4-3-3 ragioni per seguire il Pescara di Zeman

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«Non mi sono mai divertito così tanto in carriera»
Emmanuel Cascione, centrocampista del Pescara

Oggi il Pescara è primo in classifica, ed è arrivato il momento di scrivere questo post che aspetta da tempo.

L’anno scorso c’era il Foggia, in Serie C, e lo seguimmo. Quest’anno c’è il Pescara, in Serie B, e va seguito. Forse ancora di più. Io ho visto più partite del Pescara (ne ho saltata una sola) che della Fiorentina, e vorrei convincervi che ho fatto bene.

Se non sapete chi è Zeman, fate male. Questa è la mia descrizione minima:

Chi si interessa anche un poco di calcio sa chi è ZdenÄ›k Zeman, qualcuno lo ama, altri lo odiano. Io lo amo. Per gli altri, basti sapere che è il simbolo dell’onestà e del gioco pulito – fu lui il primo a denunciare seriamente il sistema-doping nel calcio, ricevendone un ostracismo che dura tuttora. È un personaggio irrinunciabile. E soprattutto è un offensivista.

Le squadre di Zeman giocano bene, incredibilmente bene, e attaccano sempre. Se stanno perdendo attaccano, se stanno pareggiando attaccano, se stanno vincendo – indovinate un po’ – attaccano. Perciò fanno una caterva di gol e ne subiscono un’altra caterva. Per questa ragione non gli va sempre bene: chi tifa una squadra di Zeman sa di mettere alla prova le proprie coronarie. Puoi perdere 3-0 e riuscire a rimontare o vincere 3-0 e farti recuperare. E così, fra i detrattori, si è guadagnato la nomea di perdente. Ma come dice lui: «Il risultato è occasionale, la prestazione no».

Quindi, ecco, seguite il Pescara. Provo a convincervi, in 10 motivi. Anzi, in 4-3-3.

Zeman è l’unica persona al mondo che – se la cerchi su Google – non ha la propria foto come primo risultato, ha un modulo. E quel modulo è Zeman. È lo Zeman allenatore e tattico, quanto è lo Zeman personaggio e maestro (come lo chiamano i suoi ammiratori). Questo perché lo Zeman personaggio è diverso, ma vale quanto, lo Zeman allenatore: ci si appassiona a un personaggio così; e ci si appassiona a uno che gioca così. Il fatto che siano la stessa persona, il personaggio e l’allenatore, è una cosa pazzesca.

Taciturno, sardonico, genuino. Celebre per i suoi silenzî, va da Fabio Fazio che cerca di farlo parlare «lo sa che in un’intervista uno domanda e l’altro dà la risposta?», e Zeman controbatte: «se lui la sa». Poco dopo dice una cosa completamente fuori da qualunque logica televisiva: che il documentario che era lì per promuovere, quello del bravo Giuseppe Sansonna, non l’aveva visto (io invece sì, e ve lo consiglio).

Ecco, dunque, il 4-3-3:

IL GIOCO
2) Zeman
La prima ragione non può essere che lui, il Maestro. Ogni partita è uno spettacolo, l’abbiamo detto, ma al tempo stesso è una macchina perfettamente congegnata. Perché il paradosso di Zeman è che tutto può succedere, si può perdere una partita vinta, si può vincere una partita persa, ma Zeman è uno di quegli allenatori metodici, quasi matematici (più di lui forse soltanto Van Gaal), che anziché preparare un dettaglio, lo decide. Anzi, è stata spesso questa sua rigidezza ad attirargli qualche critica. per l’incapacità di adattare forma mentis in corso: se una partita è pianificata così, deve andare così. La questione è che spesso ci va, in quel modo; e perciò, piano piano, si può cominciare ad imparare,  a riconoscere gli schemi di Zeman durante la partita e a prevederli. Palla ad Anania, il portiere (che lui ha ripescato dalla quarta divisione), e tu pensi: «vedrai che ora Insigne si allarga sulla sinistra, e lui gliela scaraventa lì al più presto». Zac, e gol. Vedi Cascione largo, puoi chiudere gli occhi, sai per certo che arriverà la sovrapposizione di Balzano: infatti arriva, puntuale. E tu ti senti parte di un segreto, a conoscenza di una formula quasi magica.

6) Pescara
C’era un allenatore, alla fine degli anni 80 e all’inizio degli anni 90, che aveva portato il bel calcio nella terra dei catenacciari, l’Italia, si chiamava Giovanni Galeone ed allenava il Pescara Calcio. Quella squadra scese in B nel ’93, assieme alla Fiorentina, e non salì più. Però Pescara è rimasta sempre la piazza del bel calcio, ed è rimasta tale anche per i pescaresi, tanto che quando Zeman arrivò in estate – preceduto dalla propria fama di grande offensivista, e grande incognita – loro badarono alla prima delle due cose e gli riservarono questa accoglienza. Ah, a proposito di Pescara, sabato prossimo o quello dopo vado all’Adriatico a vedere la partita, siamo già un gruppetto (partenza da Roma), se qualcuno si vuole aggregare è benvenuto.

5) La velocità
Avrete già capito che se “palla-ad-Anania-Insigne-si-allarga-sulla-sinistra-e-lui-gliela-scaraventa-lì-al-più-presto”, se capita che l’assistman sia il portiere, la velocità è necessariamente il cardine del gioco di Zeman. Pressing alto, difesa altissima, ma soprattutto gioco super veloce. E per questa ragione non c’è mai un attimo di respiro: nella partita di oggi, l’inviato di bordo campo ha provato a intervenire per 5 minuti buoni per commentare qualcosa. Ma continuava a non riuscirci, perché ogni volta era costretto a restituire la linea al commentatore perché il Pescara faceva azioni pericolose su azioni pericolose. Quando ha trovato lo spazio, un sacco di tempo dopo, quello che doveva dire era già scaduto, e lui l’ha ammesso candidamente. È per questo che ci si diverte tantissimo, ed è per questo che non c’è mai un attimo di stanca. Anche se il pallone ce l’hanno gli avversarî, qualunque palla può trasformarsi in un istante in un contropiede strepitoso. Volete la prova? Ecco, facciamo così: se dovete redigere un manuale illustrato sul calcio, alla voce “contropiede micidiale”, metteteci questo.

