Distanti saluti nella cabina elettorale

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Qualche giorno fa avevo fatto il giochino di mettere in fila i dieci leader di partito italiani a seconda della propria preferenza, senza poter aggiungere altro: né valutazioni diverse, né diversi margini. Solo la brutale classifica. Diversi – una quarantina – fra i commentatori più o meno assidui di questo blog hanno scritto a loro volta la propria classifica, così mi è preso lo schiribizzo di tirarne fuori qualche statistica sui lettori di questo blog.

Il risultato che ne è venuto fuori è quello che segue: ho assegnato lo “0” fra il quinto e il sesto posto, e dato un punto di scarto a ogni posizione, così che le prime cinque posizioni dessero punti in positivo, mentre le ultime cinque li dessero in negativo. Ho considerato solamente le classifiche complete, ma a tutti coloro che ne avevano espressa una incompleta ho mandato una mail chiedendo di completarla per poi editare il messaggio.

Bonino 137 punti (+21 -0)
Bersani 117 (+6 -0)
Vendola 92 (+10 -0)
Fini 24 (+0 – 0)
Di Pietro 9 (+0 -4)
Rutelli -8 (+1 -2)
Casini -19 (+1 -0)
Berlusconi -100 (+1 -8)
Bossi -120 (+0 -14)
Storace -132 (+0 -12)

Qualche considerazione, solo perché è divertente farla, sapendo che non conta un ciufolo: intanto, è venuto un quadro abbastanza coerente, in cui si possono individuare quattro macroaree (150:75, 75:0, 0:-75, -75:-150):

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Giochino: metti in ordine di preferenza i dieci leader di partito

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Lo stavo facendo per me, questo giochino, quindi ho pensato che potevo metterlo qui. Magari non sono l’unico che si diverte. L’ordine dei leader di partito secondo mia preferenza: la brutalità è che non si possono aggiungere commenti, né differenze di margine.

Bonino
Bersani
Vendola
Fini
Rutelli
Di Pietro
Casini
Berlusconi
Storace
Bossi

Io lo chiamo terrorismo

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Ho comprato un nuovo cellulare che quando metto la sveglia per il giorno dopo, senza che io gli dica nulla, mi fa comparire una schermata con scritto “tempo rimasto prima dell’allarme xx:yy”. Così la sofferenza del risveglio con troppo poco sonno alle spalle la comincio a patire dalla sera prima.

UK

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Ogni tanto faccio qualche piccolo aggiornamento su quello che sto facendo, nella vita: capita spesso che qualcuno mi chieda se sono ancora in Palestina, perfino in Burkina Faso, o chissà dove. Sono a Londra.

Questo post doveva essere scritto da Roma, dove ero ripassato per un paio di settimane dopo un mese milanese e diversi trasferimenti nei mesi precedenti per le ragioni più disparate. Dovevo raccontare che ero sommerso dai preparativi per questa nuova partenza, questa volta di raggio più lungo, e pubblicare questa foto:

(grazie Ilaria)

Poi le cose erano talmente tante che non ho fatto neanche in tempo a pubblicare il post, e quindi vado a farlo direttamente dalla destinazione. Sono a Londra, dicevo, e sarò qui per il prossimo anno.

In questi anni ho fatto diverse esperienze nei campi dell’impegno umanitario e del giornalismo, conservando sempre una smaccata indecisione su quale strada prendere definitivamente. Una risposta definitiva non c’è, però ho deciso che per qualche anno – a tornare in Italia per scrivere farò sempre a tempo – vorrei concentrarmi nel lavoro sui temi che mi interessano: diritti delle donne e degli omosessuali in Medio Oriente e Nord Africa, dove sono meno rispettati. Lo sapete, sempre con quell’approccio minimalista di cui ho detto tante volte: non è una missione, ma soltanto un po’ di tempo che ho da spendere.

Di esperienze sul campo ne ho già fatta qualcuna, ma di preparazione teorica ne ho davvero poca: con la mia bellissima ma poco attinente laurea in lettere. Perciò ho pensato di dover devolvere un anno allo studio delle relazioni internazionali, dell’intervento umanitario e dei meccanismi della macropolitica: per diverse ragioni ho scelto Londra, e così sarò qui per i prossimi dodici mesi. È un po’ il percorso inverso a quello classico, dalla pratica alla teoria, ma serve per tornare alla pratica – o almeno così si spera.

Perciò, se vi capita di passare per Londra, fate un fischio ché magari vi faccio conoscere Viola, la mia bici.

