza del futuro avere fatto ciò che preferivo è la scelta giusta ed è un comportamento razionale se ritengo che la mia vita sarà complessivamente migliore seguendo questa decisione.

Come vedete l’analisi è semplicissima; e la risposta corretta è, come talvolta accade, “dipende”. Daniele sottolinea una cosa molto importante: dato che la razionalità è soltanto un metodo e non un connotato individuale, la domanda non dava elementi sufficienti per una risposta univoca. Per dare una misura a ciò che – proprio per questa mancanza di dati – non fosse legittimo dire, leggo la più classica delle risposte errate:

È ovvio che la razionalità tenda alla Presidenza USA; il cuore, il sentimento, l’amore tendono, al contrario, verso la persona amata.

Non è ovvio. È sbagliato misurare gli altri con il proprio metro: scegliere razionalmente significa operare una scelta partendo dai dati che si hanno, con l’obiettivo di mirare al meglio per sé (lo stesso Daniele aggiungeva un azzeccatissimo caveat: «E con migliore intendo al netto di tutto, quindi non solo da un punto di vista egoistico, perché la vita degli altri influenza anche la tua»). Ciascuno ha il diritto – quasi il dovere – di puntare alla propria felicità, quando questa non renda infelici altri individui. Lascio la parola a Dora:

A.D.: Poniamo il caso in cui io rifiuti la presidenza degli Stati Uniti per fuggire alle isole Kiribati col mio amato. Abbiamo elementi per inferire che l’abbia deciso irrassionalmente? No di certo: altri potrebbero dire «io non lo farei» o, al massimo, assardare ch’io abbia sbagliato per me stessa, ma non c’è alcuna ragione per dire che non abbia analissato a pieno la situazione. Semplicemente, penso che se sono davvero innamorata di una persona, stare al fianco di quella persona è ciò che mi rende più felice rispetto a ogni altra cosa, quindi qualunque rinuncia – anche la Casa Bianca – sarebbe minore confrontata alla privassione del mio amato.

Come potete apprezzare, Dora sta compiendo una scelta squisitamente razionale: valuta gli elementi in campo, e sceglie ciò che – lei crede – la renderà più felice. Tutto ciò perché la logica è soltanto un metodo, non un polo d’attrazione: per questo è necessario – anzi, obbligatorio! – un CASO. A partire dalle inclinazioni di ciascuno è necessario applicare il ragionamento per discernere fra scelte sensate e scelte insensate, scelte giuste e scelte sbagliate – e, ancor più essenziale – scelte aride e scelte innamorate.

Come dice sempre M. Doyen, un mio collega che insegna a Harvard: «what you believe, matters!». Ciò che uno crede e pensa, ciò che uno fa, ha delle dirette conseguenze, e non ci si può appellare alla presunta arbitrarietà dell’amore.
Perché è proprio questo il punto, è tutto il contrario di ciò che si dice: in amore non vale tutto. Anzi, vale pochissimo: non vale niente che sia meno del massimo.

A.D.: Ecco qui, cari studenti: il foglio che ho appoggiato sui vostri banchi contiene la domanda che il Professor du Lac vi ha assegnato questa settimana. L’invito è quello di motivare la propria risposta:

Potreste innamorarvi di un assassino?

Come la scorsa volta potete presentare le vostre risposte in questa sede oppure nella cassetta della posta di du Lac, che le analisserà nella tersa lessione. Con ciò vi saluto.

Arrivederci alla prossima settimana.

Lunedì degli aneddoti – XXXV – L’originalità del bene

interesse 5 su 5

Mi ero ripromesso di scrivere un aneddoto sulla storia fra Arendt e Heidegger: la scoprii nell’estate del 2003 da un articolo di Repubblica che rubai a un amico, due paginone al 38 e al 39 che – ingiallite – ancora conservo. Poi cercai il libro che racchiudeva tutte le lettere fra Hannah e Martin, e che poi persi. Lo ritrovai quando una mia vecchia fidanzata me lo portò, con sé, in casa. L’uomo che Hannah sposò, Heinrich Blücher, rimase sempre l’emblema dell’amore pigro e rispettoso, di quel tipo di affetto – che potremmo definire calore – non invasivo e poco ingombrante. Martin invece, l’amore assoluto, dirompente, invasivo e irrispettoso. Mi ero ripromesso di scrivere di loro, uno di questi lunedì; poi, qualche mese fa, ho letto in giro un aneddoto che non conoscevo, e allora non potevo non metterci quello. Avevo pensato di riscriverlo, ma non farei meglio di così:

