Francesco, qualche giorno fa, vedeva il bicchiere tutto vuoto:
All’italiana: Mi dicono che ci sono associazioni di volontariato che stanno rimandando indietro i volontari che vorrebbero partire oggi per l’Abruzzo – sarebbero troppi – mentre invece non hanno nessuno o quasi dal 18 aprile in poi. Mi raccomando, non ci facciamo riconoscere.
È un paio di giorni che ci penso, e io vedo davvero tanto di positivo. Innanzitutto non si può sapere quanti volontari ci saranno dal 18 aprile in poi, si possono fare soltanto previsioni, ed effettivamente è facile che molti se ne disinteressino quando l’onda emotiva sarà calata. Anche perché, chissà, uno si mette in lista d’attesa oggi, magari lo chiamano fra un mese quando avrà preso altri impegni. Però tanti più sono ora, tanti più (anche se meno) saranno dopo.
E questa è una cosa che fa bene, e commuove. Nemmeno penso che sia una prerogativa italiana, come da titolo: leggevo da qualche parte che un americano su tre (uno su tre, se siamo in tre per strada uno di questi l’ha fatto!) ha donato qualcosa per le vittime dello tsunami, qualche anno fa. È una cifra enorme, se ci pensate, escludendo tutto coloro che volevano farlo, e non l’hanno fatto, quelli che volevano poi non avevano la carta di credito giusta, quelli che si ora lo faccio, hanno sempre rimandato e non l’hanno più fatto.
È una cifra enorme.
E questa è una testimonianza che il mondo è migliore, ora, di tempo fa. E che la pulsione morale – lo zeitgeist morale, qualcuno lo chiamerebbe – è avanzato: come in Europa succede da centinaia d’anni.
Avevo letto un po’ di statistiche sul volontariato, su questo libro, ed è un fenomeno che si è praticamente formato negli ultimi vent’anni: prima non esisteva, ad eccezione di casi particolarissimi. L’unico vero volontariato era, un tempo, soltanto all’interno del nucleo familiare. Una specie di mutuo soccorso (com’è in Palestina, per dire) basato sui legami di sangue.
Ora, invece, quasi tutti hanno una mano o un piede impegnati nel volontariato, chi dà una mano – appunto – chi dà qualche soldo, chi dà qualche locale, ognuno a modo suo.
Specie fra i giovani. E questo mi conferma una volta di più quello che penso ogni volta che sento parlare un nostalgico del ’68 (neanche di quel periodo: ma di quelle lotte!). Lo dico fuori dai denti – sapendo d’aver molti lettori di quella generazione – noi, siamo meglio. Ed è un noi per nulla orgoglioso, incidentalmente si capita in una generazione, e chi verrà anche dopo farà un mondo ancora migliore, e così via.
Sapete? Quando ho proposto ai miei amici d’andare a provare a dare una mano in Abruzzo, più della metà (la metà!) ci aveva già pensato. Anche persone da cui non me lo sarei aspettato, ci avevano pensato: e altri si sono detti disponibili o entusiasti. A me ha stupito davvero quanto fosse un sentimento comune, normale, scontato.
3 Replies to “All’italiana, brava gente?”