Sabato 4 ottobre

Sopprobblemi  – Diario dalla Palestina 76

Uno dei problemi che sono sopraggiunti al momento di fare gli inviti al matrimonio era quello non indifferente del: li invitiamo i mussulmani? Sembra che questa presenza non fosse molto gradita, ma al tempo stesso c’erano ragioni d’etichetta che imponevano un’estensione dell’invito almeno ad alcuni: Montaser (lo sposo) e il padre erano stati più volte invitati ai vari matrimonî dei mussulmani di Zababdeh e paesi limitrofi.

Ho chiesto il motivo di questa avversione, ma fra le spiegazioni l’unica chiara è stata che «potrebbero importunare le nostre ragazze». Effettivamente non è la prima volta che sento tirare in ballo l’argomento, perché il misto di sessuomania e sessuofobia che si respira in Palestina è più accentuato fra i mussulmani. Ma ovviamente c’è dell’altro.

Alla fine si è deciso di fare un pranzo prima del matrimonio solo per i mussulmani (a cui io, per dire, non ho partecipato) nel giardino di casa, in modo che risultassero come invitati ma non presenti alla cerimonia vera e propria – la festa del post “sì”. Inutile dire che l’invito valeva soltanto per i maschi, le pochissime mogli venute sono rimaste a mangiare qualcosa dentro casa, con la madre e le sorelle dello sposo.

Si era però sollevato un altro problema: dice che sugli inviti di matrimonio, nell’islam di qui, non è compreso il nome della donna ma solo quello dell’uomo. Perché il nome della sposa non deve essere conosciuto al di fuori dell’alveo familiare più stretto. Così la questione era: ristampare altri biglietti per loro, o fregarsene col rischio che si offendano (sic)? Montaser se n’è fregato. Evviva gli sposi, Montaser e Nura.

Venerdì 3 ottobre /sera

Uno sciame – Diario dalla Palestina 75

La festa dello sposo, l’addio al celibato, la festa per i mussulmani, il matrimonio vero e proprio, il post matrimonio.

Vi sareste chiesti cosa faccia io a tutte queste feste in cui si sta sempre a ballare: beh, si, qualche volta – tanto non mi conosce nessuno! – mi capita anche di improvvisare un ballo (qui con il padre di Salwa):
immagine-101.jpg

Invece una cosa che ho notato subito, oltre a quella che – contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare – ai matrimonî qui si mangia poco, è che i bambini sono trattati con evidente sufficienza, quando non con fastidio, da adulti e appena-non-più-bambini.

La maggior parte delle volte il mio impiego è questo:

dscn0185.JPG

Snobbati dai grandi, spesso allontanati, quando hanno trovato qualcuno che li considerasse, sono diventati super partecipi, e abbiamo fatto un’infinita quantità di giochi. Più volte benintenzionati adulti sono venuti da me per mandarli via, assumendo che mi disturbassero; quando spiegavo loro che mi stavo piuttosto divertendo rimanevano interdetti, e mi ringraziavano come si farebbe con il garzone del supermercato che ti porta la spesa a casa.

Poi, finita la festa tutti mi hanno detto che sono molto “buono di cuore” (che io ho interpretato anche come “un po’ scemo”). Il padre di Salwa, fra il serio e il faceto, mi ha fatto dire che ora mi assumeranno a tutti i matrimoni per tenere i bambini fuori dalle palle. E se una suora ha tradotto così, chissà cosa avrà detto veramente!

p.s. Ho anche un video di tutti i bambini che cantano “Fratelli d’Italia”, ma quello lo caricherò quando avrò a disposizione una connessione decente.

Venerdì 3 ottobre /mattina

Rosso corallo – Diario dalla Palestina 74

Mercoledì sera la festa di addio al celibato. Per fortuna non ha nulla a che vedere con quel rito disgustoso che abbiamo dalle nostre parti (se concepisci il matrimonio come un incatenamento, semplicemente, non sposarti). Qui hanno fatto una festa, che è una sorta di replica in piccolo del matrimonio. C’erano entrambi i venturi sposi, e si è cantato e ballato per tutta la sera.

Anche qui, però, non potevano mancare delle brutture: il rito, per l’uomo, impone il taglio della barba in pubblico, operazione che viene eseguita seguendo il filo conduttore di quel tipo di goliardia (da caserma) che non ho mai sopportato: schiaffi, pizzicotti, crema spalmata sui capelli, tutto ciò che possa dare fastidio al futuro sposo, perché così è divertente (?). Il significato simbolico, credo, sia nel mettersi a posto, come a dire del “mettere la testa a posto”. Ma quando la barba ricresce?

Il rito che tocca alla sposa, per la mia sensibilità, sfiora il raccapriccio: le spetta il compito di intingere le mani nella henna (variante dell’henné con cui si tingono i capelli), una crema vegetale che imprime sui palmi un colore rosso, più o meno acceso a seconda della durata del trattamento pubblico. Mi riferiscono che i mussulmani indugino molto di più, facendo diventare le mani di un rosso acceso. Non è difficile intuire il significato simbolico di questo gesto, con la ragazza che – parole né ironiche né mie – così è «marchiata».

