Gli idioti

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Netanyahu ha parlato al Congresso americano. Ha fatto anche un discorso non-così-orribile, forse il meglio che ci si potesse aspettare da uno come lui. Uno che Avi Shlaim definì come un esempio di “quella cosa così rara: un autentico ciarlatano”. Insomma, metà son bugie e l’altra metà son trucchetti dialettici. Ecco, però meglio un ciarlatano che dica cose accettabili che uno che ne dica di inaccettabili. Poi, però, ci sono gli idioti: quelli che riescono a far fare una gran figura persino a Netanyahu.

Durante il discorso, un gruppo di ragazzi è entrato nell’aula del Congresso e una ragazza ha iniziato a sputare urlacci e insulti all’indirizzo di Netanyahu tentando di zittirlo. Ora, al di là del fatto – etico – che chiunque zittisca un’altra persona è soltanto una cosa: un fascista – che ogni volta che zittisci qualcuno ti rendi prigioniero della tua stessa azione. Ma al di là di questo, proprio a livello strategico, quanto devi essere imbecille per intervenire in un discorso a quel modo? Quanto sai che stai offrendo un assist gigantesco al tuo nemico? È solo narcisismo, non puoi non saperlo, perché così gli permetti di spostare il discorso sull’unica cosa su cui ha inevitabilmente ragione. E infatti:

Dopo una cascata di applausi tesi a sotterrare gli urlacci di Rachel Abileah, Netanyahu ha potuto rispondere:

Sapete? Io la considero come una medaglia all’onore, e così dovreste voi: perché nelle nostre società libere possiamo protestare. Non si possono avere questo tipo di proteste nei farseschi parlamenti a Teheran o Tripoli: questa è vera democrazia. (applauso gigantesco) Aspettiamo e speriamo che tutti i giovani del Medio Oriente e dell’Iran avranno la possibilità di fare quello che ha appena fatto quella ragazza (altro applauso).

E ancora:

Coraggiosi dimostranti nei Paesi arabi stanno lottando per garantirsi questi stessi diritti, per loro stessi, per le loro società. Noi siamo orgogliosi del fatto che più di un milione di cittadini arabi in Israele hanno goduto di questi diritti per decenni. Dei 300 milioni di arabi in Medio Oriente o Nord Africa, soltanto gli arabi che sono cittadini d’Israele godono di veri diritti democratici. Vorrei che vi fermaste un momento a pensarci: dei 300 milioni di arabi, meno della metà dell’uno percento sono veramente liberi, e sono tutti cittadini d’Israele!

Gioco. Partita. Incontro. Imbecille.

Cosa sono i confini del ’67

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Ho scritto per il Post questo riassuntone su cosa sono i “confini del ’67”, di cui si parla sempre, e su cui ha incentrato il proprio discorso Obama. Ho provato a tenerlo breve per favorire la lettura a tutti, e quindi ho dovuto scegliere quali erano gli eventi più rilevanti. Ci ho messo mappe, aneddoti, e meno opinioni del solito – quindi meno pessimismo!

“I territori del ’67 devono essere la base per il trattato di pace fra Israele e Palestina”, ha detto ieri Barack Obama, nel proprio discorso sul Medio Oriente. Ci sono due cose da sapere, intanto: la prima è che si chiamano territori del ’67, ma Israele li ha ottenuti vent’anni prima: dopo la guerra del ’48. La seconda è che sono stati la “base” di tutte le trattative fra israeliani e palestinesi – e sappiamo tutti com’è andata, visto che siamo ancora qui a parlarne. Verrebbe da chiedersi, allora, perché Obama li riproponga come punto di riferimento per raggiungere la pace. La risposta è semplice: non sono una novità, non sono una via facile, ma sono l’unica strada percorribile. Come disse una volta il presidente israeliano Peres «non è che non ci sia luce in fondo al tunnel, è proprio che non troviamo il tunnel».

Per questo, l’insistenza sulla questione dei territori è più che giustificata: l’eterno conflitto arabo-israeliano è, prima di ogni altra cosa, una guerra per ogni piccolo pezzetto di terra. Se andate in giro in quelle zone, da Tel Aviv a Ramallah, vi spiegheranno che il problema del conflitto arabo-israeliano è uno, anzi sono due: c’è troppa storia e troppa poca geografia. Sulla storia del conflitto israeliano si potrebbero scrivere biblioteche intere, che difatti sono state scritte. Quello che segue vuole essere un velocissimo riepilogo dei principali eventi utili a capire cosa sono questi fantomatici territori del ’67, e perché sono così importanti.