3) I gol
È ovvio, perciò, che il Pescara faccia tanti gol. Anzi, è l’unica squadra del campionato che ha sempre fatto gol, in ogni partita. Ne ha fatti 53, nessun’altra squadra è riuscita ad arrivare a 40. I bookmaker dànno lo 0-0 di una partita del Pescara a 15 o a 20: come a dire che se giochi 5 euro sullo 0-0, e quello è il risultato della partita, ne vinci 100 (ma tanto non li vinci!). Quand’è così come ci si può non divertire? E forse l’immagine che meglio descrive questo atteggiamento è il calcio d’inizio. Ecco, seguite questo consiglio: cominciate anche solo a guardare distrattamente una partita del Pescara, vedrete otto giocatori sulla linea di centrocampo pronti a buttarsi nella metà campo opposta, e – a quel punto – chi ve lo farà fare di smettere di vederla?

I RISULTATI
7) Primi!
Il Pescara è la squadra che fa più gol, ed è quella che pareggia meno (altro motivo di divertimento). Questo vuol dire che è quella che vince di più, e stanotte è prima in classifica da sola. L’ultima volta che il Pescara era stato primo in classifica in B era il ’97, e l’allenava un altro tecnico noto per il calcio offensivo, Delio Rossi (che ora, guarda caso, allena la Fiorentina). Domani potrebbe essere scavalcata da Torino o Sassuolo, ma importa poco. Siamo lì. Anche perché siamo ancora in inverno, ci avete fatto caso?

4) L’Inverno Zemaniano
Oh, sembra non esistere più. Un tempo c’era questo periodo terribile, a dicembre e soprattutto a gennaio, in cui le squadre di Zeman perdevano colpi, i campi pesanti facevano una parte e i carichi di lavoro accumulati un’altra; e così allo sbocciare della primavera sbocciavano anche le squadre di Zeman che cominciavano la loro rincorsa. Ed era una cosa talmente ricorrente che aveva acquisito una vera definizione: l’inverno zemaniano. Quest’anno a gennaio si sono giocate 4 partite, e il Pescara le ha vinte tutte. Ora aspettiamo le rondini.

8) La promozione
Eh sì, la dico questa parola. Il Pescara è partito come una squadra da classifica bassa o medio-bassa. L’anno scorso era arrivata tredicesima, quello ced era stato considerato un ottimo risultato tanto che il vecchio allenatore, Di Francesco, era stato chiamato in Serie A dal Lecce. Così, quando Zeman all’inizio di quest’anno aveva concordato con il presidente dei premî solo in caso di promozione diretta (come a dire: arrivare ai playoff, dal 3° al 6° posto, sarebbe regolare amministrazione) tutti gli avevano dato del matto. Quest’anno, in metà campionato, il Pescara ha già vinto più partite e segnato più gol che nell’intera scorsa stagione. In questo momento il sesto posto è lontano 14 punti. Quanto sarebbe bello rivedere Zeman in Serie A.

LA SQUADRA
10) Gli altri
Di giocatori rivelatisi molto bravi ce ne sono tanti. E sono quasi tutti molto giovani, che infatti nel corso di quest’inverno hanno ricevuto diverse convocazioni nelle varie nazionali under 20 e under 21. Quello di cui parlano tutti è Verratti: fa il regista, ha piedi molto buoni ma manca di continuità. È pescarese, come Capuano, difensore centrale che è titolare fisso nell’under 21. Poi c’è Kone, che era a Foggia con Zeman l’anno scorso (come Romagnoli, l’altro centrale, e come Insigne). Entro martedì, poi, dovrebbe arrivare un altro ragazzino molto forte dalla Roma, Gianluca Caprari. Il “mio” nome, però, non è quello di un giovane: ma quello di Emmanuel Cascione. Il Gerrard de noantri. Esagero? È chiaro, ma guardatelo giocare. È ovunque. È il centrocampista con più gol, con più assist, e aiuta la difesa. Io sono d’accordo col gruppo Zeman. Ed è lui che ha detto la cosa scritta quassù.

9) Il tridente
Se c’è Zeman, c’è tridente. E questo qui è spettacolare. Immobile, Sansovini, Insigne. In tre hanno segnato 37 gol, 9 in più dell’intera squadra che era stata in testa al campionato fino a qui, il Torino. Se ci si aggiungono anche quelli degli attaccanti di riserva, Maniero e Soddimo, si arriva a 41. E vi dirò: di gol ne sbagliano anche tanti, rispetto alle occasioni che creano. Immobile è un goleador, capocannoniere del campionato, purtroppo è gobbo (è in prestito dalla Juve). Sansovini, 32 anni e capitano, sembrava un giocatore finito, anzi, forse mai davvero cominciato. L’anno scorso giocava da centravanti, unica punta, e aveva fatto 11 gol. Quest’anno gioca più largo, e si spartisce i gol con altri due attaccanti. Ma ne ha già fatti 12, in metà stagione, tutti a Pescara.