Tre donne, tre lacrime e un libro

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Ayaan
Ero in Palestina e regalai all’educatrice che lavorava con me il libro che sapete tutti, Infedele di Ayaan Hirsi Ali: è una mirabile e disarmante storia di liberazione – il vero Vangelo di questo secolo – di una donna somala che riesce a spezzare un ciclo di abusi lungo generazioni, l’infibulazione subita, un matrimonio deciso dalla sua famiglia con un uomo che neanche conosce, una vita di sottomissione e privazione di qualunque desiderio; e lo fa facendo una cosa che a dirla è quella più facile del mondo, e invece: realizzare che la prima persona a cui si deve volere bene è sé stessi. Che tante persone, per cui provava affetto, avrebbero sofferto per la sua decisione di essere sé stessa nel modo più pieno, ma che non c’è soltanto il tuo bene e quello di un altro sulla bilancia: c’è ciò ch’è giusto.

Ahlam
Ahlam, l’educatrice, non aveva la stessa storia di Ayaan, eppure anche lei era stata condannata a una vita di quei soprusi: doveva essere accompagnata da un maschio della famiglia per rientrare a casa, se fosse andata a vivere da sola l’avrebbero uccisa (sì, uccisa), era sfuggita a un matrimonio combinato – con un cugino che non aveva mai visto – soltanto perché le famiglie avevano litigato, per fare qualunque cosa doveva avere il permesso di uno degli undici fratelli che la comandavano in tutto e per tutto: lei aveva trent’anni, era naturale che il più piccolo dei maschi, un dodicenne, fosse il suo padrone e decidesse quello che poteva fare – quando chiedeva il permesso di fare qualcosa, non riceveva neanche risposta: bastava il silenzio, era un “no”. Con il poco arabo che avevo imparato, capivo. Mi diceva sempre, e lo vedevo girando per strada «io sono la più emancipata, fra tutte le donne che conosco».

Eleanor
Lo diceva perché lei era una delle poche che si rendeva conto di quanto fosse ingiusta la deliberata subalternità in cui era stata incastonata da quella società, i maschi le erano superiori – per diritto di nascita –, ma lei voleva mostrarmi, era più vero mostrarsi, che – dopotutto – era fortunata rispetto alle altre. Le regalai Infedele e sulla prima pagina del libro le scrissi una frase di Eleanor Roosvelt vibrante di verità, che ha dentro di sé la potenza di tutte le ingiustizie del mondo: «nessuno può farti sentire inferiore senza il tuo consenso». Lui non l’ha mai saputo, me l’aveva insegnata Ivan.

Lacrime
Un giorno, grazie a qualche lacrima di commozione che avevo speso per l’abbacinante armonia di un filmato in cui diverse coppie omosessuali – alcune stavano assieme da quarant’anni – chiedevano di non essere divorziate, parlai con Ahlam dell’omosessualità: aveva scoperto a vent’otto anni che esistono gli omosessuali, e non aveva mai pensato che quegli-individui si potessero, davvero, amare. È una persona degna, straordinariamente sensibile, Ahlam: perciò capì, nonostante i trent’anni passati a inculcarle il disprezzo (è una bella storia, l’avevo raccontata pubblicando il video su queste pagine). Le lacrime sono importanti, è l’emotività che sostanzia il senso di giustizia: quando regalo Infedele alle persone valide, quelle che so che capiscono lo spirito con cui lo scrivo, sul frontespizio appunto loro questa dedica «se non piangi a “La mia libertà”, sei uno stronzo» oppure «se non ti commuovi a “La mia libertà” sei una stronza». “La mia libertà” è il capitolo del libro in cui Ayaan prende il coraggio a quattro mani e decide di fuggire, e racconta l’ebbrezza, la gioia e la sensazione di spaurimento provocatole dal sapore di quei gesti di libertà, scegliere e riconoscere sé stessi, che per noi sono tanto scontati. Davvero, bisogna avere l’emotività di un blocco di tufo per non commuoversi.