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Vittorio Arrigoni era un loro nemico

Ero ancora sveglio quando si è saputo di Arrigoni e mi sono messo a scrivere.
Questo è quello che ne è venuto fuori la mattina dopo. Pubblicato ieri sul Post.

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È notte, a Gaza è ancora più notte, e ho appena ricevuto la notizia dell’assassinio di Vittorio Arrigoni. Probabilmente ci avrei litigato tutta una sera parlando di Palestina davanti a uno knafe, e sono ora qui con gli occhi gonfi. Riesco a pensare soltanto “non ci posso credere”, anche tutte le persone che conoscevo giù in Palestina scrivono o dicono la stessa cosa: “non ci posso credere”.

Inutile nasconderlo, mi sono domandato: “poteva capitare a me?”. Quando sei lì ci scherzi sempre su, è una cosa alla quale capita di pensare – insieme agli altri volontarî – ma che non prendi mai sul serio: «la Palestina è il posto più sicuro al mondo: c’è un soldato a ogni incrocio!». E poi, senza crederci per davvero: «i Territorî Occupati non sono Gaza, è lì che rapiscono la gente». E invece l’hanno rapito per davvero, e l’hanno ammazzato.

La notizia me l’ha data un’amica che ha lavorato a Gaza e ora collabora con le Nazioni Unite in Egitto. Con lei abbiamo il macabro rito di sentirci ogni volta che in quella terra maledetta succede qualche disastro: qualche notte fa mi ha chiamato in lacrime dopo aver letto dell’uccisione di Juliano Mer Khamis. La sua incredulità è stata ancora più caustica e scoraggiata: «non ci posso credere. Vittorio Arrigoni. Cioè, ma uccidete uno di noi dell’Onu semmai», mi ha detto. È il modo disperato di provare a entrare nella mente di questi farabutti, di provare a misurare la realtà con il loro metro pazzoide, per appigliarsi anche al più piccolo barlume di spiegazione razionale.

Arrigoni non era uno spirito libero. Era devoto anima e corpo – e mai così tanto il suo corpo era lì – alla sua precisa idea di lotta per la liberazione della gente in Palestina. Era la più pro-palestinese e la più anti-israeliana delle voci che si potessero ascoltare sul Medio Oriente. Non è bastato questo bagaglio di verità ideologiche, pregiudizî che non gli ho mai scusato, ad acquietare questi assassini. L’infame sorte, come era stata quella di Angelo Frammartino, di morire per mano di coloro per cui stai provando a lavorare – forse la cosa più vicina all’essere un martire, uno shahid – rende questa morte ancora più straziante e assurda.

Per questo ci sono già i soliti rintronati che gridano al complotto sionista – deve essere stato il Mossad: niente di quello che Arrigoni faceva, scriveva, diceva, poteva suggerirlo come bersaglio. Ma queste canaglie non ci odiano per quello che facciamo, scriviamo o diciamo. Ci odiano per quello che siamo. Vittorio Arrigoni corrompeva con i suoi “vizî occidentali” la gioventù mussulmana, e veniva dall’Italia, un “Paese infedele”. Non c’è niente di più simile al razzismo: l’odio nei confronti dell’altro non per quello che fa, né per quello che pensa, ma per ciò che è.

Mi è tornato in mente il racconto di un medico della Croce Rossa sulla morte di un suo collega in Afghanistan. Il medico era stato rapito da un gruppo islamista che voleva uccidere tutti gli stranieri. Una volta portato davanti al capo, però, c’era stata un’epifania: questi aveva visto lo stemma e si era ricordato che alcuni medici della Croce Rossa gli avevano salvato la vita da bambino. Purtroppo non era bastato, Dio voleva la morte di qualunque straniero, e Dio era più importante di qualunque fetta d’umanità. L’incapacità di rimanere umani, avrebbe detto Arrigoni.

In questo sordido esito di sangue c’è una sorta di comunione laica che anche coloro che non erano d’accordo con una sola parola di quelle che scriveva Arrigoni – e io non ne condividevo molte – devono riconoscere. Gli islamisti che avevano rapito Arrigoni hanno dato il loro verdetto. È un verdetto che ha a che fare con il riconoscere che il mondo non si divide in sfruttati e sfruttatori. Che c’è chi odia l’Occidente quale che siano le cose che i suoi cittadini fanno. Persone che ce l’hanno con noi, tutti, indipendentemente dalle nostre azioni. E persone che hanno detto chiaramente una cosa semplice: che Vittorio Arrigoni era un loro nemico. Noi lo sapevamo, ricordiamocelo oggi.