11) Insigne
E poi c’è Lorenzo Insigne, che è il fenomeno di questa squadra. L’anno scorso aveva fatto una grande stagione in C, al Foggia con Zeman; così si era meritato la promozione in Serie B, e il Napoli l’aveva prestato al Crotone. Lui aveva già preparato i bagagli per Crotone quando gli arriva la telefonata, è Zeman, che gli dice di aver firmato col Pescara. La telefonata successiva la fa Insigne, e due giorni dopo arriva a Pescara anche lui. Se guardate qualche partita dell’anno scorso vi renderete conto di come Insigne faceva, completamente, quello che gli pareva. Quest’anno gli avversarî sono un po’ più duri, ma lui continua a fare quello che gli pare. Questo è il gol che ha fatto oggi, e fare gol non è neanche la cosa che gli riesce meglio. Ecco, ve la dico: Insigne sarà il nuovo Cassano. E ve lo dice uno che pensa che Cassano sia il giocatore che ha meno espresso il proprio talento degli ultimi 15 anni. Vi ricordate il famoso gol di Cassano contro l’Inter, quello dello strepitoso controllo d’esterno? Ditemi se questa cosa non ve la ricorda. Ah, e sì: avrete notato. Palla ad Anania, Insigne si allarga sulla sinistra, e lui gli scaraventa il pallone al più presto. La formula magica.

I veri problemi di Trenitalia

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Alla fine si è visto che Trenitalia, che era stata accusata di voler mandare un messaggio classista e razzista per far gola ai clienti più ricchi, ha dato la più evidente dimostrazione che mandare un messaggio classista era la cosa che meno volevano fare: appena c’è stata un’accusa di razzismo, anche degli ultimi della sala, ha rimosso la foto coi neri in classe standard (ma non il video col nero in classe executive, la prima, né le altre tre foto che pubblicizzavano la classe standard). Non volevano dare quel messaggio. Appena c’è stata un’accusa di classismo, anche degli ultimi della sala, ha permesso l’accesso alla carrozza ristorante anche alla classe standard, dimostrando – anche qui – che non volevano suggerire messaggi classisti. Non volevano dare quel messaggio. L’hanno fatto per grave cordoglio etico? Probabilmente no. L’hanno fatto perché sono un’azienda, l’azienda vuole guadagnare e il classismo – guarda un po’ – non è economicamente conveniente, oggi. Insomma, chiunque abbia accusato di malafede Trenitalia – se è a propria volta in buona fede – non può fare che una cosa: cambiare idea.

Parliamo piuttosto dei veri misteri di Trenitalia. Parliamone.

Il treno diretto (si chiama “regionale veloce”, in teoria, ma non è un regionale) 2336-2348 da Roma a Pisa fa le seguenti fermate:

Roma Termini
Roma Ostiense
Roma Trastevere
Roma San Pietro
[altre fermate]
Pisa

Il costo del biglietto da Roma Trastevere a Pisa Centrale è di 16.95 euro.
Il costo del biglietto da Roma San Pietro a Pisa Centrale è di 18.15 euro.

Cioè: facendo un tratto più breve, due fermate in meno (vale anche con Ostiense), paghi di più!

Trenitalia, perché? PERCHÉ?!?

Adriano Sofri

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Il miglior momento per piantare un albero era vent’anni fa;
il secondo miglior momento è ora.
Proverbio africano

Oggi Adriano Sofri in gergo giornalistico è tornato “un uomo libero”, come io l’ho sempre considerato da quando – ero un adolescente, uno Young Contrarian – gli sono silenziosamente grato. Non avevo ancora diciott’anni e lessi un suo articolo sul lanciare i sassi, dentro e fuori di metafora. Era una lettera con cui Sofri diceva ai diciottenni come me: «io, che ho lanciato i miei sassi, e non faccio più a tempo per non lanciarli, vi provo a spiegare – ragazzi – perché è meglio non farlo». Per me fu un seme di pensiero molto importante, indottrinato com’ero alle lodi per la coerenza, alla fedeltà alla linea. A vent’anni si è stupidi davvero.

Mi sforzai di dargli torto, ricordo, e non ci riuscii. Fu così che imparai che non è l’occasione a fare l’uomo ladro, che non si può dare il male per scontato in tutti; quello tracciò la strada per la rivelazione più importante, che non si può dare il male per scontato in nessuno. Ora che sono cresciuto ho capito anche che non è neppure un furto a fare di un uomo un ladro, e che si è sempre in tempo per non lanciare il prossimo sasso.

Di articoli di Adriano Sofri ne avevo letti e ne continuai a leggere, ma quello in particolare lo ricordo con affetto, perché è la memoria istantanea di una mia più lenta epifania. Invero, la mia gratitudine non fu completamente silenziosa, una volta gli scrissi una lettera impudica che non so se abbia mai ricevuto (mi firmai solo “Giovanni”) in cui spesi mille parole per dirgli grazie, fra le altre cose, di avermi insegnato a non lanciare i sassi. È sempre difficile raccontare a una persona quanto la si stima senza essere pacchiani, dirle che ti ha fatto da maestro quando questa non ti conosce. Mi rassegnai a dire, anche in maniera indiscreta, le cose che pensavo e che penso tuttora: che “la sua sofisticata sensibilità, il suo delicato modo d’insegnar cose” meritavano il mucchietto di parole che gli stavo scrivendo.

Così ho sempre conservato questa vicenda e quelle parole per me, e oramai è passato qualche anno. Ho riletto la lettera oggi, e un po’ me ne vergogno, ma sono contento d’averla scritta. E anche quest’altre parole, quelle che sto scrivendo qui, m’imbarazzano un po’: però penso sia il modo migliore per spiegare che io, ad Adriano Sofri, voglio bene, e anche se non lo conosco di persona e lui non sa chi sono, è un uomo che mi ha fatto crescere – certamente è una delle persone che mi ha insegnato a tenere più alla felicità dei più deboli che all’infelicità dei disonesti.