L’originalità del bene

Hannah Arendt e Martin Heidegger, nei primi anni venti, avevano una relazione segreta. Hannah era ebrea, perciò, quando furono promulgate le leggi razziali, sposò un uomo di convenienza ed emigrò negli Stati Uniti. E, volente o nolente, dovette rompere con Martin, che era iscritto al partito nazionalsocialista, nonostante non ne condividesse le idee. Era il 1933 quando si videro per l’ultima volta. Negli anni successivi non ebbero più notizie l’uno dell’altra, se non deboli echi delle rispettive fame. Hannah divenne sempre più famosa come conferenziera e Martin fu nominato rettore dell’università di Friburgo, e una volta finita la guerra cadde in disgrazia, come tutti coloro che avevano rivestito una qualche carica sotto il nazionalsocialismo. Quando, ormai negli anni cinquanta, Martin venne a sapere che Hannah avrebbe tenuto una conferenza nella sua città, decise di assistervi per rivedere, senza essere visto, quel suo amore, forse mai dimenticato, forse no. Alla conferenza Martin sedette in un angolo – io me l’immagino un po’ rannicchiato, infagottato in un impermeabile. Curioso e probabilmente spaurito, convinto della sua invisibilità. Non si vedevano da vent’anni. Hannah entrò, si guardò attorno e cominciò il suo discorso. E disse: “Signori, signore, caro Martin, benvenuti”.

da qui, via lui

[Qui il primo: Brutti e liberi qui il secondo: Grande Raccordo Anulare qui il terzo: Il caso Plutone qui il quarto: I frocioni qui il quinto: Comunisti qui il sesto: La rettorica qui il settimo: Rockall qui l’ottavo: Compagno dove sei? qui il nono: La guerra del Fútbol qui il decimo: Babbo Natale esiste qui l’undicesimo: Caravaggio bruciava di rabbia – qui il dodicesimo: Salvato due volte – qui il tredicesimo: lo sconosciuto che salvò il mondo qui il quattordicesimo: Il barile si ferma qui qui il quindicesimo: Servizî segretissimi qui il sedicesimo: Gagarin, patente e libretto qui il diciassettesimo: La caduta del Muro qui il diciottesimo: Botta di culo qui il diciannovesimo: (Very) Nouvelle Cuisine qui il ventesimo: Il gallo nero qui il ventunesimo: A che ora è la fine del mondo? qui il ventiduesimo: Che bisogno c’è? qui il ventitreesimo: Fare il portoghese qui il ventiquattresimo: Saluti qui il venticinquesimo: La fuga qui il ventiseiesimo: Dumas qui il ventisettesimo: Zzzzzz qui il ventottesimo: Teorema della cacca di cavallo qui il ventinovesimo: Morto un papa qui il trentesimo: L’invincibile Marco Aurelio qui il trentunesimo: L’Amabile Audrey – qui il trentaduesimo: Anima pura – qui il trentatreesimo: Ponte ponente – qui il trentaquattresimo: Batigol]

Vuoi indicare un aneddoto per un prossimo lunedì? Segnalamelo.

Introduzione al CASO: il Corso

interesse: 4 su 5

-> per Il Post <-

Corso di Alfabetizzazione Sentimentale Obbligatoria – Prof. du Lac – 1° lezione

Che reazione avete se il vostro amato esce a cena con un suo pretendente? È più sano un rapporto in cui ognuno ha i-suoi-spazî? È sensato accettare i difetti di chi si ama? Essere gelosi è inevitabile o addirittura positivo? E l’onestà è necessaria: bisogna dirsi proprio tutto?

Cari studenti, piacere a tutti voi. Sono il docente che vi terrà questo Corso di Alfabetizzazione Sentimentale Obbligatoria (abbreviato CASO) la cui iscrizione è, appunto, obbligatoria.