Juliano Mer Khamis

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Prima di andare a lavorare in Palestina, avevo preso contatti con il Freedom Theatre, un’associazione di Jenin fondata da Juliano Mer Khamis che si occupa di costruire un futuro – attraverso il teatro, l’arte, i giochi – ai bambini palestinesi, in particolare quelli del campo profughi di Jenin. Avevo programmato di passare tre mesi a Betlemme, con Amal, e tre mesi a Jenin al Freedom Theatre, che aveva sempre bisogno di volontarî (a proposito, per chi avesse voglia di un esperienza del genere: anche se forse, ora, non è il miglior momento per contattarli). Poi mi ero trovato molto bene con Amal, mi ero affezionato al loro progetto, e avevo deciso di rimanere lì. Ero comunque andato a Jenin a vedere le loro attività.

Mer Khamis era palestinese ed ebreo – 100% palestinese e 100% ebreo, diceva lui –, figlio di madre ebrea e padre palestinese. Già prima di fondare un’attività simile era intrinsecamente una sfida al settarismo di quel conflitto. Aveva più volte espresso opinioni estremamente critiche nei confronti d’Israele e in Israele aveva fatto il servizio militare (una volta voglio scrivere un post su come, per i palestinesi, la scelta di non avvalersi del diritto – che hanno gli arabi – all’esenzione dal servizio militare sarebbe una forma di resistenza eccezionale). Per questo era visto male dalla destra israeliana e visto malissimo dagli islamisti palestinesi, che lo avevano più volte minacciato.

Lunedì l’hanno ammazzato. È stato un ex militante delle Brigate dei martiri di Al-Aqsa che ultimamente si era avvicinato ad Hamas, e che aveva passato cinque anni in carcere per aver armato varî gruppi islamisti. Al-Aqsa e Hamas si palleggiano la responsabilità cercando di derubricare l’assassinio a crimine comune. Non mi viene altro commento che la frase di Golda Meir che «la pace arriverà quando loro ameranno i proprî figli più di quanto odiano noi». Juliano Mer Khamis era entrambi, loro e noi.

EDIT – Il commento appena ricevuto in mail di uno che in Israele ha vissuto e poi è andato via: “Su Juliano Mer-Khamis cosa dire? Che non fa altro che sottolineare quanto sia difficile vivere (nel senso proprio della parola) fuori dagli schemi in Medioriente.”

Frutto di farabutti

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È esplosa una bomba a Gerusalemme, fra l’altro in un posto dove passavo spesso quand’ero lì. Il titolo di Repubblica “frutto della tensione a Gaza” è riprovevole. Tratta i palestinesi – tutti, fra l’altro, senza distinzione – come una colonia batterica, senza una responsabilità personale.

Non tutti gli attentati sono uguali, per quanto emotivamente ci verrebbe da pensarlo. E questo qui è fra quelli più disgustosi, che non hanno nessuna giustificazione – altro che figlio della tensione a Gaza. È fra i peggiori per l’obiettivo che ha – massacrare il maggior numero di esseri umani – che qualifica chi l’ha fatto, chi l’ha pianificato, e anche chi lo giustifica, come un farabutto. È la differenza fra l’adottare una strategia sanguinosa e controversa, e fare di quel sangue il proprio fine ultimo.

Qualche giorno fa ho fatto un post in cui commentavo la reazione del governo israeliano all’accoltellamento di una famiglia di coloni: quello che segue doveva essere un corollario a quelle considerazioni. In quello scritto criticavo le politiche d’Israele, ma gli riconoscevo questo: niente di tutte le, anche sanguinose, iniziative che Israele prende ha questa faccia. Quella del festeggiare le morti innocenti anziché piangerle.

È proprio per questo, però, che dobbiamo riconoscere che non tutti gli attentati sono uguali, come invece mi sembra di leggere in tutti gli articoli che ora citano il precedente di Itamar. Accoltellare una famiglia di coloni è un atto violento, sanguinoso, ma non è la stessa cosa di un attentato a una fermata dell’autobus affollata di vecchini che vanno al supermercato e bambini che vanno a scuola. Certo, l’attentato di Itamar includeva l’uccisione di due bambini, e le colpe dei genitori – quelle persone non sono innocenti – non devono ricadere su quelle dei figli. Ma proviamo un momento a non considerare questo fatto.