Per questo oggi è un bel giorno: perché quale che sia l’opinione di ciascuno sulla bontà della sentenza che l’ha dichiarato colpevole o sulla bontà delle idee che un tempo professava (la mia è negativa su entrambe le cose: ma cosa conta?), non c’è alcun insegnamento che alcuna persona possa trarre dal fatto che Adriano Sofri sia privato della propria libertà. Se il fine ultimo del carcere è la riabilitazione – e, per favore, lo è –, non c’è modo di dire che non sia avvenuta, anche a livello simbolico: chissà a quanti diciassettenni come me avrà insegnato che è meglio leggere un libro (o giocare alla Playstation) che lanciare dei sanpietrini.

Un paio di settimane fa, fra i migliori dei miei contatti, è girato il video qui sotto: è il discorso con cui Sergio D’Elia, ex militante di Prima Linea, segnò il proprio – e quello di molti suoi ex-compagni – passaggio dalla lotta armata alla lotta disarmata, dalla lotta al costo delle persone alla lotta per le persone. È un video commovente.

Visto che lo cito in questo post, dovrei forse specificare che – per le ragioni storiche che sappiamo – Lotta Continua non è Prima Linea; che, per questo, Sergio D’Elia appartiene comunque a un altro gruppo rispetto ad Adriano Sofri, per quello che ha fatto e per la storia che rappresenta. Ma sbaglierei: tutti appartengono allo stesso gruppo, al quale apparteniamo anche noi, quello degli esseri umani, che devono essere giudicati per quello che sono ora, e non per quello che sono stati in passato. Se possono dare un contributo alla società o, purtroppo, un detrimento.

Il video è tratto da questo documentario, ed è un video che secondo me qualifica chi lo guarda più di chi lo ha pronunciato: cosa si può obiettare alla vittoria della democrazia e della natura umana, della fratellanza e di tutti noi, se si hanno il cuore e la testa in equilibrio? Come si può considerare valore la sofferenza di un qualunque individuo, qualunque cosa abbia fatto, per la sola ottusa ragione del fargli pagare la persona che è stata e non è più?

Spero che queste non sembrino parole ingenue; sono fra le meno ingenue delle parole che ho scritto, fra le più ragionate e riflettute. Non mi sembra possibile pensare altrimenti, se non si è sedotti dal male: è un principio fondato su di una verità basilare – che non c’è etica al di fuori della sofferenza degli umani.

Come dicevo, si è sempre in tempo a non lanciare la prossima pietra. È un’idea che non ha colore. Qualche tempo fa lavorai, sulle mutilazioni genitali femminili, a No Peace Without Justice. Nella stanza a fianco alla mia lavoravano, con Nessuno Tocchi Caino, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro. S’impegnavano, e s’impegnano, assieme a Sergio D’Elia per una buona causa. È una rivoluzione così bella e commovente che in un film la crederemmo esagerata. Mi ricordo che, senza dire niente, ogni volta che li incrociavo pensavo: «qualunque vittima non potrebbe essere più riscattata di così».

E penso che sia anche grazie ad Adriano Sofri, che mi ha insegnato che si può sempre cominciare a piantare gli alberi, se la penso così. Sono felice che anche lo Stato italiano l’abbia riconosciuto, così tardi, oggi.

I cattivi

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In questo post userò l’espressione “i cattivi”, userei anche “i buoni” se ne avessi bisogno. Sopravviverete, spero.

Ieri Lele Mora ha tentato il suicidio in carcere. Vista la dinamica, si è ipotizzato che si trattasse di un’azione dimostrativa, e che Mora non volesse davvero suicidarsi. È possibile che le cose stiano così, e mi interessa poco. Ciò che, invece, mi ha lasciato una bella amarezza di fine anno sono le ironie deridenti e un certo mellifluo distacco umano con cui ho visto commentare la faccenda da tantissimi. Erano commenti cattivi. Questo non è grave di per sé: capita di farsi prendere dalla foga, dall’insofferenza verso personaggi che malsopportiamo. Poi uno te lo fa notare, tu ci pensi su, e dici «sì, effettivamente ho esagerato». E infatti c’erano delle persone, poche a dire il vero, che con delicatezza cercavano di far presente l’esagerazione di quelle cattiverie. Però quegli altri, i cattivi, anziché riconoscere l’errore, rincaravano le proprie parole. E a ogni risposta dei primi arrivava una replica dei cattivi ancora più cattiva. Io non ho avuto coraggio di intervenire, perché sapevo che il sangue mi sarebbe diventato amaro. Poi però finisce che quelle discussioni ti rimangono in testa, così come il bisogno di sfogarti, e perciò eccomi qua a scrivere.

La cosa deprimente è che neanche quegli altri, quelli che rispondevano, erano proprio buoni perché – un po’ costretti dalla forma mentis dei cattivi – a ogni intervento sentivano il dovere di schiarirsi la gola specificando che Lele Mora non lo sopportavano proprio (e naturalmente, nessuno è immune, ci ho pensato anche io buttando giù questo post: lo scrivo o non lo scrivo?), come se questo avesse una qualche rilevanza. La mia replica spreferita era quella che, invariabilmente, tutti i cattivi davano quando avevano finito gli argomenti a propria difesa – non è che ne avessero molti –, ovvero: «eh, ma perché ti occupi di Mora e non dei poveracci che muoiono in carcere?». L’obiezione è del tutto illogica, ovviamente, un principio di umanità vale per Mora come per “i poveracci”. Ma il vero paradosso è che tanti di quelli a cui era indirizzata quella frase si occupavano eccome (anche) dei-poveracci-che-muoiono-in-carcere, facendolo quasi sempre nel silenzio completo di quegli stessi cattivi, che trovano certamente il tempo di commentare con spietatezza la notizia del – presunto – suicidio di un Lele Mora, e mai quello di scrivere una parola sul 65° (e più) – consumato – suicidio di un non-Lele-Mora nell’anno appena concluso.

 

Maria Antonietta accusa Trenitalia

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Una volta che Trenitalia ne fa una giusta.

