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Ho scritto per il Post questo riassuntone su cosa sono i “confini del ’67”, di cui si parla sempre, e su cui ha incentrato il proprio discorso Obama. Ho provato a tenerlo breve per favorire la lettura a tutti, e quindi ho dovuto scegliere quali erano gli eventi più rilevanti. Ci ho messo mappe, aneddoti, e meno opinioni del solito – quindi meno pessimismo!
“I territori del ’67 devono essere la base per il trattato di pace fra Israele e Palestina”, ha detto ieri Barack Obama, nel proprio discorso sul Medio Oriente. Ci sono due cose da sapere, intanto: la prima è che si chiamano territori del ’67, ma Israele li ha ottenuti vent’anni prima: dopo la guerra del ’48. La seconda è che sono stati la “base” di tutte le trattative fra israeliani e palestinesi – e sappiamo tutti com’è andata, visto che siamo ancora qui a parlarne. Verrebbe da chiedersi, allora, perché Obama li riproponga come punto di riferimento per raggiungere la pace. La risposta è semplice: non sono una novità, non sono una via facile, ma sono l’unica strada percorribile. Come disse una volta il presidente israeliano Peres «non è che non ci sia luce in fondo al tunnel, è proprio che non troviamo il tunnel».
Per questo, l’insistenza sulla questione dei territori è più che giustificata: l’eterno conflitto arabo-israeliano è, prima di ogni altra cosa, una guerra per ogni piccolo pezzetto di terra. Se andate in giro in quelle zone, da Tel Aviv a Ramallah, vi spiegheranno che il problema del conflitto arabo-israeliano è uno, anzi sono due: c’è troppa storia e troppa poca geografia. Sulla storia del conflitto israeliano si potrebbero scrivere biblioteche intere, che difatti sono state scritte. Quello che segue vuole essere un velocissimo riepilogo dei principali eventi utili a capire cosa sono questi fantomatici territori del ’67, e perché sono così importanti.
Il passato
Lo Stato d’Israele nasce nel ’48, dopo che l’ONU decide di spartire l’area del mandato britannico fra arabi ed ebrei. Gerusalemme resta città internazionale. Israele accetta la soluzione, e Ben Gurion dichiara l’indipendenza. I palestinesi, al contrario, la rifiutano e – assieme agli altri Stati arabi – dichiarano guerra a Israele. Per gli arabi è una disfatta, per i palestinesi è la Nakba, la catastrofe. Per gli israeliani è un miracolo, ricordato come la Guerra d’Indipendenza. Israele conquista un terzo dei territori che la risoluzione ONU aveva assegnato ai palestinesi: se prima Israele si estendeva per metà del vecchio territorio mandatario, ora ne raggiunge quasi i tre quarti. Questa nuova linea d’armistizio, anche detta Green Line, sono i cosiddetti territori del ’67.
La Palestina, nel frattempo, non esiste: la Striscia di Gaza viene occupata dall’Egitto e l’attuale Cisgiordania viene occupata dalla Giordania, la quale si spartisce con Israele anche Gerusalemme. Nonostante un nuovo conflitto (la Crisi di Suez) nel ’56, fra il ’49 e il ’67 i confini restano sostanzialmente invariati. Sul fronte interno, però, Israele procede a un’ebraizzazione sistematica dei territori appena sottratti ai palestinesi. È nel ’67, con la Guerra dei Sei Giorni, che Israele si trasforma a tutti gli effetti in una forza occupante: una nuova disfatta araba permette agli israeliani di occupare tutta l’attuale Cisgiordania, compresa l’intera Gerusalemme, oltre a Gaza, il Golan e il Sinai. Quest’ultimo verrà restituito diversi anni dopo all’Egitto in cambio del trattato di pace. Al contrario delle precedenti, queste nuove conquiste territoriali non verranno mai riconosciute dalle Nazioni Unite. L’ONU, nelle risoluzioni 242 e 338, chiede a Israele di ritirarsi ai territori precedenti al ’67 – di qui il nome – riconoscendo invece le conquiste del ’48. Israele, al contrario, comincia a costruire sempre più insediamenti sui territori che occupa al di fuori della legalità internazionale. Sono oggi il principale ostacolo, da parte israeliana, al trattato di pace.
Il presente
Si può dire che è con la prima Intifada, a metà degli anni Ottanta, che Israele si rende conto del vigore delle rivendicazioni palestinesi, della sostanziale necessità di un compromesso. È una nozione che gran parte della società israeliana deve ancora metabolizzare, così come quella palestinese.