È sempre così difficile, così scivoloso, provare ad analizzare tutte le sfumature di una questione, e fare anche le distinzioni più piccole: ma bisogna provare a farlo. Come disse qualcuno, il problema del conflitto arabo-israeliano è che comprende troppa storia e troppa poca geografia. E, perciò, ogni pezzo di terra costruito dai coloni è un pezzo di terra in meno per i palestinesi. Ogni persona che ne fa un baluardo, è un ostacolo – un nemico – di uno Stato palestinese, e della pace. Il fatto che dei coloni vivano a Itamar – un insediamento nel cuore della Palestina, lontano chilometri e chilometri dal confine Israeliano – è una dichiarazione di guerra. Possiamo girarci attorno in mille modi, ma non c’è altro modo per chiamarla. Non ha la violenza di un accoltellamento, ma è un comportamento possibile solo ed esclusivamente grazie ai mitra e alla forza bruta di decine e decine di soldati che stazionano intorno a quella colonia.

Per un palestinese, l’unica alternativa all’impugnare un coltello è la più inane non-violenza, senza alcuna speranza di cambiamento. E non lo dico nel senso di quella detrazione di responsabilità che anima l’infelice titolo di Repubblica, ma esattamente al contrario: la responsabilità ce l’ha quel colono, e ce l’ha la persona che decide di usargli contro la violenza. Niente di tutto ciò è inevitabile, è il risultato di specifiche scelte, che vanno considerate come tali. Esiste una posizione perfettamente speculare al pacifista senza-se-e-senza-ma che garrisce l’immagine del Che mentre lustra il proprio fucile, ed è quella di chi pacifista non è ma esige che lo siano coloro che non gli stanno simpatici.

Ho messo tante premesse e tanti incisi in questo discorso, magari mi date dei buoni argomenti per cambiare idea: ne sarei contento. Per ora, non sono lontano dal pensare quello che diversi israeliani – anche fra i più pacifici che ho incontrato – mi hanno detto: «quei pazzi di Hebron? Se li ammazzano se la sono cercata». Per ora quello che penso è che bisogna riconoscere che c’è una differenza fra fiori e molotov (l’immagine è di Banksy, ed è su un muro a una manciata di chilometri dal luogo dell’attentato di oggi); ma ce n’è una anche fra chi li riceve, quei fiori o quella molotov.

E penso che solo tenendo a mente queste cose si può – davvero, e nel modo più pieno – avere rabbia e spregio per l’effigie del Male che è la bomba – messa lì per colpire tutti, per colpirne il più possibile – che è esplosa oggi sullo Sderot Shazar.

I meno meno meno peggio

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Il governo israeliano ha deciso di pubblicare le foto di alcuni coloni uccisi a coltellate qualche notte fa. Lì dentro c’è quella che è oramai l’unica dinamica di quel conflitto: l’essere i meno peggio.

Israele sopravvive e basa la propria credibilità sull’essere il meno peggio. Ogni volta che viene indicata un’ingiustizia ai danni della gente in Palestina, la risposta è: «ma loro fanno quest’altro». Un israeliano – con delle ragioni – potrebbe sfidarvi a trovare una violazione della libertà d’opinione, dei diritti delle donne, dell’intangibilità delle persone, del buon senso, praticata dagli israeliani ma non dai palestinesi, se non per mancanza di forza o potere.

Chi equipara, ad esempio, la guerra a Gaza agli attentati suicidi usa una tattica drammaticamente perdente: Israele avrebbe il potere militare per sterminare tutti i palestinesi, ma non lo fa. Hamas, non ha quel potere, ma prova a farlo – al massimo delle proprie forze. Si può essere contrari a quella guerra, e a tutte le ingiustizie commesse da Israele, senza tirare in ballo questo confronto perdente. Anche perché quel confronto è il flagello di Israele e Palestina.

Specchiarsi solamente nei proprî nemici è, assieme, l’anticorpo alle critiche e il morbo della società israeliana. Una società che, da quarant’anni, ha deciso di farsi forza d’occupazione, di non puntare più a essere i buoni – come nei sogni dei loro fondatori – ma a essere i meno peggio. Un circolo vizioso che gli permette di fare un passo verso il baratro quando lo fa anche il nemico. Dei nemici alleati in questa coazione a ripetere, anzi a peggiorare.