È nata una polemichetta, addirittura con accuse di razzismo, perché le ex Ferrovie dello Stato hanno creato un nuovo piano tariffario sui Frecciarossa nel quale ci sono quattro fasce anziché due (questa già dovrebbe essere considerata una cosa positiva). Di queste quattro, ce n’è una – la più bassa – che non permette l’accesso alla carrozza ristorante.

Si sono dilapidate invettive d’ogni genere, che giravano attorno all’accusa di classismo. Queste accusa non poteva che venire da persone che nel classismo sono talmente immersi, da non rendersi conto di trasudarne inconsapevolmente. Essere ricchi non è una colpa (anzi, spesso è un merito); essere ricchi e non rendersene conto è una colpa, ma una colpa piccola; essere ricchi, non rendersene conto ed ergersi a paladini dei poveri al grido «che mangino brioches!» è invece una colpa grande.

Ora, provo a spiegarlo semplice semplice: se uno è povero non prende il Frecciarossa – prende i diretti sulle tratte brevi, gli espressi su quelle lunghe. Se ce n’è la necessità, prende l’Intercity. Se può, evita in tutti i modi il Frecciarossa. Magari qualche volta lo prende di sabato (quando costa il 50%). Perché – guarda caso – l’unico modo per fare sì che uno povero prenda il Frecciarossa è abbassare il prezzo. Ecco, a rendere ancora più paradossali le critiche c’è il fatto che, con queste modifiche tariffarie, il prezzo del biglietto base diminuisce del 6-10% (5 euro sulla tratta Roma-Milano). Ora, per chi non ha mai viaggiato in seconda classe sul rapido Taranto-Ancona, sappiate che un risparmio di 10 euro su un biglietto andata-ritorno è una cosa notevole. Non immaginate quante cose si fanno per risparmiare 10 euro su un biglietto.

Ma mettiamo il caso che non si parli dei poveri poveri, ma di qualcuno che si permette a malapena il Frecciarossa (magari grazie a quel 6% in meno): affrontiamo la questione della carrozza ristorante. Se ci sono quattro tariffe e tu scegli quella più bassa vuol dire che vuoi, più di tutto, risparmiare. Fidatevi, ve lo dico io. Non vuoi per nessuna ragione cenare nella carrozza ristorante, anche detta “carrozza gioielleria” visti i prezzi: ti porti il panino da casa, o vai al McDonald’s della stazione. Io ho preso tanti treni in vita mia, raramente erano Eurostar, ma qualche volta sì. E non ho mai, dico mai, mangiato nella carrozza ristorante. Perché? Perché costava troppo. Mi è forse capitato una o due volte di prendere un caffè, e me ne sono subito pentito (e comunque il servizio bar sarà previsto per tutte e quattro le tariffe).

Ci sono tante critiche che si possono fare a Trenitalia, specie dal punto di vista di chi non ha molti soldi. La poca e inefficiente circolazione dei treni più economici, per esempio. Ma lamentarsi della mancanza di un servizio pensato per un target completamente differente, magari quello di chi critica, dimostra solo la mancanza di agnizione del personaggio “realtà”.

Lipstick on a pig

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Ho rifatto il look al blog, in particolare ho stravolto le colonne laterali. Siccome il mio amico Paolo dice che sono la persona con meno senso estetico al mondo, chiedo a chi passasse di qua – o chi legge da feed – se ha qualche parere o consiglio: scrivete, semmai, nei commenti.
Le due cose che non si toccano sono le due colonne, mi piace averne due, e in generale i colori: voglio il viola, e lo sfondo non mi piace né bianco né nero.

È morto Christopher Hitchens, era il migliore

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“Where liberty dwells, there is my country”,
Ben Franklin once said. T
om Paine had replied,
“Where liberty dwells not, there is my country”

È morto Christopher Hitchens. Era il migliore.

Hitchens era il più acuto e il più sagace, il miglior giornalista e il migliore scrittore. Era impossibile leggerlo o ascoltarlo senza imparare qualcosa, perché le sue opinioni non erano, mai, prodotte da riflessi condizionati, di partigianeria o tic mentali. C’era sempre una vigorosa e competente tensione verso la verità, che teneva i suoi ragionamenti sempre fuor di pregiudizio, come si può dire davvero di poche persone. Proprio per questo, per l’incredibile intelligenza del suo eclettismo, era impossibile capire a priori come la pensasse quando scriveva su un argomento nuovo. Eppure, ogni volta, dopo averlo letto pensavi: «cavolo, era ovvio che la pensasse così». E aveva sempre più ragione di quanto t’aspettassi.

Per questo motivo era sempre stato molto difficile identificarne la matrice politica: Hitchens era un progressista, nel senso più pieno del termine. La sua unica ideologia era l’estirpazione delle sofferenze delle persone. E lo era nella maniera più scanzonata e divertente, assieme dotata dell’arroganza dei fatti, e dell’umiltà del voler cambiare idea di fronte al torto. Se c’è una persona le cui opinioni non volevo smettere di leggere, è questa qui.

Feroce critico di qualunque conservatorismo, annichiliva – con la forza dei proprî argomenti – chiunque fosse contrario ai matrimonî gay o ai diritti delle donne sulla scorta di dogmi risalenti all’età della pietra. Era perciò un grande oppositore del Vaticano, dove fu convocato come advocatus diaboli nel processo di santificazione per Madre Teresa di Calcutta (rispose più o meno: «gratis?!?»)Per la medesima ragione Hitchens fu uno dei pochissimi a riconoscere i pericoli dell’islamismo senza che questo lo portasse al retrivo accartocciamento su di sé, del considerare occidentali – né tantomeno giudaico-cristiani – le idee di libertà (d’opinione, sessuale, di governo), per le quali qualunque persona che voglia marcare un segno su questa Terra deve combattere.