Libro
Faccio un salto in avanti, ma ci sono sempre le lacrime. L’altra sera ero a una riunione sulla politica del PD a Roma e io ne rimanevo un po’ fuori, essendo stato lontano dalle faccende romane per qualche tempo: ero passato di lì per salutare tante persone per bene, e a cui sono anche affezionato, che a causa dei miei viaggi non vedevo da diverso tempo e probabilmente non rivedrò per un po’. Così mi è quasi capitato fra le mani l’ultimo libro che Ivan Scalfarotto ha scritto, In nessun Paese, e ho iniziato a sfogliarlo. Se n’era parlato sui blog che leggo, e avevo dato per scontato che fosse un bel libro, di cui avrei condiviso l’intero impianto argomentativo, rimandandone la lettura a un futuro prossimo. Ho iniziato a sfogliarlo, e mi son reso conto che non era il libro intelligente e asciutto che mi aspettavo – non solo. Ho scoperto che c’è anche lì un “la mia libertà”, quello stesso baleno di liberazione: così son rimasto lì a fare la figura dello scemo, col viso rigato dalla commozione mentre si discuteva di mozioni di sfiducia.

Libero
Non ho scritto questo post per dirvi di comprarlo, quello fatelo se volete (ma secondo me volete). È un’altra cosa: lì dentro c’è l’istante – l’attimo – in cui la testa di una persona come noi, fragile delle sua forze, si ribella alle costrizioni impostegli da sé stessa per prima, e dalla società. È il capitolo che si chiama, appunto, L’attimo fuggente ed è il racconto di quando Ivan decide di dire forte – il contrario di una confessione – ai proprî genitori che è omosessuale. C’è proprio un momento, venuto dopo anni e anni di ragionamenti, in cui si capisce che negare la verità a qualcuno per tutelarlo, oltre che per tutelare sé stessi, è un atteggiamento arrogante, significa mettersi su un piano morale superiore, e valutare gli altri con un metro diverso da quello con cui si misura sé stessi: Ayaan non accetterebbe mai un’Ayaan che infibulasse la figlia, Ahlam non accetterebbe mai un’Ahlam che sottomettesse le donne della famiglia, e Ivan non accetterebbe mai un Ivan che rifiutasse un figlio omosessuale.

Attimi
È quell’attimo di follia lucida, con il cuore in equilibrio, in cui si realizza che le persone valide e che ti vogliono bene – se lo sono fin dentro – non potranno andare contro a ciò che è giusto, quale che sia l’educazione che hanno ricevuto, perché altrimenti non sarebbero persone valide, non ti vorrebbero bene:

Con mamma il caso che ci portò alla rivelazione fu una mia relazione con un ragazzo olandese. Ci vedevamo tra Milano e Amsterdam nei fine settimana. Il mio Jan era bello come il sole e io lo avevo ritratto in centinaia di foto che facevano bella mostra di sé in ogni angolo della casa. Un giorno mia madre aveva annunciato una visita a Milano. Mi ritrovai come un assassino impegnato a modificare la scena del delitto. Ogni dettaglio che rimandasse alla mia storia con Jan, foto, biglietti aerei, cartoline (esistevano ancora le cartoline) dovevano essere rimossi e parcheggiati in un apposito contenitore, in attesa di essere riportati al loro posto. Mi sentivo felice come un assassino che attende la visita del Ris di Parma e il senso di fastidio aumentava. L’impressione era che il cambiamento della scenografia avrebbe complicato il futuro, anziché renderlo più semplice. Sarebbe stata la prima di una lunga serie di manomissioni e di rimesse in opera del palcoscenico della mia vita.

Fermatevi un momento qui. Pensate a questo meccanismo che porta a nascondere, a mischiare le carte per tramutare un luogo denso d’affetto in un luogo asettico, a vergognarsi di essere innamorati invece di urlarlo forte ai quattro vènti. A decidere che è meglio di no. Pensate a tutti i calcoli – inconsci, ma anche consci – su quale sia la strada più conveniente, più indolore per tutti. Le piccole autoassoluzioni per le minute angherie a cui ci si sottopone, e a cui si sottopone il proprio compagno. Credo, immagino, che anche Ivan avrà pensato decine di volte – così come per Ahlam e le sue amiche meno emancipate – mentre scacciava lo stesso pensiero: «in fondo è possibile vivere una vita parallela, non sono mica in Iran, sarà soltanto una-lunga-serie-di-manomissioni…»