Quando Haaretz ha chiesto al ministro Edelstein perché avessero preso questa decisione, questi non ha cercato in nessun modo di spiegare perché fosse una decisione giusta, ha detto – testuale – «perché lo fanno anche loro». Hamas e Fatah hanno sempre pubblicato le foto dei civili morti per causa diretta o indiretta delle azioni israeliane. Perciò ha deciso di farlo anche Israele. Il concetto è sempre lo stesso: dobbiamo mostrare quelle foto, dobbiamo far vedere che loro sono peggio di noi – che noi siamo i meno peggio.

L’intervistatore ha individuato la contraddizione: «ma, allora, siamo come loro?», ha chiesto. Indovinate qual è stata la risposta? Ancora una volta non è stata: “ci siamo comportati bene”, ma «c’è ancora una grande differenza». Fatah e Hamas pubblicano foto più crude, talvolta fasulle, talvolta ritoccate. Qualche volta quelle foto sono state prese prima di prestare soccorso alla persona, molte altre senza chiedere il permesso a nessun familiare, etc. Tutte cose vere, figuriamoci.

Ma è come rispondere: non siamo come quelli che critichiamo, ma cerchiamo di assomigliargli sempre di più.

Le ebree ortodosse con il burqa

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Allora, la storia è questa: i fondamentalisti ebrei sono gli haredi, gli ebrei ultraortodossi. Ortodossi più ortodossi di tutti. In Israele ce n’è un bel po’ e vivono in comunità chiuse e unite, interi quartieri come Mea Sharim a Gerusalemme, o cittadine come Beit Shemesh. Quando ero lì in Palestina avevo raccontato qualche episodio al riguardo. Ricevono soldi dallo Stato in cambio delle loro preghiere, e dove sono maggioranza hanno creato una sorta di Stato nello Stato: una specie di polizia dei costumi, segregazione di genere, strade chiuse di shabbat e così via. Il governo israeliano il più delle volte chiude gli occhi.

Ora, come immaginerete, la pudicizia delle donne è uno degli aspetti fondamentali. Niente sesso prima del matrimonio, mentre dopo un sacco di sesso, ma solo per dare una quantità industriale di figli a Dio (e infatti se ne vedono una dozzina a famiglia). Alcuni sono più pazzi degli altri, fanno sesso con la moglie solo attraverso un panno che ne copra le parti non strettamente indispensabili alla procreazione, e tutte quelle altre cose per cui Dio ha inventato la misteriosa parola “fornicare”.

Ecco, succede che le mogli di questi mariti decidono di sorpassarli a destra (in Israele è pratica comune): si imbattono in qualche burqa indossato da donne palestinesi, e pensano: «oh, che bella idea: questo sì che è un modo per essere pudìche». E quindi – tadàn – iniziano a indossare il burqa anche loro e farlo indossare alle proprie figlie, per le quali approntano anche delle improvvisate scuole parallele (giacché quelle haredi non le vogliono). C’è anche un caso, divenuto piuttosto celebre, di genitori determinati a costringere la figlia a indossare il burqa (per poi scoprire che è fidanzata con un arabo). D’altronde, se il metro è la modestia, non c’è modo migliore per essere modeste che coprirsi da capo a piedi.

Non sono un gran numero queste ebree-talebane, qualche centinaio, però hanno creato un bel po’ di scompiglio: diversi mariti, invece di essere contenti dell’estrema castità delle loro mogli, si sono arrabbiati e hanno cercato di convincerle a cambiare idea. In più, in una società segregata come quella – non soltanto su basi sessuali ma anche su basi etnicoreligiose – fare qualcosa che assomiglia alle abitudini degli arabi-mussulmani è visto di pessimo occhio. Niente da fare, però.

Così questi uomini hanno deciso di rivolgersi ai rabbini perché decretassero che quell’abbigliamento non fosse conforme alle norme dell’Ebraismo. I rabbini in un primo tempo cincischiano, sedotti anche loro dal desiderio di castità delle donne. Poi, dopo qualche mese, visto che la moda sembra diffondersi, decidono di emettere una condanna di questo nuovo – spumeggiante – costume. È un feticismo, dice: come farlo con le manette e la divisa da poliziotto.

