Quando sentiamo parlare di campi profughi pensiamo, sul modello di quelli africani visti in tv, ad ambienti sterminati e lontani dalle città, dove si susseguono file di piccole tende provvisorie: ovvero tutto il contrario di ciò che è un campo profughi in Palestina.
Qui non ci sono tende, ma fatiscenti case in muratura costruite su più piani negli anni. All’interno grandissimi stanzoni nei quali vive un intero nucleo familiare che, per gli standard palestinesi, può raggiungere anche le venti persone. I campi sono inglobati dalle città, senza stacchi fisici: la questione è semmai la mancanza di spazio.
È nei campi profughi che si incontrano le realtà più miserabili e degradate della società palestinese, specie fra le generazioni dei giovanissimi. Non si tratta di meninos de rua, perché la scolarizzazione in Palestina supera il 95% e la famiglia è un ammortizzatore sociale molto efficiente: il problema è la chiusura su di sé di questi ecosistemi, nonostante la contiguità territoriale con le città. Le stesse scuole allestite dall’ONU all’interno dei campi, che possono essere frequentate soltanto da chi ha ereditato lo status di profugo, contribuiscono all’autoreferenzialità dell’ambiente.
Ci vuole tempo per riuscire a erodere quel percepibile muro di diffidenza, tantopiù per uno straniero. Spesso sono gli stessi bambini a domandare denaro e una risposta negativa può costare una sassaiola o un uccello morto.
Altre volte va meglio: un bambino su un balcone “sparava” con un mitra giocattolo a tutti i passanti, mimava il suono dei colpi con la bocca e il rinculo del fucile con il corpo. Dopo aver puntato tutti i noncuranti pedoni ha rivolto il fucile verso di me e «pum-pum-pum!»; Io mi sono gettato al suolo, in mezzo alla strada, a braccia larghe. Il bimbo per due secondi è rimasto paralizzato, poi ha guardato la canna del suo fucile, incredulo. Quando mi sono rialzato e l’ho salutato, ha fatto un sorriso che valeva tutto il resto e di più.
(Unità, ieri)
Mi viene da ripetermi: sono convinto che oggi a Gaza (ma è lo stesso a Kabul, a Grozny, a Monrovia, a Baghdad, a Freetown, o da qualsiasi altra parte) uccidere bambini sia il peggior errore strategico e politico, prima ancora che morale.
E, aggiungo, deve essere questo il punto fermo dal quale partire: c’è un problema e si cerca la soluzione, cioè quello che è bene per il maggior numero di persone? Ebbene, se questa soluzione ha, come “danno collaterale”, la morte di bambini (innocenti sempre, anche quando figli di colpevoli), si deve trovare un percorso diverso. Viceversa, si proporranno sempre cure palliative, per definizione inadatte a curare.
La gestione del problema dei profughi palestinesi da parte delle agenzie ONU mi pare assurda, qui me ne dai l’ennesima conferma.