All’improvviso decisi di rimettere tutto com’era, al proprio posto. Se mia madre voleva venirmi a trovare, quella era casa mia, foto comprese. Se non le piaceva, era libera di non venirci più. Quando arrivò non fece fatica a notare le immagini di Jan e a chiedermi chi fosse questo (sottinteso «bel») ragazzo. «È il mio amico di Amsterdam». E in questo modo risposi implicitamente alla sfilza di domande (sempre evase con abilità) che mi erano state fatte in precedenza riguardo ai miei continui viaggi in Olanda. Silenzio assoluto. Poi chiacchiere varie. Alla fine fui io a rompere gli indugi: «Mamma, ma ti interessa sapere qualcosa di me o non te ne frega niente?». E lei: «Certo, dipende da quello che mi vuoi dire tu: io non ti faccio domande a cui non vuoi rispondere». Vuotai il sacco. Le confidai che Jan era in realtà il mio compagno, che stavo con lui e che lo amavo moltissimo. Mia madre provò a dirmi qualcosa. Una frase, in particolare, la ricordo benissimo: «Sono preoccupata, perché la tua vita sarà più difficile». Da allora, comunque, i miei compagni hanno sempre avuto posto anche nella sua vita. Il suo affetto e il suo rispetto non mi sono mai mancati.

E poi c’è papà. La famiglia di Ivan è del sud, trainato da una sorta di pregiudizio sul pregiudizio del padre, la rivelazione si era fatta attendere. Poi, un giorno, la stessa risoluzione a rifiutarsi di accettare chi – si presume – rifiuti di accettare:

Anche lui ha saputo perché in una data situazione ho rifiutato di fingere: questa volta, peraltro, non si trattava di fotografie, ma di una persona in carne e ossa. Era Capodanno e da qualche mese convivevo con un ragazzo, Erminio, che sarebbe poi stato il mio compagno per dieci anni e mio fratello per sempre. Papà tornava da una vacanza in montagna e aveva deciso di fermarsi a Milano. Erminio mi aveva subito detto che in quei giorni sarebbe volentieri tornato a casa di sua madre, in modo da consentirmi di ospitare mio padre. «Non se ne parla nemmeno». Quella era casa sua quanto mia e il problema, se c’era un problema, non poteva essere di certo suo.

A papà non avevo trovato di meglio che inventare una scusa. Gli dissi che avremmo festeggiato l’anno nuovo a casa, motivo per cui non avrei avuto la possibilità di ospitarlo per la notte. Il giorno dopo, tuttavia, aveva cominciato a chiedermi in modo sempre più insistente quando ci saremmo visti. Io lo rimbalzavo, spinto anche da una serie di persone che conoscevano bene sia me sia lui, impegnate da sempre a garantire che se gli avessi parlato non avrebbe capito, che se la sarebbe presa a morte, che sarebbe stato un disastro.

La cosa che colpisce sempre, in questo tipo di storie, è l’inversione del senso di colpevolezza: non era Ivan a dover decidere se pazientare e indulgere su un’eventuale intolleranza del padre; era invece come se un (presunto) genitore omofobo fosse intitolato alla propria intolleranza, e potesse essere lui a decidere il grado di accettazione a cui sottoporre il figlio. L’omosessualità è la colpa, e l’omofobia è la reazione legittima.

Quando mi decisi a raggiungerlo in un luogo di Milano per bere qualcosa insieme, lui era furibondo. Si sentiva preso in giro, avvertiva che c’era qualcosa che non andava, capiva che volevo tenerlo lontano da casa mia e si domandava il perché. Colsi l’attimo: «D’accordo: c’è una cosa che non sai e che devi sapere, altrimenti non potrai entrare in casa mia né oggi né mai». «Hai una donna?». «No, ho un uomo». Passarono tre interminabili secondi nei quali lui mi ha poi confessato di avere pensato qualcosa tipo: «Non posso dire una cazzata, ora. Quello che dirò adesso mio figlio se lo ricorderà per sempre». Finalmente uscì un «Ebbè?». Proprio così: «Ebbè?». Ebbè, e quindi, e allora, e qual è il problema? «Ma quando mai ti sono sembrato omofobo», aggiunse. (…)  Il suo «Ebbè» è servito a costruire un rapporto ancora più forte tra noi. Non solo: papà è diventato una delle colonne dell’Agedo, l’Associazione dei genitori di omosessuali fondata da Paola e Giovanni Dall’Orto (madre e figlio, guarda caso). L’Agedo è l’unica associazione composta da eterosessuali che si batte per i diritti degli omosessuali.

Probabilmente neanche pensandoci tre ore, anziché secondi, il padre di Ivan avrebbe potuto trovare una risposta più intimamente degna, pudica, vera, commovente, di «embè?». Come dire: «ok, ora dimmi la cosa che davvero potrebbe farmi arrabbiare». Non c’era. E la punta di offesa ch’era presente nella replica – perché mi hai pensato omofobo? – era il sentito sigillo dell’assenza di quel pregiudizio.