Fine della storia? Chissà. Anzi, è difficile: c’è sempre un rabbino che dice il contrario degli altri. Perciò, se non è Dio stesso a decidere di sbarcare sulla Terra per determinare Cosa Si Fa e Cosa Non Si Fa – fatto che tenderei a escludere –, bisogna arrangiarsi a risolversela da soli e andare a vedere sui testi sacri (che generalmente significa dare ragione a quello più scemo). C’è sempre uno più puro che ti epura, una volta di più.

Ecco: la prossima volta che scrivo, come faccio spesso, che “la libertà è contagiosa” ricordatemi che anche la stupidità non scherza mica.

grazie a Emanuela

Un commento ai Palestine Papers: le colpe d’Israele

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Sono trapelati dei documenti segreti sulle discussioni di pace in Medio Oriente. I documenti sono di origine palestinese, e raccontano gli ultimi trattati di pace dalla loro prospettiva.

Sul Post c’è una sintesi molto chiara che vi consiglio. Le cose più importanti che sono venute fuori possono essere derubricate sotto tre capitoli:

1) la vicinanza di USA (e Inghilterra) a Israele
2) la doppia faccia dei leader di Fatah, “amici” degli israeliani in privato e nemici in pubblico
3) la disponibilità dell’ANP a inedite concessioni sul rientro dei profughi e, soprattutto, Gerusalemme

Mentre il primo punto era noto a tutti e il secondo punto era una malalingua che necessitava solamente di una conferma (ciò non toglie che causerà non pochi problemi all’ANP), il terzo punto è di una rilevanza enorme.

Le concessioni sui profughi se le aspettavano tutti e, per quanto l’opinione pubblica palestinese non sia d’accordo, è l’unica strada percorribile: far immigrare 6 milioni (o 4 e mezzo) di persone, soltanto il 5% delle quali abitava nell’attuale Israele, significherebbe la fine d’Israele ed è perciò una condizione che non accetteranno mai. C’è però da dire che i numeri del rientro simbolico proposto erano nettamente favorevoli a Israele: si era sempre parlato in termini di 100 o 150 mila persone in dieci anni, l’ANP aveva offerto un limite a 5 o 10 mila. Difficilmente un rientro simbolico potrebbe essere più simbolico di questo.

Su Gerusalemme, e più in generale sulle colonie, la situazione è ancora più significativa. Il mantra israeliano è sempre stato “a Camp David-Taba 2000-1 vi abbiamo offerto tutto, e avete dimostrato di non volere la pace”. Naturalmente le cose sono un po’ più sfumate di così, ma il nocciolo aveva  senso. Il problema è che, stanti queste nuove rivelazioni, negli ultimi anni e in particolare nel 2008 la leadership palestinese è andata molto vicina a fare, lei, le proposte che erano state fatte dagli Israeliani (o dall’amministrazione Clinton) a Camp David-Taba.

Molto semplicemente: dai palestinesi non ci si può aspettare di più. Una tale flessibilità non si era mai riscontrata durante il processo di pace – Qurei dice proprio «è la prima volta nella storia che facciamo queste concessioni». In tal senso la conclusione di Camp David può essere ribaltata: questa è la dimostrazione che Israele non vuole la pace. È come se, dal 2002, Israele avesse deciso che parlare del processo di pace fosse inutile – “diamogli stabilità e crescita economia e si accontenteranno”, sembra essere la filosofia di Netanyahu. Come se, dalla costruzione del Muro e dalla conseguente fine (virtuale) degli attentati suicidi, gli israeliani considerassero i palestinesi sprovvisti di qualunque merce di scambio. In altre parole, come se Israele non fosse interessata alla pace.

Gli esiti di queste pubblicazioni non sono così prevedibili come sembrano dire tutti: mentre è vero che Hamas guadagnerà enormemente in consenso, quale sarà la risposta israeliana non è chiaro. L’opinione pubblica – sempre terrorizzata dalla questione demografica – potrebbe considerare questa come una grandissima occasione mancata, spingendo il proprio governo verso una posizione più dialogante. L’augurio è che gli israeliani non debbano, in futuro, pentirsi del cinismo dimostrato dai proprî governanti – ma anche l’opinione pubblica, almeno nella media, ha le sue colpe per questo atteggiamento assieme rinunciatario e arrogante.