Eppure i riti, fra questi il matrimonio, potrebbero essere una cosa così bella*.

* in onore a Davide che ama le frasi finali a effetto!

Giovedì 2 ottobre /sera

All the world (wide-web) is village – Diario dalla Palestina 73

L’accesso a internet è stata un’impresa miracolosa che non è raccontabile per filo e per segno, mi limiterò ai sommi capi: intanto qui – l’ho scoperto con un «ah già» appena arrivato – la mia compagnia telefonica non ha segnale in tutto il paese, neanche sulla terrazza col pollaio che destava barlumi di speranza. Sono quindi tagliato fuori da ogni contatto. Non esiste un internet point, e il tipo – se ho capito bene l’unico che ha l’adsl in paese e celebre per questo – ha il filtro rotto, o qualcosa di simile. Non posso andare a Jenin perché fra i duemila preparativi delle tremila feste, allontanarsi di qui per troppo tempo sarebbe male, come dicono in Sicilia.

Alla fine il miracolo è avvenuto per mezzo di un cinquantaseiessei e di un cugino di Salwa, che dovrebbe fare il tecnico informatico e dovrebbe parlare inglese ma è stata un’impresa di stato fargli capire che quando veniva chiesto il “numero di telefono” questo non era quello di casa. Ho provato a spiegargli che si trattava del numero del provider, ma lui mi ha detto con tono sicuro «sciufi», guarda. Ho aggiunto che facendo così, se ti chiami da solo, viene occupato: quando è effettivamente risultato occupato mi ha guardato come dire “ma come hai fatto?”. Quando gli ho fatto intendere che il problema era il numero e non il nome utente+password, e che il numero potevi testarlo direttamente componendolo sul telefono, senza bisogno di aggeggiare intorno al modem, è rimasto affascinato.

Alla fine ce l’abbiamo fatta, l’ho praticamente guidato passo passo, ma senza di lui non sarei mai stato in grado di spiegarmi col servizio clienti della compagnia telefonica: la sua disponibilità ha superato di gran lunga quella che era più impacciataggine che sicumera.

Giovedì 2 ottobre /mattina

Ptaref Batigol? – Diario dalla Palestina 72

Mi trovo a Zababde, non proprio a Jenin, un villaggio vicino. Piccolo ma abbastanza noto perché si narra di una sosta della Madonna per riposarsi in questi luoghi: anche per questo è uno dei pochissimi paesi della Palestina a essere ancora a maggioranza cristiana. E il sindaco lo è per legge. Nonostante ciò, a distanza d’occhiata, vedo due minareti (quindi moschee) che per un villaggio di neanche quattromila abitanti, di cui soltanto un migliaio dovrebbero essere mussulmani, non sono pochi.

Stamattina ho fatto una passeggiata per il villaggio e tutti m’hanno riconosciuto, del resto la grande maggioranza dei cristiani era presente alla festa di addio al celibato (ne racconterò!), ieri.
Anche qui qualche cristiano mi sconsiglia di entrare nei negozi mussulmani, che di par loro – assumendomi cristiano? – non ricambiano: anzi oggi il padrone del negozio che avrei dovuto evitare, non soltanto – udite udite – non ha provato a fregarmi sul prezzo, ma dopo avermi confuso per un americano, ha glissato «eh, vabbè, americani, italiani, argentini, siete tutti benvenuti».
Chissà perché argentini.

p.s. Perdonerete – in questi giorni – la pubblicazione contemporanea di pagine scritte in momenti diversi ma, come potete immaginare, le contingenze lo impongono.

Mercoledì 1 ottobre

Più in alto di così – Diario dalla Palestina 71

Approfittando della festa dell’Eid – la fine del Ramadan – vado a Jenin fino a domenica, quando tornerò in tempo per il prossimo incontro con i bambini:  ho visto Jericho, Hebron, Nablus, Ramallah, tutte in giornata. Ma per Jenin, vista la distanza ci vuole un po’ di più, e approfitto dell’accoglienza offertami da Salwa in occasione del matrimonio del fratello (sono anche curioso di vedere la differenza con l’altro matrimonio). Insomma vivrò qualche giorno di vita ancor più palestinese di quella che vivo fin ora, e al ritorno vi saprò raccontare.

Nel frattempo non so se troverò modo di accedere a internet prima di domenica, quindi se non mi vedrete scrivente sarà per questa ragione e non per un altro incidente in bici. Tornerò, più pieno di foglietti che mai, pronto a dirvi qualcosa anche di questa parte di Palestina.

Martedì 30 settembre

A fare i grandi – Diario dalla Palestina 70

Oggi è il primo giorno della fine di Ramadan. Non lo si è saputo fino al tramonto di ieri, perché doveva succedere una cosa con la luna che non ho capito bene. Anche se pure gli imam non è che lo capiscano tanto bene: l’anno scorso, ad esempio, si son messi a avvistare la luna e, se in Egitto hanno visto così, in Arabia Saudita hanno visto cosà, quindi… potete immaginare.