Certo, Ivan è fortunato, ha una famiglia che si è dimostrata più matura di molte altre (il mio primo pensiero era stato di scrivere “speciale”, e poi ho avuto orrore per quel sostantivo in questo contesto: “normale”, altroché). Altri potrebbero non avere la stessa forza o lo stesso coraggio d’animo – e dobbiamo cercare di creare le condizioni perché non ci voglia nessuna forza, per farlo – ma questa piccola, grande, storia di libertà e liberazione dimostra che fare ciò che è giusto è un regalo che ognuno deve riuscirsi a fare. E che l’affetto e la stima delle persone a cui vogliamo bene hanno valore – e sono la cosa più importante che abbiamo – proprio perché non sono gratuite, ma dipendono nella loro essenza dalle nostre azioni e dai nostri pensieri, con i quali le guadagniamo un po’ ogni giorno.

Ah. Se non vi siete commossi, siete degli stronzi.

Digito ergo sum

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Qualche giorno fa è successa una cosa particolare. Ve la spiego con una premessa: questo blog è un blog che potremmo definire medio, non è di quei blog che hanno decine di migliaia di lettori ma non è neanche un diario strettamente personale che leggo soltanto io e qualche amico. Ho la fortuna di avere qualcuno che mi legge, e soprattutto di avere persone che stimo che mi leggono. E poi è tutto fuorché un blog storico: siamo giovani, Distanti saluti ha più un anno e mezzo che due anni.

Quello che però ho sempre rivendicato, ed è il motivo per cui ci dedico molto tempo a provare a rispondere a tanti, è la straordinarietà dei commenti – o più precisamente ancora, dei commentatori – di questo blog. Ne abbiamo parlato in più d’una occasione con Francesco, che quanto ai commenti ha un approccio disincantato e completamente diverso dal mio, e avendo seguito alcune non-discussioni sul suo blog devo dire che è difficile biasimarlo. Non so perché mi sia capitato di avere dei commentatori così interessanti e simpatici – e, se mi si permette, devoti al dialogo –, nessuno dei quali mi ha dato l’impressione di odiarmi di odio vero (vabbè, uno c’è, Tenkiu, la fondamentalista cristiana, ma anche a lei mi ci ero [quasi] affezionato) come invece ho più volte visto succedere ai denigratori professionisti di Francesco.

Non credo che sia per ciò che scrivo, su alcuni temi – le donne e gli omosessuali nell’Islam, ad esempio, o l’aspra critica al Cristianesimo e tutte le religioni – ho delle idee che difficilmente trovano cittadinanza in qualcuno degli schieramenti politici classici di inizio XXI secolo: basti pensare che la persona che ha fatto più commenti su questo blog, avevo un giochino per controllarlo, è un frate, Alberto, con cui ci prendiamo a cazzotti (immaginarî) a ogni discussione, e che avrebbe delle buone ragioni per essere arrabbiato con me: perché gli faccio pagare in ogni discorso che facciamo, anche più del giusto, quella tunica (in un lapsus avevo scritto “quella tonica che porta”, forse per Fra Alby sarebbe perfino più azzeccato) che porta – basti pensare che in ogni email che gli mando al posto del canonico (!) come va?, comincio, invariabilmente, con qualcosa come “brutto stupratore di bambini, quanti violentati oggi?”.

Eppure c’è qualcosa di incantevole e prodigioso in come funziona tutto ciò, mi ci ha fatto pensare un commento di una persona silente che non era mai intervenuto ma – lateralmente a un’altra questione – ha detto, più o meno, che a lui non interessa molto quello che scrivo ma l’interplaying con i commentatori abituali. Un concetto divertente, anche nella sua espressione, al quale mi sono affezionato. Ho pensato che un giorno dovrò fare un’enciclopedia dei commentatori abituali, da Angia a Scialocco – passando per quelli che vanno a periodi, come Franco, o quelli ultimamente più latitanti come Rosa – in cui provo a raccontarli come li vedo io, e con la loro lingua.

Naturalmente era già successo che incontrassi qualcuno che ho conosciuto sul blog, direi un paio di dozzine di volte, ed è sempre stata una sorpresa in positivo. Per alcuni di questi, come Max e Marco, posso dire che sono diventati degli amici, ho dormito da loro – a 7 mila chilometri di distanza l’uno da l’altro –, e soprattutto che mi hanno insegnato tantissime cose. La cosa che non era successa, però, fino a qualche giorno fa – almeno che io sappia – è che due persone che si erano conosciute sul blog si incontrassero fra loro e indipendentemente da me, Angela e Ilaria – magari si saranno trovate antipaticissime –, il che mi ha fatto sentire un po’ di meno il padrone di casa qui, la miglior cosa che possa succedere. Conoscevo una coppia che aveva chiamato il figlio con il nome della città in cui si erano conosciuti: il giorno in cui qualcuno si incontrerà, si sposerà, e chiamerà il proprio figlio Distanti saluti capirò che è arrivato il momento di togliermi di mezzo.

p.s. Visto che ci sono, e che so che un sacco di gente preferisce leggermi via feed, ho pensato di linkare il feed dei commenti, che non avevo mai pubblicato: eccolo qui.