Quanto al fronte palestinese è un disastro. Il 99.9% delle persone non è d’accordo con queste concessioni – la grande maggioranza non è d’accordo con l’esistenza d’Israele, figuriamoci – e anzi le considera oltraggiose: Hamas griderà, sta già gridando, a Fatah come ai traditori del popolo palestinese e ne otterrà ulteriore consenso. Fatah subirà una bella botta, così qualunque moderato.

Rispetto alle prime fasi post-rivelazioni ho progressivamente cambiato idea: l’ANP era pronta a fare delle concessioni certamente impopolari, forse tradendo il proprio mandato, ma se quella era l’unica via per la pace, occorreva percorrerla. Sono i paradossi della storia: se Abu Mazen fosse riuscito a raggiungere la pace, lo staremmo celebrando come un vincitore – un eroe della pace – come era stato per Sadat. Non ci è riuscito, e questo ne farà uno sconfitto, attirandogli ulteriore impopolarità. Ma non ha perso solo lui: abbiamo perso tutti, Israele per primo.

*** L’offerta sarebbe stata di tutti gli attuali insediamenti intorno a Gerusalemme est, a eccezione di Har Homa e quelli che costeggiano la green line. Come detto, mai nessuna leadership palestinese aveva offerto così tanto. Certamente rimanevano questioni da discutere, anche sulle colonie: ciò che viene detto da Condoleeza Rice – ovvero che nessun governo israeliano cederà mai Ma’ale Adummim – è una verità che tutti sanno (35 mila persone a pochi km da Gerusalemme); diverso il discorso per Ariel, 20 mila persone nel bel mezzo della Palestina, che – si è detto talvolta – sarebbe servita agli israeliani come moneta di scambio per la rinuncia ad altre concessioni. Ma ci si può lasciare sfuggire un’occasione così.

Giochiamo a “ah, proprio loro vengono a insegnarci la morale?”?

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«E i norvegesi? Hanno ucciso tutti i salmoni».

Questo è un video di una trasmissione comica israeliana che prende in giro la mancanza di sostanza degli argomenti dell’opinione pubblica in Israele, mostrando una scuola dove si insegna “come affrontare le difficoltà della vita” nel Paese. Naturalmente è una caricatura, ma disegna in maniera ironica i tratti di una società sempre più conservatrice e monolitica: la discussione bloccata, le parole d’ordine, la continua reductio ad hitlerum, la sindrome da accerchiamento, e tutti quegli alibi che informano il dibattito pubblico in Israele.

A onore del vero c’è da notare che, in Palestina, nessuna televisione si potrebbe permettere una satira simile: chiunque si azzardasse a produrre un programma simile potrebbe scampare all’omicidio soltanto fuggendo all’estero, come accade a coloro che vendono il proprio pezzo di terra agli israeliani.

p.s. La bambina di cinque anni che dice “un tempo ero di sinistra, ma ora sono disillusa” fa un sacco ridere, ed è la perfetta metafora della società israeliana

snotela

West Bank story

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C’è un cortometraggio molto carino su Israele e Palestina interpretato in chiave di fast food. Si chiama West Bank Story, facendo il verso a West Side Story, ed è rifatto a mo’ di musical. Gli isralieni hanno Kosher King (KK, da Burger King) e i palestinesi Hummus Hut (HH, da Pizza Hut) e c’è tutta la storia di quel conflitto rifatto in chiave canzonatoria: gli israeliani che costruiscono dei macchinarî super-efficienti per battere la concorrenza, ma lo fanno oltrepassando il territorio palestinese (le colonie), i palestinesi che lo manomettono lanciandogli un sasso contro (l’intifada), gli israeliani che decidono di costruire un muro fra i due fast food, etc etc.

Dura 20 minuti, e lo potete vedere interamente (e gratis) qui: è fatto davvero bene, curato nei particolari che si notano sullo sfondo della storia, oltre che molto divertente (questa scena mi fa ridere ogni volta che la rivedo). Per chi conosce un po’ quelle aree è davvero un must.

Tutto ciò, e soprattutto il fatto che non ne avessi mai parlato sul blog, mi è ritornato in mente quando sono passato da Borough Market qualche tempo fa e ho fatto questa foto ai due banchetti rivali, l’uno accanto all’altro: quello delle salsicce salsicciose e di tutte le cose più carnifere del mondo gestito da un signorone della provincia tedesca, e quello dei vegetariani allegri e rivoluzionarî, gestito da due ragazzotti molto freak. Sembrano convivere amabilmente, anche perché – una cosa è certa – di concorrenza non se ne fanno troppa.