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Horreya, libertà. Il dittatore se n’è andato.
In questo tùrbine di previsioni sbagliate, di analisi andate a farsi friggere 12 ore dopo essere state solennemente emesse, di gente – inclusi noi tutti – che non ce ne azzecca una, c’è forse una sola cosa che possiamo dire con certezza: che questo momento ce lo ricorderemo, come se ci fossimo tutti dentro. Che la storia siamo noi, e nessuno – di quelli che sono veramente loro – si senta offeso.
E se lo ricorderanno specialmente quelli della mia generazione, per i quali è la prima grande rivoluzione di popolo. Siamo cresciuti nella kantiana Europa delle democrazie, “rivoluzione” è una parola che ci è sempre suonata burlesca o esagerata, seppellita nello zaino del liceo: la Rivoluzione Francese, la Rivoluzione Americana. E poi la Rivoluzione Russa, quella Culturale cinese. Chissà se un giorno metteremo la maiuscola anche a questa rivoluzione egiziana.
Di cose ne abbiamo vissute: quelli che hanno due o tre anni più di me si ricordano la fine del Dio che fallì a Berlino nell’89, il crollo in farsa di un regime metodico e perverso. La gente ritrovatasi libera quasi per caso, dopo che per decenni le rivoluzioni erano state ammazzate dai carri armati, in Primavera a Praga, o a Budapest dodici anni prima. Neanche quello bastò a far finire la Storia, come qualcuno scrisse. Abbiamo visto tante piazze e tante rivoluzioni abortite o per metà: in Libano c’erano i cedri, in Iran tante dita verdi. La piazza più grande del mondo è Piazza Tienanmen. Questi sono i primi che ce l’hanno fatta, davvero. I primi in un Paese grande un milione di chilometri quadrati, molto di più di qualunque posto dove siamo potuti andare in Erasmus.
Sappiamo che dopo aver gridato «libertà!» c’è ancora tutto il resto da non perdere. Ci hanno raccontato che spesso le rivoluzioni muoiono nei loro Khomeini oppure fanno nascere il terrore dei Robespierre. Sappiamo che chi disse popolo disse veramente uno animale pazzo, che a Piazza Venezia si urlava «viva il Duce!» e Hitler-è-salito-al-potere-democraticamente. Non sbagliano quelli, e io sono fra questi, che si preoccupano per i diritti delle donne, degli omosessuali, che mescolano speranza e timore, per quello che potrebbe succedere se queste piazze ricolme si riveleranno più interessate alla felicità in Cielo che a quella in Terra.
L’abbiamo imparato a cariche di disillusione: i popoli delle rivoluzioni non sempre hanno ragione. Ma i dittatori non ce l’hanno mai.