La frase in epigrafe al post è la più hitchensiana ch’io abbia letto: «”dove c’è libertà, quello è il mio Paese”, aveva detto Franklin; “dove non c’è libertà, quello è il mio Paese” aveva risposto Paine» – di cui Hitchens era grande estimatore e biografo. Era il primo nemico di qualunque dittatura al mondo. Si fece picchiare da una squadraccia fascista, per l’irrefrenabile impulso di cancellare una svastica su un muro di Beirut – «quando vedo quel simbolo non posso fare a meno di volerlo cancellare», disse. Acceso sostenitore della democrazia e del governo del popolo, è sempre stato un grande critico al vetriolo della politica estera realista, come nel caso della complicità con regimi dittatoriali delle varie amministrazioni americane durante la Guerra Fredda. Ha scritto Processo a Kissinger in cui enuncia le ragioni per cui l’ex segretario di Stato americano – e teorizzatore della dottrina realista della connivenza con le dittature – dovrebbe essere incriminato per crimini di guerra e reati contro l’umanità.

Dopo l’Undici Settembre, quando George W. Bush passò dalla piattaforma realista di isolazionismo con cui era stato eletto a farsi campione dell’esportazione della democrazia, l’indipendenza di bandiera e l’emancipazione dell’intelligenza impedirono a Hitchens di fare il salto opposto, come invece tanti altri: fu inizialmente a favore della guerra in Iraq, nonostante Cheney e Rumsfeld. Pur condividendone la pulsione ideale – umanitaria e libertaria – dell’intervento, conservò rilevanti scrupoli su come l’amministrazione Bush la stava portando avanti: sperimentò in prima persona il waterboarding per dimostrare che si trattava di una vera e propria tortura e chiedere che fosse bandito come tecnica d’interrogatorio.

In un recente dibattito contro Tony Blair, in cui Blair difendeva la posizione che la religione portasse del bene nel mondo, disse la memorabile frase: «Sapevo che avreste tirato fuori la carità e la beneficienza. Ma noi, signori e signore, sappiamo – e siamo la prima generazione che ha la fortuna di saperlo davvero – qual è il vero rimedio alla povertà. A lungo abbiamo ignorato questa cosa, ma ora la si sa. Il rimedio per la povertà ha un nome, infatti. Si chiama empowerment of women, dare potere alle donne. E dovunque si guardi nel mondo e si provi a rimuovere le catene – dell’ignoranza, delle malattie, della stupidità – alle donne è invariabilmente un qualche clero a mettere i bastoni fra le ruote». Blair, che era noto per essere un fuoriclasse dei dibattiti e dei question time, riconobbe che quel confronto l’aveva vinto Hitchens.

Del resto aveva la fama del miglior dibattitore che avesse mai messo piede sulla Terra, secondo Martin Amis avrebbe surclassato anche Cicerone o Demostene: «se devi dibattere con Hitchens, c’è un solo stratagemma che può salvarti: rinunciare», spiegò Dawkins. E, incredibilmente, non era mai noioso. Una volta , prima di un dibattito in cui Sam Harris e Hitchens avrebbero fronteggiato due rabbini, Harris raccontò di aver chiesto consiglio alla moglie su come non risultare noioso. Lei gli rispose: «non preoccuparti, niente di quello che fa Hitchens è mai noioso». Nel suo epitaffio, lo stesso Harris ha scritto: «una delle poche gioie del vivere in un mondo pieno di stupidità e ipocrisia era vedere Hitchens rispondere».

In uno degli articoli più emotivamente densi che abbia mai letto, raccontò la storia di Mark Daily, un ragazzo arruolatosi nell’esercito americano. Si augurava di poter fare qualcosa per il mondo in cui viveva, e la rimozione di uno dei regimi più sanguinarî del ‘900 gli era parsa una delle migliori cause: fu persuaso da alcuni degli articoli a favore dell’intervento scritti dallo stesso Hitchens, e partì come volontario per l’Iraq. Lì morì. Hitchens si mise in contatto con la famiglia del ragazzo, e fu al suo funerale. Dall’Iraq aveva scritto questa cosa alla moglie – credo che sia impossibile trovare parole più belle e ricche che una persona possa rivolgere a un’altra persona:

Una cosa che ho imparato su di me, da quando sono qui fuori, è che tutto quello che ti ho professato a proposito di ciò che desidero per il mondo, e ciò che ho voglia di fare per ottenerlo, era vero.

Il mio desiderio di “salvare il mondo” è, in realtà, solamente un’estensione del tentativo di costruire un mondo adatto a te.

Qualche tempo fa molte persone che avevano imparato qualcosa da Hitchens registrarono un video per ringraziarlo di com’egli avesse cambiato la loro vita. Nelle parole di uno di questi ragazzi: «grazie per avermi insegnato come pensare, non cosa pensare». Lo fecero nel modo più scanzonato, quello che sarebbe piaciuto a lui, con un bicchiere in mano, poche parole, e un brindisi a questo grande uomo che avrei tanto voluto avere come insegnante, come fratello, come vicino di casa, come barista, come compagno di bevute, ma più di tutti come amico.

È per quelli come te, Christopher, che mi dispiace tanto che tu avessi ragione – anche su quella cosa, come su tutte le altre – che Dio non c’è, e neppure una vita dopo la morte. Mi mancherai più di tutti.

Pape Diaw

2 su 5

C’è un video che gira molto su internet. In questo video c’è una persona, smaccatamente nera, chiaramente di quell’Africa che definiamo sahariana. Anzi, subsahariana. E questa persona dice cose di buon senso, le dice con un’eccellente proprietà di linguaggio, e, nel breve tempo che ha, descrive le sue opinioni e gli eventi che cita con capacità d’analisi e passione: può essere che esageri un po’ nelle definizioni, ma anche questa esagerazione è in tono – è quasi necessaria – con la questione assurda, terribile e vergognosa che è accaduta a Firenze.