Stavolta, invece, tutti d’accordo e quindi fine del Ramadan e primo giorno di vacanza per tutti (fino a venerdì). I negozi sono tutti chiusi e per strada non c’è nessuno. Cioè, nessun adulto. Perché invece è strapieno di bambini. Che giocano a fare i grandi. Le bambine, anche di 6 o 7 anni si vestono da donne, si armano di borsette, abbigliamento e passo femminile, e vanno in giro per la città in gruppo.

I maschi invece, vanno in giro in gruppetti più sparuti, tre, quattro, massimo cinque. Però tantissimi. Non ho mai visto così tanti bambini per strada, e fin qui. Il fatto è che vanno tutti in giro con un’arma giocattolo che spara pallini o niente. Avrò visto – non esagero – ottanta bambini, di cui quelli sprovvisti di mitra, pistola o un’arma qualunque si contavano sulla dita di una mano di Django Reinhartd.

Ho capito che c’erano tre modi di non farsi sparare (ché i pallini, quelli gialli, fanno male sulle chiappe). Uno era fare la faccia cattiva, se hanno paura che tu gliele dia, evitano e se la vanno a rifare su turisti attempati che non avrebbero la forza di rincorrerli. Il secondo era quello di portarsi la mano, orizzontale, alla fronte: come a fare il gesto del mettersi sull’attenti. Molto contenti della complicità, ti lasciavano passare come un “superiore”.

Il terzo era quello di mostrare molto interesse e anzi chiedergli, con le grame parole del mio minuto repertorio d’arabo, di fare una foto: al che tutti i ragazzini si mettevano in posa, impettiti, qualcuno si copriva il volto come nei video di Al-Qaida (Al caida?), qualcuno faceva una faccia fintamente minacciosa, la maggior parte sorrideva.

Non pensatemi meglio di quel che sono: ho usato anche i primi due. Qui alcune dei risultati del terzo metodo. Alla fine, dice, sono stato l’unico occidentale a non essere sparato.

1-mitra.JPG

4-mitra.JPG

2-mitra.JPG

3-mitra.JPG

5-mitra.JPG

Ho sempre pensato che fosse una sciocchezza l’equivalenza fra gioco e realtà, ho sempre criticato i criticatori dei videogiochi violenti, e sostenuto che un gioco è un gioco.
Però devo ammettere che queste mini-squadriglie m’hanno fatto angosciato un po’, ci ho pensato tutto il giorno.

Ovviamente non sono giunto ad alcuna conclusione, se non che avrei dato tanto per vederli giocare a pallone.

Lunedà29 settembre

Ouagadougou – Diario dalla Palestina 69

Ecco un post squisitamente autoreferenziale, dicono che non ne rimmarrete delusi; dovete sapere che io, prima di un po’ di tempo fa, ero una di quelle persone noiose a cui piacciono quelle cose noiose, tipo la metrica, la poesia del 1200, le capitali, etc.

Poi, come raccontavo qui, mi son reso conto che mi mancavano la vita e il mondo, che dentro quel negozio di tabaccheria eccetera. Così ho buttato via un po’ tutto e ho deciso di non rimanere là, in quella università tanto accogliente da sprofondarci.

Però, dopo un anno di salutare disintossicazione, ho riniziato a frequentare quelle cose lì; e ho approfittato dell’inevitabile isolamento connaturato a un soggiorno solitario in Palestina per obbligarmi a tornare su ciò che avevo misuratamente amato: mi sono portato la Commedia e altra roba più scema da imparare a memoria, perché saperle così mi dà quel gusto di sentirle, le cose.

Ogni sera – dopo il thè alla menta da Afram, Mike, Omar, i due Amin e gli altri girevoli avventori – torno a casa e imparo qualcosina prima di dormire: Rodari, Trilussa, Fabrizi, solo cose che ti fanno fare un bel sorriso.
E qui vi propongo Campanile, perché a una tavolata di suore è così piaciuto (vabbè che devono essere buone per statuto…) che mi hanno tributato una trentina di secondi d’applauso.

Sabato 27 settembre / bonus

Yalla Paolo! – Diario dalla Palestina 68

Oggi ho riinforcato la bicicletta per la prima volta dopo l’incidente, in realtà non sono ancora in condizioni perfette, ma dovevo assolvere a un rito: due anni fa ero andato a Salisburgo, ed era stata una festa. L’anno scorso – dopo tanto chiacchierare – non c’ero andato, a Stoccarda, e per espiare la colpa avevo fatto un giro dell’isolato, improvvisando un circuito. Era stata un’altra festa.

Stavolta che era anche più vicino, in Italia, non ci sono io.
C’ho riprovato insomma: le salite le ho fatte a piedi, perché il ginocchio non posso ancora sforzarlo, ma il circuito è stato completato. Che sia di buon auspicio.

Un fioretto? Vai, va bene: se domani Bettini fa il tris porto un regalo da Betlemme a chiunque scriva “Triride” qui sotto (prima dell’arrivo).

Ah, per chi non lo sapesse il ciclismo sarebbe lo sport più romantico del mondo.

EDIT: qui trovate un’ottima guida per capirci qualcosa.