A metà degli anni Novanta c’è il primo vero passo verso la pace: fra il ’94 e il ’96 vengono stipulati gli accordi di Oslo. Israele s’impegna a riconoscere la Palestina, la Palestina si impegna a riconoscere Israele. Due popoli, due stati: sulla base – indovinate un po’ – dei territori del ’67. È un momento capitale, Israele comincia a cedere sovranità all’Autorità Nazionale Palestinese, e in applicazione dell’accordo si formano tre zone: alcune aree, intorno alle città principali, vengono cedute al controllo civile e militare palestinese (in arancione sulla mappa, zona A); in altre i palestinesi hanno il controllo civile e gli israeliani mantengono quello militare (in verde sulla mappa, zona B); in altre ancora il controllo resta totalmente agli israeliani (in bianco sulla mappa, zona C). Deve essere il primo di moltissimi passi sulla strada della pace. Invece siamo ancora lì, con quella prima fase degli accordi di Oslo cristallizzata da quindici anni.
In tutto questo tempo, momenti di speranza (pochi) si sono alternati a recrudescenze (tante) dell’odio e della violenza. Se fosse una partita di calcio, come talvolta sembra a guardare le relative “tifoserie”, si potrebbe dire che i palestinesi hanno perso tre guerre (’48, ’67, e seconda Intifada) e ne hanno pareggiate tre (’56, ’73, e prima Intifada). Per questo, per i palestinesi – oggi – ottenere uno Stato che ricalchi perfettamente la linea d’armistizio del ’49 è realisticamente impossibile. Lo sciagurato rifiuto della proposta di Pace di Camp David nel 2000, e il lancio dell’ancora più sciagurata seconda Intifada, hanno acuito il cinismo degli israeliani. La questione è quante ulteriori concessioni dovranno fare per arrivare a stringere la mano agli israeliani che – per rimanere nella metafora calcistica – hanno sempre la palla dalla loro. E, altrettanto importante, quanto la comunità internazionale, gli Stati Uniti di Obama fra tutti, vorranno e sapranno spingere la mano degli israeliani verso quella dei palestinesi.
Il futuro
Se si è pessimisti, prevedere il futuro è molto facile. Se si è ottimisti c’è una montagna da scalare, e bisogna lasciare da parte qualunque considerazione su cosa sia giusto o sbagliato, badando solamente a quello che può funzionare. In questo senso, il riferimento di Obama alla Green Line va letto come una spinta agli israeliani a trattare, e a trattare con quella come base di partenza. Non ci si può aspettare di più: l’offerta di pace di Camp David-Taba, che comprendeva fra il 94% e il 97% dei territori (incluso un lembo di terra israeliana come compensazione) + Gerusalemme Est, sarà inevitabilmente peggiorata lasciando a Israele almeno le colonie più grandi e più vicine al confine come Modi’in Illit e Ma’ale Adummim, lasciando lo Stato palestinese quasi diviso a metà.
La questione di Gerusalemme sembra lasciare ancora meno spazio all’ottimismo: dal rifiuto di Camp David, non c’è stata nessuna amministrazione israeliana che abbia accettato pubblicamente la divisione di Gerusalemme. Al tempo stesso, l’ANP non accetterà mai uno Stato che non abbia Gerusalemme come capitale. L’unica possibile soluzione, anche qui, è provare a dividere in quattro il capello.
Di quanto queste concessioni dovranno essere dolorose, specie per la parte palestinese, ne sono consapevoli tutti: Fatah, che dalla morte di Arafat ha provato a percorrere questa strada ben più d’Israele. Hamas, che comunque non ne vuole sapere. E l’opinione pubblica, che, in generale, percepisce ogni concessione – gli stessi territori del ’67 – come un tradimento verso la propria gente. La sensazione è che questa sarà la pace – che sia fatta fra 2, fra 20 o fra 200 anni: 90% dei territori, alcuni quartieri di Gerusalemme Est ribattezzati Al Quds (La Santa in arabo), e un rientro simbolico di qualche decina di migliaia di profughi o loro eredi, oltre a Gaza che è già sotto il pieno controllo palestinese, dopo lo smantellamento delle colonie israeliane del 2004. Resta da farla accettare alle due parti. È questo il senso, molto pragmatico, della considerazione di Obama. Un invito al pragmatismo e a pensare a ciò che è possibile più che a chi sia nel giusto – ché, naturalmente, entrambi pensano di essere nel giusto. In questo senso, un elemento fondamentale sarà cercare di convincere gli israeliani – ai quali più degli altri è rivolta questa pressione – che cedere la quasi completezza dei territori occupati ai palestinesi sia nel proprio interesse a lungo termine. Un’impresa davvero ardua, specie con l’attuale governo israeliano – probabilmente il più conservatore della storia del Paese –, e difatti Netanyahu, l’attuale primo ministro, ha già rigettato la chiamata di Obama.