Il titolo del video, quello con cui viene condiviso è “discorso di un senegalese umilia certi italiani”. E io, dalla prima volta che l’ho visto, prima ancora di imparare che quel signore si chiama Pape Diaw, che è il portavoce della comunità senegalese, che è stato per cinque anni consigliere comunale a Firenze per il centrosinistra, che è molto più che “un senegalese”, avevo un qualche fastidio nel leggere il generale entusiasmo per quelle parole – giuste, sacrosante, normali – che riuscivo solo a intuire.

Così ci ho riflettuto su, per decifrare quella linea di insofferenza che percepivo. E credo di aver capito che quello che mi infastidisce è che Diaw sia celebrato per delle cose che, dette da un italiano, non incontrerebbero 99 di quei 100 entusiasmi. È il fatto che per “un senegalese” abbiamo un orizzonte d’attesa più basso, come se ci aspettassimo meno, al punto da tradire stupore quando quel senegalese è una persona per bene, colta, ragionevole, normale. Volenti o nolenti, e per fortuna, siamo oramai un Paese multietnico, ci sono senegalesi che sono in Italia da quarant’anni, se li si può ancora chiamare senegalesi. Considerare sorprendente e degno di nota che esistano immigrati che mangiano in testa ai peggiori fra gli italiani è, come dire, un po’ razzista.

Ora direte: ma dove li metti quegli altri? Quelli peggiori, quelli che pensano e dicono cose razziste. Non so dove li metto, ma non sono generalmente il mio interlocutore immaginario. Davvero dobbiamo sempre prendere una posizione immaginando Borghezio come interlocutore? Davvero il nostro confronto dev’essere, sempre, con l’ultimo nella sala che dice le cose peggiori? Non è un po’ facile, così?

Tanja

5 su 5

per Il Post
(dove non l’ha letto nessuno,
e secondo me hanno fatto male)

Quella che segue è solo una storia, ed è una storia che ha due morali. Come tutte le storie, racconta solamente una fotografia e quella sua parte di verità. In più è successa quattro anni fa, e non l’ho mai raccontata per intero, quindi alcuni particolari potrebbero non essere precisi, anche se confido che lo siano. Mi sembra però utile a descrivere un fenomeno che si è mostrato in tutta la chiarezza con quello che è successo a Torino: ovvero il fatto che gli zingari siano l’unico gruppo etnico per il quale il razzismo è, tutto sommato, accettato in società. Un fenomeno di disumanizzazione che non avviene per nessun’altra etnia, o meglio: che quando avviene per altri gruppi incontra – giustamente – una fortissima censura.

Perché ancora più grave della fiaccolata anti zingari, ancora più grave del ginecologo delatore che riferisce ai genitori della verginità della figlia, ancora più grave di questi genitori indecenti ossessionati dalla “purezza” di una ragazza, forse anche più grave dell’idea di giustizia fai-da-te e di responsabilità collettiva, c’è il fatto che una sedicenne, di fronte a una situazione di difficoltà, ha pensato che il miglior bersaglio come capro espiatorio di un’accusa di stupro fossero gli zingari. E, si badi, se anche si desse il caso che fra i rom ci sia un tasso di violenze sessuali maggiore rispetto al resto della popolazione, questo non dovrebbe cambiare nulla, come vorrei che questa storia spiegasse. È una storia che risale al periodo in cui decisi di lavorare al tendone che la Protezione Civile allestisce a Roma ogni inverno per i senza tetto, i barboni. Le persone che ci venivano erano delle più diverse, molti immigrati, tanti con problemi d’alcol, qualcuno non aveva più una casa perché cercava qualcosa e qualcuno non ce l’aveva perché scappava da qualcosa. Fra coloro che scappavano da qualcosa c’era Tanja (ho cambiato il nome).

Tanja era una ragazza di circa sedici anni, “molto bella” come si dice in questi casi, ma in una maniera un po’ particolare, sembrava sia più giovane che più vecchia della sua età. Era nata in Bosnia, ma aveva vissuto in diverse parti d’Italia con la larghissima famiglia, per diverso tempo vicino Milano, parlava un italiano quasi perfetto anche se aveva frequentato la scuola per poco e a singhiozzo. Non si fidava di nessuno. A tredici anni era stata venduta al marito che l’aveva pagata 48mila euro per la sua bellezza e perché era vergine. Se non fosse stata vergine, il suo valore sarebbe stato dimezzato. La questione della verginità, e del sesso, varia molto a seconda delle diverse sottoetnie rom (e sinti): in alcune le donne hanno molta più libertà (sessuale), in altre non ce l’hanno neanche gli uomini.

Tanja, naturalmente, non aveva scelto il marito, né lo amava. Lui la picchiava e la costringeva a rubare (sempre assieme a una compagna più grande che la controllasse) e a drogarsi. Quando lui si faceva d’eroina, lei si chiudeva in bagno per ore, per scamparla. Spesso quando era arrabbiato, oltre a picchiarla, era lui a chiuderla a chiave nella roulotte per giornate intere. Ovviamente era una relazione in cui il confine fra stupro e rapporto consensuale non esiste. Quelle volte che la polizia era arrivata a sgomberare il campo – spesso sgomberava solo parti del campo, su base etnica – aveva battuto con i pugni sulla finestra della roulotte in cui era chiusa, per farsi notare. Qualche volta non l’avevano vista, altre volte l’avevano ignorata. Tutto questo succedeva in Italia.

La prima volta che lei riuscì a scappare la ritrovarono, la sua famiglia allargata aveva occhi ovunque, e le diedero talmente tante botte da quasi romperle la mascella, assieme alla promessa che se l’avesse rifatto l’avrebbero uccisa. Non aveva vie d’uscita: la madre di lei era complice, anzi era stata la stessa madre a venderla al marito. E per qualunque tentativo di fuga c’era la certezza che qualche parente, da qualche parte d’Italia – ma anche d’Europa – la riconoscesse. Lo sperimentammo in prima persona quando si presentò – del tutto casualmente: per avere un posto letto e un piatto caldo – una persona che lei riconobbe come cugino di un suo lontano cugino, uno che avrebbe riferito a suo marito o a suo fratello dove lei fosse. Ce lo venne a dire per tempo, tremando come non ho mai visto una persona tremare, e lo assegnammo a un’altra struttura prima che la vedesse.