Mi presento subito, sono il Professor Du Lac, sono laureato in Competenza Sentimentale alla prestigiosa Università di Kernow. Ho un Master in Struttura Amorosa alla scuola specializzata di Cherbourg de la Manche. PhD in Parole Giuste all’università Bonmatì di Tingi. Prima di tornare in Italia ho fatto diverse ricerche sul medesimo tema per l’Istituto dell’Abbazia Abbaiante di Londra. Dalla prossima lezione sarà presente anche la mia assistente – la dottoressa A. Dora – che vi introdurrò in quell’occasione.

Il Corso consterà di un numero di lezioni stabilito sulla base della vostra incompetenza. Ciascuna lezione vi servirà ad approfondire i diversi aspetti di una materia, l’alfabetizzazione sentimentale, nella quale si evidenziano enormi lacune anche negli studenti più preparati.
Il livello di accesso al corso è quello base: so che siete tutti delle capre. Non è requisito l’aver frequentato alcun insegnamento propedeutico, anche se è utile essere provvisti di qualche nozione di: Lingua italiana I, Logica elementare I e II, Letteratura a giro per il mondo I, Sorpresosità III e IV, Autostima III. Chi non avesse frequentato i suddetti corsi è caldamente invitato a procurarsene un manuale.

Ciò che imparerete trova valore e applicazione in qualunque tipo di rapporto d’affetto: uomini con uomini, donne con uomini, spaghetti con donne, cani con computer Apple – chiunque sostenga che due donne o due uomini non possono essere innamorati sarà immediatamente allontanato dall’aula per manifesta incompetenza sentimentale.

*** Facciamo ora un quarto d’ora di sosta. Alla ripresa cercheremo di fare una panoramica della metodologia e ragione d’essere del corso ***

Eccoci, cari studenti, riprendete posto.

Ci sono due cose su cui tutti ma proprio tutti – anche quelli che non ne sanno davvero nulla – mettono bocca con sottesa e sedicente competenza. Due cose: lo sport, soprattutto il calcio. E i rapporti umani, soprattutto i rapporti di coppia. Siamo 6 miliardi di allenatori della Nazionale, ma siamo anche 6 miliardi di amatori modello.

Eppure se io mettessi piede in un convegno di matematici affermando che il teorema di Laplace è una cretinata – e scusate l’anacoluto – pensate che qualcuno mi prenderebbe sul serio? Beh, no. Perché non ho nessuna competenza in quel campo. Io di matematica non so nulla: non l’ho mai studiata a livelli sufficientemente approfonditi per capirne davvero qualcosa. Il mio non sarebbe un parere ragionato.
Invece, per sport e sentimenti non funziona così. Ogni opinione sembra avere legittimità e vita propria. Ma se il calcio – almeno – ha un anticorpo, i rapporti di coppia non ce l’hanno: il Barcellona e il Chelsea non prenderanno mai ad allenare l’ubriacone al pub che inventa formazioni alternative – invece nei rapporti umani ognuno è l’allenatore di sé stesso. E, peggio ancora, pensa di essere il migliore allenatore possibile.

Ognuno – certo – ha il proprio pensiero, ma la tua libertà di pensarla in un modo finisce dove inizia la mia libertà di criticare quel modo. E precisamente questo è l’uopo del corso: criticare quel modo.
Ciò che dobbiamo fare è recuperare lo spazio di discussione perduto: ragionare d’amore non è come ballare d’architettura. Pensare è utile per capire cosa è giusto fare; sentire è utile ad avere la forza per farlo. Di questo fittizia contraddizione, fra emotività e razionalità, avremo modo di parlare nelle lezioni a venire.

Mi resta soltanto da assegnarvi i compiti per casa: come unico lavoro – varrà come prova d’ingresso – vi chiedo di rispondere al seguente quesito:

Vi viene offerto il posto di Presidente degli Stati Uniti, ma voi decidete di fuggire alle isole Kiribati per seguire la persona di cui siete innamorati. Fate bene o male? Il vostro è un comportamento razionale?

La risposta a queste due domande può essere presentata nel form dei commenti qui sotto oppure nella mia cassetta personale della posta: le vostre prove saranno commentate e analizzate, assieme alla spiegazione di quale sia la risposta corretta, durante la prossima lezione – che, vi prometto, sarà più breve.

Bene, ringrazio tutti dell’attenzione, e vi do appuntamento alla prossima settimana.