È questo aspetto, la capacità di guardare al futuro – non solo al domani ma al dopodomani –, la caratteristica che più manca alla società israeliana e a quella palestinese, una caratteristica che – almeno in quella israeliana – è andata persa in questi quarant’anni di occupazione militare. La narrativa israeliana è piena di racconti sulla passione visionaria, sulla fiducia in ciò che verrà, dei padri fondatori dello Stato d’Israele, da Herzl a Weitzman a Ben Gurion. Ci vedeva lungo Theodor Herzl, principale ispiratore dello Stato d’Israele, che lasciò detto di non fare stupidaggini, mentre lui era morto.
Paleso immediatamente la mia ignoranza in materia, soprattutto sui tentativi di avvicinamento israele-palestinesi (ahimè, ho sempre ritenuto più interessanti i conflitti). Tuttavia la proposta del presidente Obama mi sembra in linea con quello che sta accadendo negli ultimi anni. Sempre più Stati riconoscono lo Stato Palestinese, molti sono in dirittura di riconoscimento (il PdR Napolitano mi sembra abbia fatto dichiarazioni per l’Italia in questo senso). Insomma, ci si muove sempre di più verso una soluzione. Forse gli unici a non volerla ancora sono proprio le parti in causa. Eppure anche qui avrei qualche dubbio…
Sarò un poco provocatorio, me lo perdonerai spero.
I palestinesi non esistono.
Sono giordani, oppure egiziani ( Gaza’strip).
Se la si smettesse di cercare di creare un secondo stato immaginario, dopo aver catapultato Israele in medio-oriente, la soluzione sarebbe più vicina.
Uno stato chiamato Palestina il giorno dopo la propria creazione incomincerebbe a cercare alleati per invadere Israele, non raccontiamoci panzane. Egitto e Giordania non lo farebbero, perché avrebbero da perdere molto di più di quello che hanno da guadagnare (vedi le guerre del ’56 e del ’73 che furono una dura lezione soprattutto per l’Egitto).
Come vedi, io non credo nelle soluzioni semplici. 😉
Skalda scrive::
Beh, è una cosa che si poteva dire fino a Nasser, perché mancava quella percezione anche lì. Dopodiché è nato un movimento nazionalista che solo il panislamismo ha intaccato un po’.
In ogni caso, oggi i palestinesi di Gaza si sentono palestinesi come si sentono i palestinesi della Cisgiordania, e tengono molto alla loro nazionalità .
Skalda scrive::
Non vedo perché ciò che vale per Egitto e Giordania non valga per il futuro Stato palestinese.
Skalda scrive::
Veramente sono le uniche due guerre con Israele in cui l’Egitto non ha perso territori.
@ Giovanni Fontana:
Giovanni Fontana scrive::
Non li ha persi, ma in particolare nel ’73 ha dovuto ringraziare la guerra fredda e l’interesse USA a togliere l’Egitto dalla sfera Sovietica. Cioè, Sharon è arrivato a 100 Km dal Cairo e con minaccia di venir bombardato dalla sua stessa aviazione in caso di rifiuto (considera un carroarmato ha una velocità media di circa 50 Km/h)! In una situazione politica meno delicata, credi davvero che Golda Meir gli avrebbe ordinato di fermarsi? Diciamo che, sì, l’Egitto non ha perso territori, ma si è preso una tale paura che si è reso conto che non è all’altezza di fare guerra ad Israele.
Mhh mi sono perso qualche parola… la frase era:
[…] 100 Km dal Cairo ed è stato fermato con la minaccia di venir bombardato dalla sua stessa aviazione in caso di rifiuto […]
Valerio scrive::
Beh, la guerra di Kippur è, in realtà , considerato il primo conflitto in cui l’Egitto è riuscito a infliggere qualche colpo a Israele. Anzi, c’è chi la considera una vittoria egiziana proprio per essere riusciti, per la prima volta, a battere le difese israeliane e riconquistare il canale.
Si dice che fu quella guerra a far capire agli israeliani che “gli arabi non avrebbero perso per sempre” e a convincerli a fare l’accordo di pace restituendo il Sinai (considera che, al tempo, Meir diceva che non avrebbe mai accettato un Israele che non arrivasse a Sharm).