Potete immaginare quanto fosse inaccettabile, per me che ero per la prima volta esposto a tali ingiustizie, il perpetuo marchiamento di quella ragazza, l’impossibilità di un qualunque riscatto. L’assistente sociale che lavorava con me, invece, conosceva suo malgrado situazioni simili. Mi spiegò che l’unica speranza era che la ragazza fosse accolta in una struttura permanente e ben custodita per qualche anno, e che nel frattempo si calmassero le acque, ovvero che il marito s’innamorasse di qualche altra povera vittima e dimenticasse il “torto subito” della sua fuga. Il primo passaggio di questo percorso d’espiazione, dell’unica colpa di essere nata in un luogo e in un tempo determinato, lo percorremmo: la trasferimmo in una struttura permanente. Dopodiché non ne ho avuto più notizie, ho cominciato a fare altro, all’estero, e come sia andata a finire non lo so.

Questa storia racconta probabilmente la vicenda più terribile che potreste ascoltare sui rom. È quella che colpisce di più – e infatti è quella che più ricordo, delle tante storie di nomadi che ho sentito in quel frangente o in altri contesti lavorativi –; altre parlano di un ambiente in cui è sempre presente il maschilismo – “rom” in romanì vuol dire uomo, ma anche marito – e una scarsa considerazione dell’infanzia, ma con un’incidenza quasi nulla della violenza e una mentalità non vendicativa. La storia di Tanja è, insomma, quella che sembra più confermare il pregiudizio della sua coetanea torinese.

Ci sono però due cose su cui bisogna riflettere. La prima è che l’unica speranza di Tanja è lo Stato, e la cosa è talmente chiara che perfino lei – cresciuta ed educata nel background più lontano – se ne rende conto. È una speranza parziale, però, perché quello stesso Stato non ha la forza o la volontà di aiutare le tante ragazze come Tanja che non hanno la fortuna di ritrovarsi fuori. È uno Stato che, troppo spesso, ha la faccia di quei poliziotti che si voltano dall’altra parte. Uno Stato che, troppo spesso, adotta quel diverso metro – e quella responsabilità collettiva – che è il primo nemico da combattere: se un torinese fa qualcosa d’illegale prende una multa o va in carcere, se lo fa un rom si provvede a espulsioni o viene sgomberato il campo dove vive (assieme a tanti altri).

La seconda, e più importante, è che Tanja è, lei stessa, una rom. È la prima vittima, molto più di chi subisce un furto d’autoradio, di tutte le cose peggiori che sono associate “ai rom”. “I rom” è Tanja. È anche la prima vittima delle fiaccolate anti-rom, dei linciaggi per responsabilità di gruppo che rischiano di dare alle fiamme la roulotte dove vive proprio lei; è vittima di qualunque sgombero, di qualunque espulsione, perché quella vicenda – che è l’unica vera questione – la seguirà ovunque venga cacciata. Lei è la persona che meno ha fatto per meritare il nostro disprezzo, eppure è la prima a cui è indirizzato.

Questi due fatti, io penso, portano alla conclusione che bisogna sempre, sempre, trattare le persone come individui. Che né la responsabilità, né la considerazione di, deve essere associata a un gruppo anziché alla persona. È un fenomeno che non si vede soltanto nella Lega Nord e nei “fiaccolanti”, ma c’è in chiunque voglia preservare una qualunque cultura – sia quella padana o quella rom, quella cristiana o quella mussulmana – a scapito della felicità e dei diritti degli individui. Non bisogna mai pensare che qualcosa sia la “nostra” o la “loro” cultura, perché il mondo a cui aspiriamo è il mondo in cui non ci sono “noi” e “loro”, e per ottenerlo non si può che cominciare iniziando a trattare gli individui solamente rispetto a sé stessi.

È l’unico modo per scardinare il meccanismo che vuole tutti i rom colpevoli di una presunta violenza e che ha purtroppo la stessa matrice dell’atteggiamento di chi – spesso animato da buone intenzioni – difende una diversa cultura, una “diversa” concezione dell’infanzia, una “diversa” concezione dell’igiene, una “diversa” concezione della legalità, e dentro la testa ha l’idea che quelle cose lì, quella diversità, siano i rom: come se fossero, geneticamente, più portati alla sporcizia, all’illegalità, ai maltrattamenti. È il caso di pensarci, di pensare a Tanja, la prossima volta che diciamo “i rom”.

Classifica di colpevolezza sulla faccenda di Torino

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E alla fine questa è la classifica di colpevolezza sulla faccenda di Torino:

1° posto, I PICCHIATORI FASCISTI che vanno a distruggere un campo rom. Avrebbero il primo posto anche se la storia dello stupro fosse stata vera.
2° posto, I GENITORI ossessionati dalla verginità della figlia, e che ossessionavano lei. La purezza sessuale. Nel 2011. Anzi, in qualunque tempo.
3° posto, IL GINECOLOGO che riporta alla madre sulla verginità della sedicenne. Da radiazione immediata.
4° posto, LA RAGAZZINA che, nel mezzo del casino creato dall’avere dei genitori indegni, decide di puntare il dito contro il capro espiatorio più facile. Attenuanti per l’età e per i genitori stessi.
5° posto, IL FRATELLO che, nella situazione, diventa complice della menzogna invece di fronteggiare ed eventualmente denunciare – se l’avessero picchiata – i genitori.
Ultimo posto, I ROM del tutto incolpevoli.