Comunicazione di servizio

A causa di un guasto hardware al computer – a proposito, qualcuno ha qualche feedback con la Sony? – mi si è incasinata la sincronizzazione fra posta offline e posta online, e ho perso una ventina di email che avevo scritto ma che conto di recuperare alla riparazione del guasto. Purtroppo è complicato capire quante e quali, quindi se qualcuno che mi ha scritto avesse bisogno di una risposta urgente, è meglio che mi riscriva.

Si stava meglio, reprise

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Qualcuno me lo ha scritto nei commenti, altri privatamente, dicendomi che – sostanzialmente – avevo esagerato nello scrivere questo post. Perché in qualche modo facevo l’errore che imputavo agli stessi commentatori, aggiungendoci il “frocio” e le “peccatrici” che nessuno degli interlocutori aveva detto.

Ci ho riflettuto un po’, e ho pensato che avete ragione.

Che è probabile che alcuni, seguendo ragionamenti francamente sciocchi, pensino cose orribili, ma il principio minimo di garantismo avrebbe dovuto impedirmi di accomunarli ai peggiori, loro malgrado.

Il vecchino milanese del tram

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Oggi dovevo prendere il tram, e ieri avevo finito la scorta di otto biglietti che mi ero comprato per farmeli durare un po’. Però, ferragosto, era tutto chiuso. E allora sono andato alla fermata a chiedere se qualcuno avesse un biglietto ché le tabaccherie sono tutte chiuse. E c’era questo vecchino che mi ha detto «sissì, ce l’ho», e – mentre gli davo l’euro del costo del titolo di viaggio – ha aggiunto, con accento milanese: «sa io ho l’abbonamento, ma c’è sempre qualcuno che ha bisogno di un biglietto, così ne porto sempre dietro tre o quattro».

E a me, questa cosa del vecchino milanese che porta con sé i biglietti per i bisognosi, e in questo traduce la propria buona azione quotidiana, mi ha un po’ commosso.

Docile fibra, diceva quello

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E insomma succede questo, che l’altro giorno ho fatto un post su Pantani, ché il ciclismo è lo sport più romantico del mondo. E l’ho fatto con quello spirito con cui armeggio sempre su queste cose qui: quello che dice «queste sì che sono le cose importanti della vita» e per metà lo pensa davvero. Come quando smetti di parlare di noiosità lavorative o burocratiche, e passiamo-alle-cose-serie: «che ne pensi di D’Agostino alla Fiorentina?».

L’altra metà – sarebbe quella che in teoria non ci crede che siano le cose importanti della vita – si concede un po’ dell’enfasi che magari non accetterebbe in altri àmbiti, e si lascia un po’ trasportare dal gioco della favola, ché quando Pantani diede quei tantitanti minuti a Ullrich eri contento di gioia vera, mica così… per sport.

Poi, però, arriva una persona sconosciuta, che intuisci tersa in ogni parola, e nei commenti scrive questa cosa:

Dodici anni fa quell’estate morì il mio papà, in una dolorosa e triste agonia.
Quel Tour e quel Pantani sono per me, che appena vagamente mi interesso di sport, legati a lunghi pomeriggi in cui non non ci sembrava più di sapere sorridere, e non ci sembrava nemmeno più estate.

Poi Marco fece l’impresa dell’Alpe d’Huez, e il lunedì appendemmo il poster allegato alla Gazzetta alla porta della cucina dove ancora sta, e quello fu il primo giorno in cui andammo oltre, e non me lo dimentico.

E allora ti senti un po’ stupido, ma ti sembra che – come se un cerchio si chiudesse – in fondo il senso delle cose sia tutto lì, in quel poster che ancora sta in quella cucina, e che per stare ancora lì deve essercisi trovato proprio bene.

E mentre ti senti stupido per tutte le considerazioni che ti sono saltate in testa – e a cui hai dato corso nella scrittura – ti verrebbe voglia di abbracciare il mondo.