@ Giovanni Fontana:
In realtà ne sai molto più di me. Tuttavia ti inviterei a riflettere sul perso degli Stati Uniti sulla risoluzione del conflitto. Gli USA hanno subito notato la possibilità di stringere i rapporti con l’Egitto che fino ad allora era filo-sovietico (correggimi se sbaglio) e perciò hanno diciamo forzato la pace di Israele. Ma si tratta di una pace che, in questo senso, è stata vinta da Washington, non da Il Cairo. L’Egitto, senza l’intervento delle superpotenze avrebbe perso l’intera nazione, nonostante nella prima fase della guerra abbia invaso Israele (e qui si tratta di altre problematiche – tutte israeliane – come la totale fiducia nelle informazioni dei servizi segreti, la tattica difensiva basata sulla guerra preventiva, ecc ecc che si sono dimostrate fallaci). La terza Armata Egiziana (60,000 uomini) è sopravvissuta perché Israele gli faceva arrivare cibo ed acqua, altrimenti erano in mezzo al deserto senza rifornimenti (sempre sotto forte pressione di Kissinger).
La guerra l’ha vinta militarmente Israele e politicamente gli USA. L’Egitto ha lavorato da pungiball.
@ Valerio:
Le due cose che diciamo non sono in contraddizione, nel senso che prima di quel conflitto l’Egitto aveva perso ancora più distintamente, come nel’67 o nel ’48.
In ogni caso il fatto che il ’73 sia il primo conflitto in cui l’Egitto ha acquisito un po’ di fiducia in sé stesso – e una guerra che, diversamente da ’48 e ’67, non ha perso smaccatamente – è abbastanza considerata verità storica, di dominio pubblico intendo.
@ Giovanni Fontana:
In tal caso, mi fido. Anche se non vorrei mai vincere una guerra come l’Egitto nel ’73! 😀
@ Giovanni Fontana:
Alla fine della guerra del ’73 i carri armati israeliani potevano entrare al Cairo (e sarebbe stato un clamoroso atto simbolico, ma nulla più), ma soprattutto continuando a combattere avrebbero potuto annientare una armata egiziana. Erano in una sacca, come a Stalingrado, ma nel deserto.
Una bella vittoria di Pirro per l’Egitto. 😉
Il problema di Israele è sempre stato il suo “fiato corto”: non poteva permettersi guerre lunghe, anche nel ’73 ci fu un ponte aereo americano per rifornirlo, se non sbaglio.
Per questo le sue non sono guerre di conquista, e spesso gli accordi di pace riportano i confini allo status quo ante.
Il Sinai fu il primo caso di accordi “terra per pace”. Sadat aveva capito che con la guerra non avrebbe ottenuto nulla di più, ma ad un prezzo molto più alto. e si accontentò, anche grazie alle pressioni USA. A Israele non sembrò vero potersi assicurare la pace con un avversario temibile come l’Egitto. Pace che bene o male tiene ancora oggi.
…un solo commento sperando che non venga mal interpretato in quanto mi vedo MOLTO in accordo con lo scrittore su MOLTE cose. Ma – se non mi sbaglio – il famoso “mandato Inglese” … includeva anche la Giordania e da qui si arriva presto a fare errori del 200% sui territori “palestinesi” … RIBADISCO che oggi – a mia opinione – per risolvere il problema non si deve assoulutamente tenere conto di questa realta’ storica in quento sorpassata da anni di “occupazione”; ma bisognerebbe comunque ricordarla come tale.
🙁
….
@ david:
Ma figurati se viene “mal interpretato” un commento simile.
Direi che la ragione per la quale non ci si riferisce mai all’area dell’attuale Giordania è che questa non è mai stata rivendicata dagli ebrei – almeno non dalle organizzazioni che costituiranno lo Stato – anche per la praticamente nulla presenza di ebrei in quell’area.
Perfino nel ’19 la richiesta di Weizemann fu, grosso modo, l’attuale Israele + OT (solo qualche chilometro più, al di là del Giordano). Questo non è un caso, perché una diversa spartizione avrebbe nettamente messo in minoranza gli ebrei in un nuovo Stato, quindi non c’era alcun interesse da parte degli ebrei alla creazione di uno Stato ebraico che poi non sarebbe stato a maggioranza ebrea.
david scrive::
Riguardo al quello che dici, un annetto fa ho scritto questo, nel caso t’interessasse: http://www.ilpost.it/2010/08/23/pace-israele-palestina/
sante parole, scritte bene. Un amico un giorno mi disse che per fare storia il leader ha bisogno di 3 cose: visione, appoggio politico e coraggio. Come sai Bibi manca due requisiti mentre per esempio Peres ne ha sempre mancato solo uno. Morale: manca il leader con 3 gambe ! .. Oggi, in Israele, il vento soffia a “riparare i cocci rotti in casa” ….forse ….dopo un po di riassetto dei valori etico-economici interni ci metteremo a pensare anche un po al “prossimo”. …speriamo !